La “morte giusta” non è una teoria è una necessità.

E se la persona che più odi al mondo morisse? E se fossi tu il responsabile? E quale potrebbe essere mai il giorno migliore perché ciò accada? E come determinare tale evento senza essere incriminato?

 

Per la seconda, terza e quarta domanda ho delle risposte. Per la prima non ne avevo.

 

In genere non ho mai ucciso persone che odiassi personalmente, ho ucciso persone odiate e, in modo particolare, persone che ritenevo odiabili.

 

Il giorno di Natale, quello in cui ogni mostro diventa un amabile amico, zio, nonno, genitore, l’ho sempre trovato un momento speciale: guardi negli occhi i bimbi che scartano regali e vedi una speranza di salvezza per questo mondo che sta rotolando imbrattandosi ogni giorno di più nella merda. Tutti con la bocca piena, i bicchieri stracolmi, a brindare su tovaglie rosse, alla luce lampeggiante di surrogati arborei. Non conta chi sei o quello che hai fatto, ognuno sente di meritare il suo Natale.

 

Camminando nel bosco, non ho mai smesso di meravigliarmi di quanto fossero miracolosi quei piccoli gambi dal cappello variopinto. Velenosi oppure no, la loro funzione depuratrice verso l’ambiente ospitato era un perfetto contraltare della loro funzione contaminatrice dell’eventuale predatore. Di boletus edulis, più comunemente chiamati porcini, ne ho colti e mangiati a centinaia: essiccati o sotto aceto. La mia vera ricerca però, tra pini silvestri e abeti rossi, è stata indirizzata verso un altro tipo di fungo, che a dire il vero mi ha fatto comodo in più di un’occasione: il boletus satanas. A differenza del primo, il secondo, seppur non mortale, comunque di ottimo sapore, provoca gravi crisi di vomito e diarrea che hanno intimidito e provocato sofferenze a vittime certamente meritevoli di tali e dolorosissimi sintomi. Ma in primavera, ciò che spinge i miei passi lungo terreni scoscesi e assai scomodi è un fungo dall’aspetto innocuo ed equivoco: l’amanita verna. Questo fungo se reciso dal gambo è un sosia perfetto degli amatissimi e gustosissimi prataioli. La differenza però sta nel fatto che quasi come tutte le amanite, la verna provoca la classica sindrome falloidea: lunga latenza. Come del resto è la preparazione della migliore vendetta.

 

Era un venerdì del 1998. Dal parcheggio del ristorante fu notato da una coppia un uomo che, una volta uscito dal locale, aveva, con passo frettoloso e dinoccolato, descritto una parabola per poi cadere, come colpito a morte, per terra: senza giacca, con le mani sulla testa, la camicia di flanella verde a quadri increspata dal vento e i pantaloni bianchi lenti in vita, come se fossero stati slacciati, come se chi l’indossava avesse avuto il bisogno immediato di allentarli.

 

Liev Solovyov, mi aveva contattato due mesi dopo il diploma. Sapeva chi ero e quello che avrei fatto; o forse chi ero e quello che avrei fatto fu essenzialmente lui a determinarlo. Compagno di stanza durante gli ultimi due anni di università, avevamo preso l’abitudine di inoltrarci in lunghe chiacchierate notturne; in una di queste, uscì l’argomento che dibattemmo a lungo e al quale non riuscimmo, prima di separarci, a dare una risposta: “la morte giusta”. Concetto che nulla aveva a che vedere con l’eutanasia: era l’esatto opposto. Eravamo arrivati, attraverso rigorosi processi logici accuratamente descritti, all’accettazione dell’idea di un mondo assassino che attraverso i suoi veleni naturali e per mano di sue creature aveva il dovere, non il diritto, di eliminare ogni minaccia alla sua sopravvivenza. Ma quale doveva essere la creatura designata?

 

Nel 1998 avevo da poco compiuto ventiquattro anni e quello fu il mio primo omicidio al quale ne seguirono molti altri.

 

Aveva capelli bianchi e una corporatura più che robusta, grandi occhiali quadrati. Avevo studiato ogni suo movimento o abitudine di sorta, aspettando solo il momento giusto. Il 21 marzo arrivò la mia occasione.

