Un approfondimento su José Mourinho, il genio della comunicazione che è riuscito a dar senso a un'intervista sportiva.

Non sono preoccupato dalla pressione. Se avessi voluto un lavoro facile, lavorando con la grande protezione di quello che avevo già fatto, sarei rimasto al Porto – una bella sedia blu, una Uefa Champions League, Dio, e dopo Dio, io.” Jose Mourinho

 

È sempre difficile parlare di Dio, quando si vuole affrontare l’argomento in maniera seria. Si rischia di scomodare paragoni impropri che possono tradursi poi in decisioni affrettate, come l’invasione della Polonia o il lancio di motorini in fiamme giù dal terzo anello di San Siro. Volendo evitare questo genere di ripercussioni, non parlerò di un Dio pieno, ma di uno a metà. Un semidio, tipo Hercules. Nella mente di molti suoi tifosi, la figura di José Mourinho da Setubal assume sicuramente un’importanza non distante da quella che Hercules assumeva per i suoi seguaci qualche tempo fa, quando faceva strage di Hydra a mani nude, un po’ come Mou fa strage di giornalisti e trofei. Devo ammettere che io stesso, in passato, quando il ‘mago di Setubal’ è venuto a giocare nella mia città, gli sono corso dietro per centinaia di metri, a gennaio, di sabato sera, lungo la più importante arteria cittadina, pur di riuscire a strappargli una foto. Sono un idiota? Possibile, ma ero in buona compagnia. Esistono mille cause più nobili per perdere la dignità davanti ai tuoi concittadini? Sicuramente, ma, per citare un Venditti di annata:

 

“…chi non si è mai innamorato di quella del primo banco?…”.

 

Nessuno, appunto.

 

Abbiamo tutti avuto un grande amore. In genere, finito male. Altrimenti non lo chiameremmo ancora così. Chiamare in causa l’archetipo universale dell’amore per parlare di un allenatore di calcio può sembrare, a prima vista, espediente narrativo ardito. Ma, a scavare in profondità, ci si accorge che non lo è poi più di tanto. Perché José Mario dos Santos Mourinho Félix, per gli amici ‘The Special One’, sarà sempre quella del primo banco un po’ per tutti. Per i suoi tifosi, per i suoi nemici, per la stampa, e per sé stesso. L’amore non è necessariamente un concetto positivo, la nozione stessa di odio, ad esempio, nasce per contrasto all’amore, ma non potrebbe esistere in sua assenza. Perché si possa odiare, quindi, deve essere presente, in qualche forma, amore.

 

Josè Mourinho, sin da quando è salito agli onori della cronaca vincendo la sua prima Champions League con il Porto, nel lontano 2004, si è sempre portato dietro un’incrollabile schiera di ammiratori e un altrettanto agguerrito manipolo di denigratori – capire dove stiano i più, sarebbe un interessante soggetto di studio. Non avendo però gli strumenti per campionare l’intera popolazione calcistica mondiale, posso solo limitarmi a portare avanti qualche breve riflessione su quale sia stato l’apporto di Mourinho a livello di comunicazione sportiva.

 

In principio, era l’amore.

 

Prima dell’avvento del mago di Setubal, il mondo del calcio internazionale era popolato, con le dovute eccezioni, da serafici personaggi abbottonati che si limitavano a commentare le partite dal punto di vista tecnico-tattico; polemizzando magari con le decisioni arbitrali o dissentendo qua e là sulle analisi di giornalisti e avversari, ma sempre secondo i dettami del ‘politically correct’. Anche negli anni d’oro del nostro calcio, il massimo del vituperio poteva essere rappresentato da qualche insinuazione garbata del vulcanico maestro Zeman o dalla semplice grammatica compromessa di un Trapattoni, ma mai che qualcuno si scagliasse di petto contro un avversario, un’associazione, o un paese. José Mourinho sì. José Mourinho ha stravolto questo equilibrio, introducendo nel calcio un nuovo modo di comunicare. Con lui, le interviste post-partita sono diventate spettacoli d’avanguardia teatrale, spesso modellati attorno allo stereotipo classico della fabula: Noi (il bene), contro Loro (il male). La giustizia contro la corruzione. I buoni contro i cattivi. Con Mourinho, la guerra è entrata nello sport, e lo sport è entrato in guerra.

