Una riflessione sul bisogno di banale bellezza, in questi giorni di cupa complessità.

Qualcosa è cambiato, lo sappiamo tutti; “qualcosa è cambiato”, ce lo continuiamo a ripetere a denti stretti. Qualcosa ci fa sentire meno sicuri; meno adatti a questa vita, a questa città, a quel treno che prendiamo ogni giorno, a quell’aereo su cui saliamo ogni anno per andare in vacanza, a quel lavoro che ci piace ma che non è quello che volevamo davvero fare da piccoli, a quei sogni che per un po’ abbiamo messo da parte ma che adesso ci sentiamo in dovere di ritirare fuori al più presto perché il tempo sembra improvvisamente scarseggiare. Per questo, poichè siamo così coinvolti, è difficile non essere banali nelle reazioni per non risultare banalmente indignati, banalmente tristi, banalmente impauriti  e banalmente volenterosi di andare avanti. Mi sono quindi chiesto se questa banalità, che accompagna fedelmente ogni tipo di reazione agli eventi di questi giorni, sia qualcosa di umanamente accettabile o se invece se sia qualcosa da condannare, come alcuni cari censori da social network vogliono per forza farci capire. Sopratutto mi sono chiesto se questa banalità sia una cosa bella o brutta esteticamente parlando, e ho esteso il ragionamento alla musica e alle canzoni. Sia perché qui è di musica che devo parlare, sia perché in questa vicenda la musica ha un ruolo importante. Basta pensare alle note di “Imagine” suonate vicino al Bataclan; oppure al cantare spontaneo de “La Marsigliese” da parte delle persone che stavano uscendo dallo Stade De France quel venerdì maledetto (mia madre mi ha detto che le hanno ricordato di quando da bambino cantavo le canzoni dei cartoni animati per scacciare la paura dell’uomo nero); oppure, ancora, al semplice comunicato degli Eagles Of Death Metal (non scordiamoci che i terroristi hanno scelto di attaccare anche la nostra musica e un nostro concerto) in cui si legge che “l’amore ha superato il male” nonostante tutto, in quella terribile sera, in quei terribili momenti, visto che le vittime cercavano con tutte le forze di aiutarsi tra di loro.

 

eagles of death metal paris

 

Insomma sebbene le sette note siano sempre le stesse e nella nostra musica pop si intreccino sempre in modi simili e mai troppo originali, rimangono le parole de l’unica lingua che trascende la razionalità e che riesce a esprimere sempre sentimenti condivisi” di cui in questi giorni abbiamo davvero bisogno. E ben venga la semplicità di quei sentimenti condivisi portati dalla musica, perché in questo momento non abbiamo bisogno di complessità, non abbiamo bisogno di professori annoiati e infelici che ci sbattono in faccia la nostra ignoranza e la nostra banalità, non abbiamo bisogno di sentirci stupidi, opportunisti, ignoranti e fatalisti. Abbiamo solo bisogno di stare insieme e cantare tenendoci per mano nel buio dei nostri lettini per scacciare l’uomo nero. E non importa se siamo banali, non importa se non siamo “all’altezza”, vogliamo solo sentirci sicuri, anche se forse mai lo saremo davvero. E vogliamo farlo cantando. Perché cantando insieme, nel buio, rendiamo la nostra banalità una immensa bellezza, che con orgoglio contrapponiamo alla bruttezza complessa ed ultra-stratificata a cui assistiamo. Vogliamo gridare “libertà!”, proprio come hanno fatto gli 80.000 di Wembley o proprio come fa Pharrell nel suo ultimo singolo, uscito il giugno scorso ma che ora assume tutto un’altro valore. Il brano, semplice, lineare e ipnotico (vi ricordate una certa “Happy”?) è si banale e “già sentito”, ma è comunque una bellezza. Qualcuno ha detto che non importa che una cosa debba essere per forza originale per essere bella. A pensarci bene questo pezzo potrebbe rappresentare in questi giorni la “banalità della bellezza”, che in fondo adesso è tutto ciò di cui abbiamo bisogno.

 

A proposito, si intitola “Freedom”.  

 

 

 

di Filippo Santini