the Sunshine

Era uno pieno di paranoie che si alleggeriva vomitandole addosso agli altri; mai a caso, però, e certe volte, anche in modo violento. Lei non stabilì mai se si trattasse di un’irruenza spontanea e naturale o di un banale tentativo per affermarsi nel contesto, una sorta di dimostrazione di forza.
In ogni caso questo lato del suo carattere sembrava volere, o meglio dovere, necessariamente prevaricare tutte le altre, quasi come se fosse la maschera prescelta per affrontare il mondo.
Ma come poteva dimenticare quei momenti in cui le era apparso tanto piccolo, quei momenti in cui il peso di una sola parola lo avrebbe schiacciato, tutte quelle volte che, con tanto sacrificio, aveva abbassato lo sguardo dopo una lunga sfida e la velatura sul suo volto aveva annunciato una ventata di tenera vicinanza umana. “Mai banale” si definiva o forse, parlava di lei. Non banale, dunque mai immorale. Uno dei problemi nel rapportarsi a lui stava proprio nello stabilire i confini; le sue parole sembravano avere sempre più di uno scopo, forse non avendone alcuno e si respirava sempre una dualità nell’aria. Eccolo, il vomito d’inquietudine di un uomo che è riverso sull’altro e riempie i vuoti dell’interlocutore. Faceva in modo che gli altri restassero impigliati nelle debolezze, come un serpente-ragno che, tessuta la ragnatela, ciba la preda di incongruenze e poi si insinua nelle pieghe, nelle fessure, strisciando e sibilando. “Sei quel che pensi di essere” diceva, utilizzando se stesso quale mezzo per un fine che, seppur tanto alto, restava ancorato alla bassezza umana. Uno di quegli spiriti che sembrano nati nella e dalla divisione e che altro non possono desiderare. Uno di quelli che non ci crede fino a quando non ci credi tu. Uno di quelli da salvare. “L’ennesimo” pensò lei, mentre non si opponeva a quella maledettissima tensione al maledetto, “… nell’infondata convinzione di una pacifica missione, mi ritrovo angelo all’Inferno” ed in sottofondo Roy Ayers suonava Everybody Loves the Sunshine.
Era il 1976 e la passione, una passione irrefrenabile, fuoriusciva dai suoi occhi come un fiume in piena, che inonda l’intera città e fa cadere a pezzi tutto ciò che non ha solide basi.
Un bagliore accecante, che durava giusto il tempo di una percezione non verificabile, gli attraversava gli occhi e lei non sapeva se c’era stato davvero, se era e sarebbe stata l’unica a vederlo, se lo avrebbe rivisto. Ipnosi, forse. Nella notte, esiste.

 

Quel giorno non aveva addosso che l’apatia; allora si avvolse in una coperta di flow ed uscì. Solo dopo, in strada, si domandò di che cosa fosse in cerca. Cenere e fumo, in sostanza il nulla. Quello che trovò fu allo stesso modo evanescente, ma cosparso di luce, la folgore dell’immaginazione e rimase abbagliata sull’uscio, come un gatto davanti ai fari di un’auto, che arriva all’improvviso, inaspettata. Non era pronta e l’immagine di sé schiacciata al suolo, sotto una ruota, piena di sangue o semplicemente l’illusione che così non sarebbe stato, la fece voltare. Niente, però, fu più uguale e dipendeva soltanto da lei. Il suo stesso diavolo.