Pensieri sulla Terra Promessa.

 

Qui Ohio, Nord Est, 1803. James e Danny Heaton scoprono dei giacimenti carboniferi lungo lo Yellow Creek. Costruiscono un altoforno lungo la riva, e fabbricano le palle di cannone con cui il Nord vincerà la guerra.

 

 

Inizia così, è una canzone di Bruce Springsteen, si chiama Youngstown. È giusto un vecchio folk americano, polveroso, un po’ sghembo, senza fronzoli. Niente di complicato, chitarra, armonica e tanta anima. Le buone storie, per fortuna, si accontentano di poco.

 

 

Youngstown era una cittadina operaia in Ohio. Storicamente la sua gente si guadagnava da vivere grazie soprattutto ad una fornace, la Jeanette Furnace. La canzone è la storia di uno di loro. Negli ultimi trent’anni il mondo è cambiato, ora la fabbrica ha chiuso, Youngstown è solo macerie, malinconia e risentimento.

 

Mio padre lavorava in fonderia,
la faceva ardere più dell’inferno
Io tornai dal Vietnam, fui promosso rastrematore,
un mestiere adatto anche al diavolo.

 

Leggendo in questi giorni delle mirabolanti avventure oltreoceano di Bernie Sanders, il vecchio disco di Bruce in sottofondo, ho pensato che la storia giusta vale più di mille comizi. Breve riassunto per i distratti: Bernie Sanders è uno dei due candidati democratici alla Casa Bianca, l’altro è Hillary Clinton. La cara vecchia Hillary aveva dato probabilmente per vinta la corsa alla nomination democratica con troppo anticipo. Il vecchio Bernie (che 74 anni ce li ha davvero), partito in sordina, ha invece macinato fin qua risultati contro ogni più rosea aspettativa: ha visto gli spettatori ai comizi raddoppiare di settimana in settimana, i fondi donati alla sua campagna moltiplicarsi quasi miracolosamente, fino allo strabiliante più 20% nel New Hampshire. Che c’entra Bruce Springsteen?

 

 

Passettino indietro. Come è riuscito un signore attempato, che da decenni siede alla Camera tra le esiguissime file degli indipendenti, a mettere paura ad una politica strutturata come la Clinton? Se è vero che la destra parla alla pancia e la sinistra alla testa, i comizi di Bernie sembrano mirare dritto al cuore di una parte di americani. Sanders parla ad una working class ferita nella propria identità, a persone che sentono di aver materialmente costruito l’America.

 

Taconite, coke e calcare
hanno cresciuto i miei figli e fatto la mia paga
Quelle ciminiere si alzavano come le braccia di Dio
in un bellissimo cielo di fuliggine e argilla.

 

Parla come un ventenne, Bernie. Invoca tasse per Wall Street, propone un sistema sanitario nazionale, la separazione tra banche di credito e banche d’investimento, abolizione dei grandi finanziamenti per le campagne elettorali e persino università gratuita. In Texas staranno già piovendo infarti. Gli piace definirsi ‘socialista’, in una Nazione dove socialista viene storicamente subito dopo ‘figlio di puttana’ nella scala delle offese da lavare col sangue (anche in Italia in effetti, ma per altre ragioni). È commovente che qualcuno abbia ancora il coraggio di idee considerate tanto anacronistiche, sorpassate e polverose, proprio come un vecchio folk.

 

 

Sanders dice: “Il governo del nostro grande Paese appartiene a tutti, e non ad un pugno di milionari”. Si potrebbe stare ore a disquisire amabilmente in proposito, se di inatteso Robin Hood o furbo populista si tratti. Comunque i fatti se ne fregano delle chiacchere, e sembrano proprio stare dalla parte di Bernie: la disuguaglianza economica e sociale negli States ha raggiunto livelli che non è esagerato definire da ancient regime. La paga di un top manager, nel 1979, era in media 38 volte quella di un suo lavoratore, oggi è di 262. Si è formata una vera aristocrazia, in grado di accedere a fortune economiche oscene, impensabili per il resto della popolazione, le quali ovviamente a loro volta garantiscono potere di lobby, spostamento di voti, accesso al potere e infine leggi che consolidino la loro posizione di privilegiati. L’hanno chiamata Winner Take All Society, letteralmente “la società del chi vince piglia tutto”. Una comunità ‘darwinista’ dove il più forte è il più ricco, e il più forte vince sempre.

 

 

“Se Goldman Sachs ti paga, poi pretende qualcosa in cambio” ha detto Bernie ad Hillary durante l’ultimo faccia a faccia, denunciando così l’implicita corruzione del sistema politico americano. Esagerato? Ad esempio sarebbe bello sapere perchè Larry Summers, ex ministro del tesoro di Bill Clinton, uno degli artefici della deregolamentazione che ha portato all’esplosione della Grande Crisi del 2008, nel 2009 è stato messo da Obama a capo del Consiglio Economico Nazionale e nel 2014 è stato vicinissimo alla presidenza della Federal Reserve. Perchè una verità tanto semplice come questa faccia tanta fatica ad entrare al centro del dibattito politico americano è uno dei grandi misteri della vita, insieme al ketchup sulla pizza e Felipe Melo all’Inter. I maggiori gruppi finanziari di Wall Street hanno finanziato la campagna 2016 di Hillary Clinton per 21.4 milioni di dollari, mentre i milioni diventano 44 se si contanto tutte le campagne di Hillary dal 2000. Il famoso investitore George Soros le ha donato 7 milioni di dollari, il manager di hedge-fund Donald Sussman 2.5 milioni. La donazione media per Bernie Sanders è di 26 dollari e 28 centesimi.

