L'angelo biondo piovuto dal cielo.

Notte di Halloween, 31 ottobre 1993.
Sunset and Larabee, LA.
Dall’altro lato del 911, le urla confuse di un ragazzo – che si fa chiamare Leaf anche se all’anagrafe è Joaquin Rafael – che in affanno ripetono “Correte,correte!, mio fratello sta male!”.
A terra, le pupille che prima avevano ceduto il passo al bianco delle convulsioni, stanno già iniziando a cristallizzarsi, le mani piegate sulla pancia di un corpo scheletrico dal pallore lunare si rilasciano sul pavimento senza più andare a tempo con la musica hard-core in cassa al Viper Room, macchia la tempia un rivolo di tinta nerissima di capelli per l’ultimo sudore prima che quel cuore grande, troppo grande per essere contenuto in un solo corpo smetta di battere.
E nessuno, in quel momento, riconoscerà che a vivere e morire a Los Angeles, per terra,
è River Phoenix.

 

In una casetta di tronchi d’albero a Mandras, in Oregon, tra le benedizioni festose degli altri raccoglitori di frutta della comune dei Children of God (movimento sessantottino di evangelizzazione della parola di Gesù), il 23 agosto 1970 Arlyn Dunetz e John – il poeta/compositore che nel 1977 aveva ufficialmente cambiato il suo cognome in Phoenix, come la Fenice che dalle sue ceneri rinasce per poi di nuovo ricominciare – danno il benvenuto al loro primo figlio, River Jude, un richiamo al Fiume della Vita in Siddartha di Herman Hesse.
Seguiranno altri figli (Rain Joan of Arc, Joaquin Rafael/Leaf, Liberty Mariposa & Summer Joy) lungo i moti dei viaggi per tutte le Americhe dei “cercatori” – così come amavano definirsi i Phoenix – nella loro continua ricerca di un significato dell’Esistenza.

 

River Phoenix (1)

La famiglia Phoenix

 

Venezuela, Caracas, Puerto Rico, Messico, Aryln e John stanno crescendo dei figli poliglotti che fin da piccoli assorbono i segreti delle erbe medicinali, l’importanza dell’alimentazione vegetariana e il potere dell’autoguarigione tramite illuminazione spirituale, l’equità nei discorsi per affinare sin da subito uno spirito di discernimento già adulto, vivere in pienezza e rilassatezza con la Fede e una sola noce di cocco a sera.
Quando però nel 1974 nei Children of God il leader David Berg inizia a sperimentare il flirty fishing, l’utilizzo del sesso per dimostrare l’amore di Dio, John decide di abbandonare la setta (e del suo abuso sessuale dai 4 ai 10 anni River ne parlerà pubblicamente solo qualche anno dopo, nel 1991, durante un’intervista al Details) per ritornare ufficialmente in America nel 1977.
E qui il piccolo River inizia a fluire.
L’angelo biondo’, come veniva chiamato tra i buskers, che suonava già a 5 anni la chitarra per le strade di Caracas sulle danze della sorella Rain, che si era adattato ad ogni anfratto del mondo e aveva fatto sue le atmosfere di colori fino a potenziare nelle esperienze delle terre una gentilezza d’animo e una pulsante empatia che per indole era già da sempre stata sua, si affida all’agente Iris Burton per intraprendere, da Burbank a Los Angeles, una carriera da attore.
Ma River già a 9 anni ha l’anima dei viaggiatori dagli occhi grandi e si rifiuta presto di sorridere a tempo durante gli spot nei quali viene assunto, la sua precocissima sensibilità politica si agita nell’insostenibile incapacità di usare se stesso come mezzo per indurre all’acquisto di prodotti di consumo (Mitsubishi, Saks, Ocean Spray).
Così nel 1980 abbandona la pubblicità per Real Kids, uno show per i bambini dallo sviluppato talento musicale, al quale seguirà la prima parte come Guthrie McFadden, il più giovane dei fratelli tutto denim e sfacciataggine, dell’adattamento televisivo del musical Sette spose per sette fratelli del 1954.
Da adesso, il giovane attore comincia ad essere braccato dalle ansie dei genitori (che poi rientreranno, assieme a più di altri venti tra parenti ed amici, sulla sua futura busta-paga da un milione di dollari a film) che lo vorrebbero lanciare di forza coi loro “Questa battuta avresti potuto recitarla meglio!” verso i più alti vertici hollywoodiani tanto da alimentare in River una dissociazione prepuberale tra i precetti dei tranquillità ed armonia simil-pagana della sua lontana vita zingara e le pressanti nuove aspettative dei deliri di ambizione e successo.
River invece – come confesserà più tardi a Peter Bogdanovich – recita perché è cresciuto fra i racconti di strada e quindi ciò che gli interessa è far parte di una storia.
E, per far parte di una storia – chiarisce – non bisogna di certo intabarrarsi furiosamente nel personaggio ma pensare i desideri del personaggio.
Explores, nel 1985, è il suo primo trampolino di lancio al Cinema, il film sulla capacità di credere così fortemente in qualcosa tanto da farla avvenire.
Nello stesso anno sbaraglierà la concorrenza di 300 giovani attori per il ruolo in Stand by Me di Chris Chambers, il ragazzino ribelle col padre alcolizzato che ben richiama il rapporto con John, che ai figli ha sempre preferito la bottiglia.

