Liolà di Luigi Pirandello. Una commedia non gioconda, allegra con cattiveria.

Le due definizioni del noto testo pirandelliano riportate nel titolo, apparentemente contraddittorie, se non schiettamente ossimoriche, sono del critico Renato Simoni, e sono apparse nel Corriere della sera del 14 gennaio 1917, subito dopo la “prima”. Simoni scrisse testualmente: “Questa commedia ride, ma non è gioconda; è allegra con cattiveria a spese di tutti”. Riguardo al protagonista, Liolà, annotò inoltre: “ha tante donne e nemmeno un poco d’amore”. La leggerezza ha in sé il dono e la condanna della gravità. O viceversa. Liolà, in qualche modo, incarna e personifica, per forza e per scelta, diversi modi di muoversi, di pensare, perfino di vivere. Liolà vive cantando. Una delle sue canzoni preferite è uno specchio fedele del suo mondo e anche di ciò che lo pungola, lo motiva, lo attrae come una calamita: “Ho per cervello/ un mulinello:/ il vento soffia e me lo fa girare./ Con me gira il mondo, e pare/ gira e pare/ gira e pare/ gira e pare un carosello”.

 

Perfetto. Assolutamente balnear-popolare. E il riferimento finale al “carosello”, in questa nostra epoca televisiomane, non può non far pensare un po’ anche agli inesorabili spot. Quelli che ormai, anche lontano da casa e dal proprio salotto, si vedono ovunque, dai maxischermi ai cartelloni autostradali, per finire magare sul display apparentemente privato e personale del telefonino. Ma chiudiamo qui il volo pindarico, e torniamo al buon Liolà. La chiave è proprio in quel piccolo e quasi innocuo aggettivo: “buono”. La commedia di Luigi Pirandello ruota attorno al ridente e amaro dilemma: Liolà è veramente buono e innocente? La sua spensierata naturalezza è di per sé qualcosa di sacro nella sua innata semplicità? È qualcosa che lo rende immune, al di sopra e al di fuori di qualsiasi possibile giudizio? Ai posteri l’ardua sentenza, come sempre. Ma, conoscendo Pirandello, un’idea sulla risposta, o almeno sulla risposta più probabile, è lecito farsela.

 

“Commedia campestre in tre atti”, è questa la definizione che Pirandello stesso diede di Liolà. Di notevole interesse sono i progenitori, per così dire, del testo. In primo luogo un antenato celebre, nobile e impegnativo: Mattia Pascal, in particolare il quarto capitolo del romanzo. L’altra ava è “La mosca”, la nota novella che fa parte della raccolta Novelle per un anno. Gran bella coppia di genitori: da una parte Mattia Pascal, eternamente sospeso tra vita e morte, verità e menzogna, felicità cercata e sognata; dall’altra un insetto, estivo per antonomasia anch’esso, simbolo dell’ebbrezza dei campi, ma anche di ozi forzati e ottusi disturbi. Anche l’ambientazione della commedia è eminentemente estiva: la campagna siciliana, sotto un sole antico, secolare, gesti pigri, e tutto per il tempo per guardare, osservare, vedere, vedere per pensare (o per non pensare) o pensare di vedere. Liolà: il nome del protagonista è emblematico. Per un gioco di significative assonanze, dà l’idea di una irriducibile leggerezza. Lì o là, qui o altrove. Con l’impressione che per lui vada bene lo stesso, sia a suo agio comunque, come un’ape sui fiori. Liolà è un dongiovanni campagnolo, con tutti i vantaggi e tutte le complicazioni che tale combinazione di ruolo e collocazione comporta.

 

Qualcuno ha osservato che, rispetto ad altri testi pirandelliani, Liolà e più scevro da implicazioni intellettualistiche. Ciò in parte è vero, almeno in partenza. Ma è proprio qui l’abilità dell’autore; fa trasparire, nelle luci nitide e dirette dell’ambientazione e della psicologia del protagonista, le ombre a lui care: gli interrogativi sul valore della morale, dell’etica, di quella necessità ingombrante e vitale dell’uomo di stare in mezzo agli altri, con tutto ciò che comporta, a livello di compromessi e taciti patti con se stessi. Citando il titolo di un altro testo dello stesso autore, si può dire che anche Liolà sia un percorso, un tragitto acrobatico sul filo sospeso tra la certezza che la vita Non è una cosa seria e il bisogno, ugualmente imprescindibile, di credere, o far finta di credere, che in realtà lo sia.

