È nata una nuova “superstar” tra gli economisti. Curioso è che non si tratti di qualche “capoccione” del MIT o di Harvard, ma di un francese noto più per le sue percosse alla ex-moglie, ora attuale ministro della cultura francese, che per i risultati accademici conseguiti. Almeno fino ad ora. Il suo nome è Thomas Piketty, studioso del vecchio continente che ha letteralmente conquistato il mondo accademico ed il dibattito economico come non accadeva dagli anni di Keyens. Le Capital au XXIe Siécle, sta facendo su Amazon vera e propria incetta di prenotazioni e l’autorevole The Economist ironizza sulla sua fama con un articolo dal titolo “Bigger than Marx”.

Ed è proprio prendendo spunto da Marx e dalla sua tesi di un accumulo infinito del capitale che Piketty “narra” di una “storia” dal potere quasi rivoluzionario. Nell’opera infatti, con tanto di dati e formule alla mano, lo studioso giunge a provare come nei sistemi capitalistici moderni per una legge “meccanica”, quasi “di natura”, i ricchi stiano divenendo, e diventeranno, sempre più ricchi. La disuguaglianza sociale continuerà inesorabile ad aumentare e i valori di giustizia sociale su cui poggiano le società democratiche saranno in futuro seriamente minacciati. Il meccanismo descritto dall’economista francese sembra poi talmente invincibile che i critici più liberisti hanno semplicemente concluso come, nel mondo di Piketty, i capitalisti non debbano sentirsi troppo in colpa. Non dipende da loro se diventano sempre più ricchi, “it’s the economy, stupid”.

Per spiegare in parole povere cosa sta accadendo, secondo il teorico francese il ritmo di crescita della produzione industriale (sintesi del concetto di “economia reale”) nel lungo periodo non supera mai in maniera significativa un valore annuo pari a 1-1.5% in termini reali. E a fronte di un aumento del PIL intrinsecamente debole, il rendimento dei capitali finanziari e patrimoniali corre molto più rapidamente:

“La rendita media del capitale è del 4-5% all’anno […].Di conseguenza, come nella prima fase del capitalismo ottocentesco, oggi il rendimento del capitale è più elevato della tasso di crescita. E questa situazione scava sempre di più le disuguaglianze patrimoniali. Il capitale si riproduce da solo molto più rapidamente della crescita economica, e i ricchi diventano sempre più ricchi”.

In passato, un altro economista ci aveva invece convinto del contrario. Simon Kuznets sosteneva, infatti, come il divario tra classi abbienti e meno abbienti tenda a ridursi durante le fasi di sviluppo economico. A sostegno di una tale tesi, lo studioso faceva notare come dal 1913 al 1948 la quota del reddito prodotto facente capo al segmento della popolazione USA più abbiente era diminuita di circa il 10%. Controbatte, invece, Piketty propugnando come il vero motivo trainante quella redistribuzione siano state le due guerre mondiali, fenomeni traumatici e veri “bilanciatori” della differenza tra ricchi e poveri di quel periodo.

Evidente è quindi come venga colpita al cuore quell’ipotesi di autoregolazione del sistema economico, spesso bandiera dei sostenitori del libero mercato a tutti i costi e in tutte le occasioni:

“Non esistono soluzioni naturali. Il sistema da solo non riduce le disuguaglianze. L’errore dei liberali è di credere che la crescita da sola possa risolvere ogni problema, favorendo la mobilità sociale. In realtà non è così. Le disuguaglianze restano e anzi si accentuano.”

Torna quindi a bussare (o almeno dovrebbe farlo) prepotentemente alla porta “Politica” per riappropriarsi del suo primato sull’economia ad oggi perduto:

“Il mercato e la proprietà privata hanno certamente molti aspetti positivi, sono la fonte della ricchezza e dello sviluppo, ma non conoscono né limiti né morale. Tocca alla politica riequilibrare un sistema che rischia di rimettere in discussione i nostri valori democratici e di uguaglianza.”

Dal Financial Times fanno però notare che Piketty ci ha spiegato tutto tranne perché la disuguaglianza è così disdicevole. Il filosofo John Rawls sosteneva infatti che un certo tasso di disuguaglianza fosse accettabile purché ne traessero beneficio anche gli ultimi della scala sociale (e mi aggiungo a coloro che appoggiano tale visione). Su questo ammetto ci possa esser da ridire, ma di sicuro le teorie dell’economista francese sono arrivate al momento giusto: dopo sette anni di crisi, in tutto il mondo gli economisti tirano un sospiro di sollievo. Finalmente c’è una nuova narrazione che spiega cosa sta accadendo: i ricchi che si arricchiscono, i politici che non fanno abbastanza politiche re-distributive, gli imprenditori che non investono nell’economia reale, le banche che non prestano perché meno profittevole. E sono tutti assolti.