Piccolo saggio di analisi politica sulle ragioni della nascita del neopopulismo e dei cambiamenti dei partiti nelle attuali democrazie della società liquida.

Il sempre maggiore peso politico di partiti definibili come appartenenti al neopopulismo (ad esempio Alba Dorata, terzo partito alle elezioni greche di quest’anno, ed il Fronte Nazionale di Marine Le Pen col suo storico risultato alle europee francesi di circa un anno fa), deve essere considerato come un fenomeno proprio del nostro tempo, e non ridotto a mera conseguenza del periodo di crisi delle nostre democrazie. 

 

In questo senso, le parole di Ezio Mauro tratte da Repubblica sono decisamente lampanti:

 

“Viviamo in una fase di interregno, e questo può spiegare la crisi della governance, dell’autorità, della rappresentanza. Siamo sospesi tra il ‘non più’ e il ‘non ancora’, siamo instabili per forza di cose, nulla è solido attorno a noi, nemmeno la direzione di marcia. Non ci sono infatti movimenti politici che, avendo messo in crisi il vecchio mondo, siano oggi pronti a ereditarlo; non c’è un’ideologia che selezioni un pensiero vincente e lo diffonda; non c’è uno spirito costituente – morale, politico, culturale – che prometta di dare forma a nuove istituzioni per il mondo nuovo”.

 

In questa sorta di limbo non possiamo più trovare appiglio nemmeno nelle carte costituzionali, oramai desuete per una società in continuo divenire, irrefrenabile, liquida, impossibile da contenere all’intero di una rete dalle maglie oramai sfilacciate. Ed un diritto ritenuto inviolabile (quasi tangibile data la sua pesantezza), come quello al lavoro ad esempio, è costretto a cedere il passo ad un qualcosa di più effimero, elastico, adattivo allo ‘spirito del tempo’ (zeitgeist) corrente (si pensi alle molteplici riforme al quale l’articolo 18 è stato soggetto in questi anni).

 

Ma tutto questo è giustificabile laddove ci si renda conto che oramai mutazione continua e adattamento sono caratteri propri della nostra forma di modernità. Come fa notare il filosofo Zygmunt Bauman infatti, il nostro tempo è oramai caratterizzato dal crollo dell’illusione proto moderna che il percorso lungo il quale stiamo procedendo abbia uno scopo ultimo. Dalla fine dell’Unione Sovietica infatti, soprattutto il dialogo politico è divenuto un continuo rincorrersi tra un’etica ‘dei principi’ ed un’ etica della ‘responsabilità’ Weberiane, un dualismo impossibile da conciliare, ma dove ciascuna delle parti in gioco ha un ruolo necessario (ma non sufficiente) nel guidare una decisione. Ed ecco quindi che un principio ritenuto ‘fondamentale’ può venir travolto da una crisi economica, e un agire ‘responsabile’ costringe ad una sua ridefinizione.

 

Siamo quindi per così dire liberi dall’oberante compito di puntare ad uno stato di perfezione a cui giungere, ad una qualche sorta di buona società, una società giusta; “la società non esiste”, diceva Margaret Thatcher, esistono solo gli individui, coi loro particolarismi, le loro convinzioni, i loro valori, le loro paure. Ognuno può quindi percorrere la propria ‘strada’ in solitaria ricercando, forse, una qualche rappresentanza politica che rifletta lo stato d’animo del momento. E la sfera pubblica di conseguenza si spoglia di qualsiasi sostanza, di qualsiasi ruolo accomunante, riducendosi, seguendo ancora Bauman, ad un “mero luogo di pubblica confessione ed esposizione di preoccupazioni private”, sentimenti i quali non sono altro che linfa vitale per fenomeni populistici.

 

Parallelamente a questa crisi (o forse più semplicemente ‘liberazione’) di ideali, si è assistito all’inesorabile fine di un altro legame solido: il rapporto tra capitale e lavoro, una dipendenza reciproca che costringeva le due parti a comunicare per assicurare una pacifica convivenza. Ed in questo dialogo trovava forza e significato un altro strumento di aggregazione: il sindacato.

 

Durante il secolo ‘solido’ (il XX secolo) difatti, pesanti impianti di produzione si stanziavano in maniera duratura in un territorio e necessitavano della manodopera in loco per poter funzionare. Ed è proprio in questa condicio sine qua non necessaria al funzionamento del capitale che il lavoratore trovava giustificazione al suo bargaining power con lo stesso. Oggigiorno invece, il capitale è principalmente finanziario e quindi volatile, si sposta superando agilmente i confini nazionali alla ricerca di condizioni migliori, di introiti più elevati. E le industrie di settori tradizionali investono e disinvestono con sempre maggiore facilità, continuamente alla ricerca di lavoratori locali meno riottosi e a loro accondiscendenti, e gettando gli stessi in uno stato di perenne incertezza data la minaccia di un nuovo piano industriale che porti la produzione altrove. Conseguenza è quindi l’ovvio depotenziamento delle sigle sindacali ed un inesorabile isolamento del lavoratore, facile preda, ora più che mai, di politicanti promettenti impossibili tutele in caso di disoccupazione e puntanti il dito contro fantomatici ‘invasori’ pronti a tutto per ‘rubare’ un posto di lavoro.

 

L’individuo, quindi il singolo, è oramai il solo interlocutore del politico. Ma gli individui sono sempre più portati ad affacciarsi sul ‘proscenio pubblico’ non per negoziare il bene comune o per discutere della res publica, ma poiché spinti da una esigenza di relazionarsi, di condividere le proprie intimità e convincimenti, dando vita a comunità frammentate (e perciò limitate nelle dimensioni) basate su ansie comuni e odi comuni. Ed ecco quindi che il sistema partitico (rappresentane ora quale idea? Quale ideale? Chi?) viene messo in crisi, mentre il populista, decodificando di volta in volta il milieu, si serve nei suoi discorsi delle parole chiave più ‘twittate’ per far vibrare le coscienze e drenare così facile consenso.

 

Non ci resta quindi che assistere a quella che pare essere una vera e propria battaglia (a colpi di hasthag) tra i partiti tradizionali e le nuove realtà politiche del neopopulismo, poiché con tutta probabilità è proprio da questo ‘scontro’ che si andranno delineando le nuove democrazie del futuro.