 

Se, da un punto di vista sportivo, lo schema ‘soli contro tutti’ può portare a risultati insperati e a un’amalgama crescente nel gruppo, a livello mediatico può tradursi in un vero e proprio terreno di scontro. Mettendo da parte i giudizi morali, è inevitabile prendere atto di come Mourinho abbia introdotto nel linguaggio calcistico una serie di nuovi significati. Chi, prima di lui, si era mai sognato di parlare apertamente di ‘prostituzione intellettuale’? O aveva mai attribuito la maternità – fisica – di un goal al guardalinee? O dato dell’imbroglione a un Messi, fresco pallone d’oro, perché Barcellona è città di teatri? Nessuno. O magari qualcuno ci aveva pure provato, ma con risultati goffi e dimenticabili. Non è un caso se, prima di lui, il massimo che ci si poteva ricordare era il Trapattoniano “non dire gatto se non l’hai nel sacco”, e dopo il suo avvento siamo passati a chiamare in causa “l’onextà intellectuale o l’integrità morale di un paese”. Una volta, non pago, dopo un derby vinto in 9 contro 11, l’aveva buttata sul politico: “Il paese è vostro, il campionato è vostro, il problema è vostro, non mio…” riferendosi a un presunto favoritismo verso la squadra dell’allora presidente del consiglio. Nessuno può dire quanto ci credesse, ma per una settimana non si parlò d’altro. É pervasivo, Mou, e sa di esserlo. E poi vende, e sa anche questo: “Perché mi attaccano tutti? Facile, perché sanno che il giorno dopo le prime pagine dei giornali si occuperanno di loro. È tutta pubblicità gratis.”

 

Non è un tipo timido, Mourinho, e probabilmente non è neanche modesto. Ancora oggi, a distanza di cinque anni dalla sua ultima intervista come allenatore di una squadra italiana, l’esegesi calcistica del belpaese si ritrova orfana di uno dei suoi maggiori collaboratori. Mou ha risvegliato quel piacere sotterraneo per la polemica, per la diatriba da strada, che sui popoli latini ha sempre avuto un certo ascendente. Andandosene, ha lasciato un vuoto nel giornalismo sportivo italiano. Un vuoto che stiamo cercando di colmare riproducendo l’archetipo della fabula con interpreti nostrani, ma senza riuscire a produrre lo stesso effetto. Del resto, come potremmo? I suoi proseliti probabilmente risponderebbero: “Non avrai altro Mou all’infuori di me”. E il punto è proprio questo. Che piaccia o meno, malgrado i tanti tentativi di imitazione, di “Special One” ne esiste uno solo, altrimenti non si chiamerebbe così. Sarebbe come chiedere a un altro Presidente del Consiglio, magari più giovane, di fare il Berlusconi: simpatico, ma non è la stessa cosa. D’altra parte, ve lo immaginate un Allegri che, in perfetto livornese cadenzato, alla sua prima intervista sulla panchina della Juve afferma, sornione: “Deh, io non sono un baleng”? O un Sarri che dà del ‘voyeur’ a Garcia? (Sì, Mou ha fatto anche questo, col suo amico Arsène Wenger, tecnico dell’Arsenal, reo di nominare troppo spesso il suo nome invano). Potrebbero provarci, ma i risultati sarebbero probabilmente comici.

 

Mourinho è un fenomeno comunicativo dall’impareggiabile pervasività. Un comunicatore potente. Puoi amarlo, e sarà il tuo credo. Puoi odiarlo, ma non potrai comunque fare a meno di ascoltarlo. La sua potenza espressiva è tale che molte delle sue uscite sono ancora oggi slogan in molti dei paesi in cui ha allenato. Recentemente, Mou non sembra passarsela bene a livello sportivo – a livello economico, invece, potrebbe acquistare la Sardegna – e, come spesso accade alla caduta degli Dei, i pagani cominciano a bruciare i templi e i pochi fedeli sono costretti a rintanarsi nelle catacombe, onorando il proprio credo con qualche frase a effetto rubata su Facebook o Twitter. Non a caso, alla notizia del suo esonero, il web si è nuovamente scatenato in celebrazioni e sfottò, sintomo che le vicende del ‘mago’ sono ancora care a tutti nell’ambiente.

 

Solo il tempo saprà dirci se il Mourinho sportivo tornerà a trionfare sui campi di mezzo mondo o se verrà spodestato dai Guardiola e dagli Enrique di turno. L’unica cosa che penso di poter dare per certo è che il suo modello comunicativo è ancora oggi quello più vincente, come testimoniano le continue attenzioni che l’intero mondo mediatico gli riserva e che, in un modo o nell’altro, sembrano confermare sul piano comunicativo quello che il campo di calcio sta mettendo in discussione: “Non sono il migliore del mondo, ma penso che nessuno sia migliore di me”.

 

Parole e musica di Josè Mourinho, il mago di Setubal.