La personale guerra di Saul per riaffermare la dignità umana.

Arriva nelle sale italiane il film dell’ungherese Laslo Nemes, vincitore del Gran Premio della Giuria al festival di Cannes, e candidato agli Oscar 2016 come Miglior Film Straniero.

 

Il figlio di Saul riapre il capitolo drammatico dell’Olocausto – per la verità mai chiuso – una piaga non ancora rimarginata che sfigura le sembianze del Novecento occidentale. Il giovane regista ungherese sceglie il formato 4:3 e la macchina in spalla, per seguire da vicino il suo protagonista dentro il teatro dell’orrore che è il campo di concentramento di Auschwitz; in questo modo anche noi siamo catapultati dentro all’incubo, e viviamo il dramma assieme a lui, vediamo ciò che lui vede, sentiamo ciò che lui sente, percepiamo la rassegnazione, la disperazione. Il risultato è un senso di claustrofobia dolorosa, resa ancora più intollerabile dalla quasi totale assenza di campi lunghi. L’inferno che circonda Saul è solo abbozzato, intravisto, oppure lasciato sfocato; eppure spaventosamente tangibile.

 

Saul, ebreo ungherese deportato, fa parte di una delle squadre dei Sonderkommando, alle quali è attribuita la funzione di assistere i militari nazisti nelle operazioni di ‘smaltimento’ dei corpi degli ebrei assassinati; in attesa che anche per loro arrivi il giorno dell’esecuzione. Durante il dispiegamento di questi compiti, Saul crede di riconoscere tra i corpi ammassati senza vita, quello del proprio figlio, e si assume il compito di donargli una degna – e religiosa – sepoltura. Con ostinata – e apparentemente insensata – determinazione nasconde il corpo del ragazzo e si mette alla ricerca, tra i deportati – vecchi e nuovi – del campo, di un rabbino che possa aiutarlo a celebrare le esequie.

 

Arreso all’ineluttabilità del destino, accettata l’inevitabilità della propria condanna a morte, Saul, nel tentativo di sottrarre il giovane corpo alle fiamme, persegue la riaffermazione della dignità umana, proprio nel luogo dove questa dignità è stata più calpestata, umiliata. Laddove l’uomo ha annientato l’umanità di altri uomini – trasformandoli in numeri, in ‘pezzi’ anonimi – Saul ne rivendica con ostinazione il diritto all’ultimo commiato.

 

Il figlio di Saul è un film dolente, sordidamente violento, che pur non mostrando direttamente l’orrore – in fondo, ciò che resta fuori campo lo conosciamo fin troppo bene – ne impregna fino al midollo le scene chiave, come quella in cui Saul e altri detenuti gettano con le pale la montagna di cenere di un popolo annientato.

 

Tra le pieghe drammatiche della Storia – di ‘quella’ Storia – non può esserci lieto fine, non possono esserci che vinti. E Saul questo lo sa. Sa, in fondo, di essere già condannato a morte. Il suo gesto non è finalizzato a salvare se stesso o gli altri – diversamente dal tentativo di ribellione messo in atto dai suoi compagni del Sonderkommando – ma è legato a qualcosa di più profondo, intangibile. Quasi assurdo, insensato. Eppure, incredibilmente vero. Incredibilmente umano.