 

Mio padre venne in Ohio a lavorare in fabbrica
al ritorno dalla seconda guerra mondiale;
adesso il piazzale è solo rottami e macerie.
Dice, “Quei pezzi grossi hanno fatto quello che non era riuscito a Hitler”.
Queste fabbriche hanno fatto i carri armati e le bombe
che hanno vinto le nostre guerre;
abbiamo mandato i figli in Corea e in Vietnam
e adesso ci chiediamo che morivano a fare.

 

La logica conclusione è una società estremamente ineguale. Vi ricordate quelli di Occupy Wall Street? “Noi siamo il 99%”, dicevano! Thomas Piketty è un economista francese, uno studioso della disuguaglianza dapprima molto conosciuto in ambiente accademico, ora quasi una rockstar: lo chiamano il Marx del nuovo millennio. Ha costruito un dataset che che ha permesso, finalmente, di sapere quanta ricchezza sia andata ai più ricchi negli ultimi 120 anni in almeno 30 diversi Stati. I suoi dati sono talmente eclatanti che è finito a parlarne persino nelle università americane più liberiste: oggi l’1 percento più ricco d’America si accaparra il 17.5% del PIL; il 10 percento più ricco si becca il 47.19%. In parole povere, una persona su dieci possiede quanto le altre 9 messe insieme. Nel 1980, alla vigilia del primo mandato di Reagan e della sua feroce lotta ai sindacati, il più ricco 1% si prendeva solo l’8% del PIL. Il salario reale del 50% più povero della popolazione non aumenta dal 1970. Dal 1976 al 2007 il reddito americano è cresciuto alla notevole media del 1.2% annuo. Se però si guarda all’un percento dei più facoltosi, la crescita arriva ad un (incredibile) 4.4% per anno, mentre quella del “povero” restante 99% è solo dello 0.6%. Piketty ha inoltre calcolato che, se siete abbastanza fortunati da essere in quell’1%, la probabilità che ci siate ancora tra 5 anni sfiora il 70%. Un “elefante in cucina”, come dicono in America, con ricadute in termini sociali (sanità, educazione, indebitamento eccessivo…) che sono facili da immaginare. Dati che sembrano una pietra tombale sulla retorica del sogno americano, un fantasma che oramai sopravvive solo nei deprimenti discorsi motivazionali per arrampicatori sociali.

 

Dalla valle del Monongahela
alle montagne ferrose del Mesabi
alle miniere di carbone dell’Appalachia
la storia è sempre la stessa.
Settecento tonnellate di metallo al giorno
e adesso, signore, mi dici che il mondo è cambiato.
Adesso che ti ho fatto diventare ricco,
così ricco da scordarti il mio nome.

 

I numeri sono poca cosa, lo so. Dietro ai numeri ci stanno le persone, e per questo ci sono le canzoni. Avranno delle facce, qualcuno che li aspetta a casa, delle storie. Magari qualcuno di loro ci avrà creduto per davvero, alla storia dell’America, della Terra Promessa. Chi conosce un po’ di Springsteen sa che questa canzone fa eccezione: qua non c’è nessun anti-eroe, nessuno è arrabbiato col governo, o col mondo, perchè gli è toccata in sorte la stessa dura vita del padre operaio. Nessuno cerca di scappare, né con una chitarra né con qualche amore da sedili posteriori, non c’è nessuna Terra Promessa. Al contrario, c’è solo un uomo che ha perso tutto quello che aveva, il suo lavoro, pur avendo giocato sempre secondo le regole. Vorrebbe solo indietro la sua fornace, la sua dolce Jenny. Così, come se fosse una ragazza.

 

Qui a Youngstown
qui a Youngstown
mia dolce Jenny, sto affondando
amore, qui a Youngstown.

 

Comunque la si pensi, a me Bernie Sanders pare un balsamo per l’anima, aria fresca.  Forse si perderà lungo la strada che porta a Sud, nelle roccaforti repubblicane. Forse ce la farà ma soccomberà contro Donald Trump (in quel caso tranquilli, ci penseranno le cavallette). Forse farà come tanti, partiti incendiari e morti pompieri. Comunque vada un successo l’ha già ottenuto. Ha ricordato a milioni di persone che le loro storie possono ancora avere un valore, che esiste un altro modo di intendere la comunità, che le cose possono cambiare, con il coraggio delle proprie opinioni. Che Youngstown è una storia vera, ma che non si deve ripetere. Faremmo bene ad ascoltarlo con curiosità noi Europei, dalla coscienza civica un po’ vecchiarella, per ricordarci che l’Europa è nata da un sogno di integrazione, e non da un incubo per burocrati.

 

Quando morirò non voglio un posto in paradiso

io i lavori del paradiso non li saprei fare,

prego il diavolo affinché mi venga a prendere

e mi porti nelle fornaci ardenti dell’inferno.