 

River Phoenix (2)

River Phoenix in Stand by Me

 

Durante la lavorazione del film River ha 14 anni e perde la verginità.
La scoperta del proprio corpo lo disorienta, e si dice fermamente convinto a confermare una identità fluida e libera, ma è proprio sul set del film successivo, Mosquito Coast (1986), che incontra e si innamora di Martha Plimpton, una giovane attrice dall’anima punk, che sembra riesca a fornirgli quegli argini per essere più contenuto tra le cose del mondo.
Che sia così lei lo capisce quella sera al ristorante, davanti ai molluschi nel piatto, quando ad un tratto lui la lascia al tavolo e corre sparato verso Park Avenue. Martha lo ritroverà qualche mezz’ora dopo, ancora disperatamente in lacrime, a ripetere “Ti amo così, tanto. Perché? Perché?”.
Col successo crescente e i 350,000 $ di Vivere in fuga, River acquista 800 acri di terreno fra Panama e Costa Rica con l’intento di restituire ossigeno al Pianeta affinché nessun albero venga più abbattuto. Comprende la responsabilità della sua fama crescente, riuscendo con naturalezza a portare il suo pubblico verso una maggiore attenzione ai problemi sociali e i doveri etici. Forse, è proprio nella consapevolezza del suo potere carismatico, che ben presto inizia ad insinuarsi in lui una insofferente ribellione a quest’immagine.
Vuole allontanarsi da quell’apparenza di cristo biondo che gli è stata marchiata a fuoco dai media: recitare dev’essere solo un lavoro, un’esplorazione personale dell’essere.
Dopo la cerimonia degli Oscar nel 1989 Martha lo lascia (non riesce più a reggere le sue dipendenze alimentate anche dalla sua band, Aleka’s Attic, che si esibiva al The Hardback Cafe) e lui si allontana dalla Florida – dove sempre si era riconciliato con la sua idea di Universo di Luce – per la Los Angeles dell’ hard-rock, delle amicizie disordinate di Flea, Corey Feldman e Susanne Solgot, del Viper Room di Johnny Depp, del tirare l’alba di acidi e Jägermeister, dell’eroina iniettata in vena, della cocaina e degli esperimenti di speedball (come il Belushis, un mix coca e ero che era stato chiamato così per omaggiare John Belushi), tant’è che in quegli anni mai personaggio per lui sarà interpretato con veritiera naturalezza come quello borderline di Mike in Belli e dannati di Gus Van Sant.
L’inquietudine si delinea anche nel trasformismo dei ruoli (il pizzaiolo svagato in Ti amerò… fino ad ammazzarti, il marines dalla mascella serrata in Dogfight, il nerd occhialuto di I signori della truffa, un musicista country in Quella cosa chiamata amore), l’intento è di non farsi ingabbiare in una santificazione, il desiderio è di scorrere multiforme, di essere tutto ed il contrario di tutto, che non ci si faccia mai assorbire da ‘quel grande blob di glitter’.

 

Viper Room.
River è pulito da sei mesi ma è la notte di Halloween, si festeggia, insomma ci sono suo fratello e la sua nuova ragazza Samantha Mathis, e allora decide di sballarsi, giusto un po’, qualche grammo di Persian Brown presa in bagno. Prima, c’era stata della cocaina spazzolata in albergo, uno strano bicchiere passato da qualcuno… Ai primi spasmi di stomaco, John Frusciante gli passa tre gocce di valium da mandare giù senza acqua per cercare di farlo riprendere.
La musica rimbomba, ballare sui tavoli, disconoscersi, almeno un’ultima sera che si vuole ancora prepotentemente vivere, nonostante questa fragilità sia il più delle volte così ingombrante; Terry Gilliam lo aspetta il giorno seguente per la parte nel suo nuovo film, Bodganovich per una scommessa di sobrietà che forse per quella notte è andata persa.

 

Lasciamo decidere al Fiume il corso da prendere.
E poi si ritorna su, ad una chiamata al 911: “Fate presto, è mio fratello!”.