è davvero minacciata dagli algoritmi?

Durante lo scorso autunno è avvenuto il primo “attacco” alla democrazia da parte di uno spietato algoritmo. Come ricorda un articolo di Repubblica del 23 settembre scorso, il senatore leghista Calderoli aveva presentato circa 85 milioni di emendamenti al decreto di legge Boschi sulla riforma del senato. L’evidente tentativo di ostruzionismo dell’onorevole padano è stato reso possibile da un algoritmo banale ma non semplice (come chiosa il suo ideatore il senatore Johny Crosio) che agisce su semplici sostituzioni di termini e punteggiatura che, pur preservando la struttura di base del singolo emendamento, riescono a renderlo differente dagli altri. Il quotidiano ha fatto i calcoli: immaginando in maniera molto ottimistica la Camera al lavoro senza sosta, ed impiegando per leggere e votare circa un minuto ad emendamento, ci sarebbero voluti 156 anni per smaltire l’intero faldone.

 

Leggendo qua e su internet sembra però che l’algoritmo Calderoli (come è stato soprannominato da Repubblica) non sia il solo pericolo delle democrazie occidentali derivante dall’avvento delle nuove tecnologie. In un libro del 2011 dal titolo The Filter Bubble l’autore Eli Parisier mette in guardia i propri lettori dall’avvento di algoritmi di ricerca come quelli comunemente utilizzati da Google. In un video molto eclatante lo scrittore mostra infatti come i risultati di una ricerca utilizzante la parola “Egitto” differiscano sostanzialmente tra due soggetti. Da una parte infatti “Big G” mette a disposizione del primo profilo notizie di attualità e politica riguardanti il paese in questione; nel caso del secondo soggetto sono restituite invece pagine dal contenuto più frivolo come quelle di una compagnia di viaggio od un resort. Il motivo di questa discrepanza è molto semplice: l’algoritmo di Google seleziona le informazioni ritenute più affini alle ricerche passate del soggetto e alle pagine da lui visitate. Questo però secondo Eli Parisier non permetterebbe ad ognuno di noi di entrare in contatto con opinioni differenti ed idee politiche discordanti, minando così la salute delle nostre democrazie.

 

 

Anche Facebook sembra avere le sue colpe: mettendo infatti più “like” a commenti di amici con i quali siamo maggiormente d’accordo, Facebook ci mostra più post di quegli stessi amici, nascondendo invece gradualmente le persone che hanno opinioni che differiscono dalla nostra e che quindi potremmo non condividere. Andiamo costruendo col passare del tempo una comfort zone(per utilizzare un’espressione del sociologo Zygmunt Bauman) che rappresenta un luogo di incontro virtuale dove però manca qualsiasi figura tacciabile come ostile. In questo modo diventa sempre più difficile incrociare opinioni differenti dalla nostra, andando inesorabilmente incontro a quella che Parisier chiama una “autopropaganda invisibile”.

 

Altra notizia che ha agitato ultimamente gli animi è stato l’annuncio di Twitter di abbandonare la pubblicazione dei cinguettii in maniera cronologica per dare inizio invece all’utilizzo di algoritmi simili a quelli di Facebook. In questa prima fase comunque, la visualizzazione dei tweet più rilevanti in cima alla pagina secondo i nostri interessi o interazioni è attivabile manualmente, qualora la si voglia provare (opzione di Opt-in). In caso contrario si può proseguire con la carrellata di cinguettii in tempo reale, continuando a godere della caratteristica distintiva del microblog. Nelle prossime settimane, invece, la novità con cui  Twitter si allinea alla home di Facebook permettendo di scegliere fra notizie principali e notizie più recenti sarà introdotta automaticamente su tutti i profili; chi vorrà farne a meno dovrà disattivarla.

 

Il problema parrebbe quindi riproporsi: così come per Facebook e Google, anche nel caso di Twitter sarà un algoritmo a decidere cosa potremo vedere sulle nostre “timeline”: gattini all’animalista sdolcinato; un “long form” a proposito della possibilità o meno dell’Argentina di Mauricio Macri di rifinanziarsi sui mercati dei capitali all’analista fai da te. E chi è portato ad interagire più spesso con contenuti definibili come “leggeri” avrà principalmente la possibilità di vedere questi, con un algoritmo che in sua vece taglierà fuori ciò che è ritenuto non interessante.

 

Ma tutto questo allarmismo è davvero giustificato? Forse no. Quotidianamente infatti ognuno di noi cerca conferme alle proprie idee ed inclinazioni leggendo i quotidiani preferiti e circondandosi delle persone a lui più affini, a lavoro così come nella vita privata. Gli algoritmi di Google e di Facebook non fanno altro che replicare virtualmente quelle dinamiche che già avvengono nella vita reale. Non è certo lo stare di fronte ad uno schermo comodamente da casa che permette un reale scambio/scontro di opinioni: l’unica parte attiva in questo caso è infatti il soggetto stesso ed è lui a direzionare verso argomenti a lui congeniali la ricerca in atto.

 

La democrazia può dormire ancora sogni tranquilli: l’unico vero pericolo è ancora rappresentato dall’algoritmo Calderoli.