"Quella quiete animata non somigliava in nulla e per nulla a una pace".

La luce rovina la carta. La fa scurire. La offusca.

 

Non è paradosso, di conseguenza, non è follia, leggere Cuore di tenebra nel buio. Sfogliare le pagine con dita frementi, come un bambino che divora di nascosto, sotto le coperte, le parole di un’orrida fiaba. Sfogliare le pagine per scoprire cosa e dove è la tenebra. Non è follia. O, se lo è, ne ho bisogno, ne ho sete e fame. È qui che sono giunto. A questo confine, questa desolata terra di nessuno, mi ha condotto la strada. Leggere al buio l’incubo in forma di metafora di Joseph Conrad. Per mantenere un minimo di luce, di contrasto: il bianco, il nero, la distinzione, lo scarto. Scacchiera di una partita senza inizio né fine. Difendiamoci. Salviamo il re e la regina, sacrifichiamo i pedoni. Difendiamoci. Da noi stessi. Visto che nessuno ci aiuta. Se davvero è così.

 

Leggere e ascoltare, ad occhi e orecchi spalancati, senza riuscire a smettere un solo istante, il vicino di casa. I rumori, i silenzi, gli assalti al mio corpo, reale, di carne e paure. Non l’ho mai visto. Non so se è bianco, nero, rosso, se è alto o basso, grasso o magro, se ha uno sguardo astuto o innocente. C’è, qui, in questa casa dalle finestre sbarrate, il progresso, la certezza della civilizzazione: il microonde, la radio-sveglia, il computer. La pazienza, santificata, esaltata in mille ore di lezioni. Già. Ma lui è là. Non si ferma. Mi scruta, logora come un dentista sadico e sarcastico. Tenace come un morso, un conato di vomito, senza la gioia di un respiro più ampio e pulito.

 

Ho provato a scrivere, a dare misura alla corsa affannata della mente, i ricordi, le immagini. Le parole però sono scure, selvagge. Ti scagliano contro frecce curaro al dal fitto della boscaglia. Sono nere, le parole. Anche se fingi che l’inchiostro sia azzurro, verde, viola. Chiare e certe sono solo le ipotesi, le scommesse. Il resto oscilla, vibra nell’aria impalpabile.

 

È là fuori. Avido senza audacia e crudele senza coraggio. Là, nei suoi territori, nelle sue fortificazioni. Incrollabile nell’etica del lavoro di demolizione. Strappa via da me l’avorio della gioia, la spinta a vivere. Lo accumula per pura ingordigia, senza altro scopo né funzione. Forse vuole sentirsi un dio. Lo tiene vivo tuttavia solo la più umana e misera delle condizioni: la meschinità dell’orgoglio, l’orgoglio della meschinità.

 

Dovrei dialogare con lui. So che è questo che desidera. È ciò per cui sono stato chiamato. Scambiare con lui frasi e pensieri. Il senso del mio viaggio in fondo è questo. Salvare lui per salvare me. O viceversa. Resto inchiodato qui. Sfoglio una ad una le pagine, avvinto, avviluppato da una trama che non varia, priva di eventi e mutamenti , come un fiume limaccioso, acque morte, stagnanti. Neppure le frecciate degli indigeni che continuano a sibilare a un palmo dalle tempie sembrano vere. Solo il tragitto esiste. Il moto, reale o apparente che sia.

 

Kurtz è un uomo notevole. Me lo hanno detto e confermato fino alla nausea. Certo. Tutti lo siamo. Ma notevoli per chi? Per quali occhi, quale logica? Du calme, du calme. Adieu. È questo l’accorato lasciapassare di tutti i saggi e tutti i dottori. E il mio viaggio può riprendere. Atto alla missione, abile arruolato, pronto a muovere verso un continente ancora da esplorare.

 

Devo prendere il suo posto. Sostituire Kurtz in tutto e per tutto, diventare il suo perfetto alter-ego. Il solo orrore di cui sono certo, sicuro, è questo: somigliargli. Arrivare ad essere simile, identico a lui. C’è un fascino nell’abominio. Ancora più forte però è il desiderio di scappare, fuggire lontano, dentro le proprie trincee.

 

“Non voglio rassegnarmi ad essere cattivo/ tu sola puoi salvarmi/ tu sola e te lo scrivo”. Borbotto tra me e me questi brandelli di note tra riso e tensione. Anche una canzone può servire ora. Se solo sapessi a chi dedicarla. Io, Cyrano scalcagnato che non può vantarsi neppure di essere cadetto di Guascogna, cerco una musa, un’ispiratrice. Una Rossana ideale: la verità, la speranza, l’amore magari.

 

Lui è già fidanzato. Ha trovato qualcuno che lo accetta com’è. Anch’io, come Marlow, mentirei alla sua fidanzata se mi chiedesse di parlarle del suo amore. Inventerei una menzogna qualunque. Più benevola in fondo, dei denti acuminati della realtà. Kurtz è la solitudine, affermano. Ed è la solitudine che lo ha ridotto così. No. Lui è l’orrore che sconfina nel mio.

 

Bussa alla porta adesso. Agli stipiti di legno e di ferro di questa sera quieta e terrificante. È gelido l’appartamento, il marmo delle scale, il fruscio e il battere incalzante dei passi. Odori crudi, carne putrefatta. Persino i profumi più familiari, il caffè, le verdure, il dopobarba, trasudano linfa di morte.

 

Vuole che io parli. Che dia fiato e respiro al mio orrore per lui. Che gridi il mio odio, nutrendolo, dandogli corpo. Dando corpo all’incubo. Per lui io sono il nemico. Vorrebbe che esclamassi lo stesso con identica linearità. Non ci riesco. Io, per salvarmi, continuo ad adorare la verità del mio silenzio. L’illusione, assurda e vitale, di non averlo mai visto né sentito.

 

Nego. Resto sordo e cieco. Anche al suo urlo e al coltello che avanza rapido nel buio. La lama poggiata sulle vene del collo.

 

La bugia più grande? Dire che Kurtz non esiste. O che esiste. Che differenza fa? Niente ha sostanza e dimensione nella tenebra assoluta. Niente. E il contrario di niente.

 

“Che ne è della menzogna?” – si chiedeva l’antropologo James Clifford. La domanda rimane, persiste. Anch’io, come Marlow, all’inizio ho provato schifo per la bugia, ed ora, alla fine di tutto, mi ritrovo a mentire per evitare la catastrofe. O almeno a riflettere, come Clifford, sul fascino esile e letale di un’affermazione: “I frutti puri impazziscono”.

 

Forse è poesia, forse logica, forse niente di tutto questo. Ancora una volta niente di niente. Il rebus è senza soluzione, resta oscuro il punto cardine, il cuore della questione: se il puro sia io oppure lui. Se la pazzia è la sua essenza esclusiva, allora, di conseguenza, lo è anche la purezza. La purezza putrida, l’integrità della follia. A me, adesso, rimane il sangue delle vene del collo, ancora caldo, ancora vivo. E un pensiero, l’idea di sempre: “siamo tagliati fuori dalla comprensione di ciò che abbiamo intorno. Il significato non è all’interno. È fuori. Un alone di foschia reso visibile a tratti da spettrali riflessi lunari”.

 

La verità interiore è nascosta.

 

Luckily, luckily.

 

Per fortuna. Per fortuna.