 

Sapevo che avrebbe portato due investitori di nazionalità belga presso il suo ristorante preferito nella sua città natale, Grove City, Ohio. In genere si presentava agli appuntamenti di lavoro sempre con il fratello.

 

Il lasix è un medicinale avente lo scopo, attraverso l’azione diuretica che ne determina l’assunzione, di diminuire la pressione sanguigna. Viene prescritto per diverse patologie ma in genere due sono le ragioni principali che costringono un soggetto a farne uso: evitare trombi che nel post intervento chirurgico possono manifestarsi, o più semplicemente per curare l’ipertensione. Il tizio seduto al ristorante con il fratello e due ragazzotti dall’aria slavata non era stato operato di recente quindi a giustificare l’utilizzo di quel medicinale poteva essere solo l’ipertensione. Talvolta è sufficiente dare un colpettino ad una tessera del domino, per determinare una variazione in grado di produrre a sua volta un’altra variazione analoga, dando origine ad una sequenza lineare di eventi. Quel giorno, la tesserina fu un fungo. Lo vidi mangiare serenamente la sua ultima bistecca con porcini trifolati, bersi il suo ultimo boccalone di birra, ridere e scherzare finché…finché non andò a morire nel parcheggio dinanzi al ristorante. Era bastata la combinazione di boletus luridus con alcol a dare il via a quella sequenza di eventi che avrebbero additato come causa della morte quell’ipertensione di cui da anni soffriva: il mix ingerito aveva fatto innalzare la pressione sanguigna e l’effetto che produsse fu simile a quello che accade se si piazza una bomba sotto una diga, allagamento improvviso: nel suo caso avvenne nel cervello.

 

Non mi perdonerò mai quell’assassinio commesso ma trovo giustificazione nel fatto che fui raggirato ed imbrogliato, del resto fu l’unica persona che uccisi per superficialità: morte oggi vendicata.

 

All’epoca il mio ex-amico Solovyov e la sua organizzazione mi avevano dato false piste e false informazioni, l’uomo che avevo ucciso era un truffatore, impostore e un potenziale terrorista; stava provando a vendere un brevetto di un macchinario che a suo dire avrebbe portato l’umanità in una nuova era soppiantando ogni combustibile fossile ma che nella realtà dei fatti altro non era che un mucchio di disegni e formule senza sostanza, corroborati da pubblicità di ogni sorta volti solo a ricattare le più grandi industrie petrolifere. L’uomo che non avrei dovuto uccidere era invece uno scienziato che, se ne avesse avuto il tempo, avrebbe portato l’umanità in una nuova era soppiantando ogni combustibile fossile ma che fu barbaramente ucciso probabilmente da chi ne avrebbe subito le conseguenze: le più grandi industrie petrolifere.

 

Il 25 dicembre del 2015 Solovyov si sedette a tavola come ogni Natale, mangiò con molto gusto tutto ciò che era stato preparato per tradizione, lingua di manzo salmistrata servita con salsa di rafano, uova farcite e decorate con caviale nero, storione bollito in salsa di cipolle fritte funghi e carote, maialino da latte con polenta di grano saraceno, e per finire il prianiki dolce a base di miele e spezie, il tutto innaffiato con un’ottima vodka. Quello fu il suo ultimo pasto. La notte stessa fu colpito da gravi attacchi diarroici, da vomito biliare, alla quale sopraggiunse un’insufficienza renale acuta che lo portò in poche ore al coma. Morì il giorno seguente. Le amanitine, estratte dall’amanita verna e servite nel suo the il 24 dicembre, si erano legate in modo sorprendentemente veloce all’enzima RNA polimerasi B, bloccando le sue funzioni, ossia la sintesi proteica, determinando la morte della cellula: morte selettiva, in quanto avviene solo per alcune cellule, quelle epatiche.

 

Il veleno aveva colpito e svelato i suoi effetti devastanti quando ormai era troppo tardi per poter salvare il povero Solovyov; la domanda che mi perseguita pero era: il veleno inoculato nel mondo da persone come Solovyov ha già determinato dei danni irreparabili che condannerà tutte le future generazioni?

 

La “morte giusta” non è una teoria è una necessità.