Gabriel Garcia Marquez è un mito difficile da scordare. Oggi nell'anniversario della sua morte, lo ricordiamo così. Ecco la storia di un grande scrittore.

La prima volta che mi imbattei in Márquez avevo solo diciassette anni e non avevo ancora letto niente di simile. Ovviamente il testo era Cent’anni di solitudine, che per caso o per fortuna, capita spesso fra le mani di ogni buon lettore.
«Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito».
 
Così riporta il potente incipit di cui mi innamorai subito.
 
Sembra quasi che tutto abbia inizio lì, a Macondo, vita, morte e magia che si intrecciano in cent’anni di storia di una città e dei suoi abitanti, cent’anni di storia della famiglia Buendía, ma anche di guerra, sogni e speranze.
 
Macondo è un pò come l’Aracataca in cui nacque Márquez, in Colombia nel lontano 1928, e i personaggi di Cent’anni di solitudine sono figli del dolore di una nazione, spettri passati che ritornano. I nonni di Márquez erano uno colonnello e l’altra chiaroveggente, ed ecco apparire il colonnello Aureliano Buendía, uscire fuori dalla pagina per rimanere impresso nei nostri ricordi. Márquez ebbe dei genitori erranti, per questo passò molto tempo coi nonni ad Aracataca, villaggio bananiero su cui si abbatté una forte depressione economica, e sembrano essere tutti qui, i temi cari all’autore, legati alla sua infanzia da un nodo indissolubile.
 
Potrei stare ore ed ore a parlare della vita di questo autore che mi ha fatto sognare più di una volta, mi ha fatto sognare Macondo, e mi ha fatto immaginare come sarebbe stato ucciso Santiago Nasar dai fratelli Vicario in Cronaca di una morte annunciata, ma preferisco non soffermarmi su inutili dettagli biografici, come il giornalismo che è sempre stato una costante nella sua lunga vita, o il reportage, il viaggio, che lo ha portato in Europa, India e Messico, oppure il cinema che lo aveva ammaliato così tanto da far si che si iscrivesse al Centro sperimentale di cinematografia di Roma, o il massimo riconoscimento del Nobel conseguito nel 1982; ma questa è un’altra storia, ora non c’è più tempo, Márquez si è spento lo scorso 17 aprile e con lui un’era.
 
La solitudine di un uomo e di un paese, un paese che come l’amata Macondo è stato incapace di evolversi. Ma c’è ancora tempo, pian piano anche la Colombia si libererà dai propri fantasmi…tutto è possibile. Dimenticare Márquez, quello sì che sarà impossibile
 
Ci vorranno cento, mille e forse più anni per colmare la solitudine dei nostri cuori, ma la speranza è che forse Gabo – come lo chiamavano gli amici – è ancora qui, immortale, a calpestare la nostra terra di ogni giorno, un po’ come Ursula in Cent’anni di solitudine, che continua a vivere perché non sa di essere morta, e anche lui, lo immagino in un angolo remoto di mondo a scrivere e a leggere come se niente fosse.