 

Liolà, come già era accaduto a Mattia Pascal, mette incinta una ragazza quasi per burla. Nel suo caso però la colpa, e il senso di colpa, appaiono differenti. La morale di Liolà, anche e soprattutto con le donne, è che non esista una morale. Se ciò lo renda più o meno colpevole rispetto al tormentato Pascal, è un altro di quegli arcani che ciascun spettatore e ciascun lettore è chiamato a tentare di risolvere da solo. Se Liolà fosse sempre ed esclusivamente innocente, ciò renderebbe agevole e consolatorio l’atto di assoluzione. Ma il problema, e la ricchezza del testo, è che, al contrario, in molte altre circostanze il protagonista si mostra acuto e conscio nei giudizi e nelle opzioni. Sa cos’è la giustizia, sa da che parte schierarsi. A volte a fin di bene, come quando salva Mita, la donna malmenata e cacciata di casa dal marito. La salva a modo suo, mettendo anche lei incinta. Ognuno, si sa, usa i mezzi a lui più consoni. Ma, battute esorcizzanti a parte, nel caso di Mita Liolà si mostra capace di altruismo. Di bontà, è giusto ribadirlo. Ma chi conosce il bene, fatalmente, conosce anche il suo contrario.

 

Liolà è e rimane, tuttavia, per molti versi, un personaggio simpatico, proprio in virtù dell’umanità a cui resta fedele e coerente. Anche in modo caotico, confusionario, ma sempre tenace. Alterna lievità aeree a profondi e coraggiosi ripensamenti. Emblematico è l’atteggiamento che adotta con i figli da lui generati per “eccesso di entusiasmo”: allontana una ad una le donne da cui li ha avuti, ma prende in casa con sé la prole. Si ritrova così ad avere in casa quattro figli e nessuna moglie. Alla fine del primo atto, in uno dei numerosi e lunghi passaggi scritti da Pirandello in un dialetto siciliano reso comprensibile a tutti, Zà Cruci, ossia Zia Croce (nome estremamente evocativo), rivolge severa e accorata a Liolà la seguente invettiva: “Ma chi diavolu dici? Chi fa’? Sparli? Cu’ ti capisci? Una pazza sula si putissi pigliari un furfurino comu a ttia! E nun ti basta d’aviri conzumatu tri figli di mamma? Tu sì comu la serpe ‘mpasturavacchi!”. Sinceramente non so dire esattamente come sia fatta la suddetta serpe. Ma il nome, anche su un piano puramente onomatopeico, rende bene l’idea. Al di là del discorso linguistico, le accuse di Zia Croce a Liolà pongono l’accento sul nodo irrisolto della questione. Liolà si occupa degli innocenti da lui nati, ma non soffre dell’assurdità della situazione, né pare in grado di comprendere i problemi che avranno i bambini una volta cresciuti. Ma forse, è possibile immaginare (come di certo, nella sua impalpabile profondità, ha fatto il protagonista del testo) che i suoi figli vengano allevati dalle rispettive madri e vezzeggiati da tutte le ragazze del paese. Liolà tutto sommato è un privilegiato, è questa una delle poche conclusioni certe o quasi. È soggetto, come tutti i personaggi pirandelliani, al “sentimento del contrario”. Ma, per sua fortuna, non se ne accorge. È immune alla condanna di vedersi vivere. Al di là di ogni possibile giudizio, è un essere vitalistico, avido esclusivamente di sole e di canzoni. Ed è questo il patrimonio che lascerà ai figli. Insegnerà loro a cantare. Magari la sua filastrocca preferita: “Ho per cervello un mulinello/ gira e pare/ gira e pare/ gira e pare un carosello”.