Il genio controcorrente.

«A sei anni, volevo diventare cuoco. A dieci, Napoleone. Da allora in poi le mie ambizioni sono sempre andate crescendo» così “umilmente” Salvador Dalì dà inizio a quello che potrebbe considerarsi il suo diario di vita. Trecento pagine in cui decide di parlare di sé, argomento che sembra piacergli moltissimo. Come dargli torto: Salvador Dalì sa di essere un genio e non vuole risparmiarci niente.

 

Notiamo fin da subito la sua mancanza di modestia, l’amore per il suo corpo, la cui nudità soleva rivelare senza alcun pudore, e il suo desiderio incessante di non omologarsi al mondo che lo circonda. Consegnato in mano all’editore nel 1941, all’età di trentasette anni, La mia vita segreta trasuda eccentricità e follia da ogni riga. Come il titolo suggerisce, ci troviamo di fronte ai suoi segreti più intimi, cominciando dai suoi lontani ricordi di infanzia. Dalì ci permette di immergersi nella sua pelle, e di provare a vedere il mondo dai suoi stessi occhi. Così, quello che è considerato e si auto-considera un genio indiscusso, ci confessa con una certa nonchalance dettagli imbarazzanti della sua vita e le perversioni che hanno reso lui stesso e la sua arte quello che tutti noi conosciamo.

 

Abbiamo l’impressione di trovarci di fronte ad un enorme paradosso umano: come è possibile che un ragazzino che restava giornate intere chiuso in una stanza poiché dimenticava come si girasse una maniglia sia riuscito a vincere il premio alle Belle Arti con un’accurata composizione pointilliste semplicemente lanciando grumi di colore dalla distanza di un metro? Questo è solo uno dei numerosissimi aneddoti di quello che forse è il miglior libro su Dalì, in cui le principali tappe della sua vita, quali la scoperta del suo talento, l’espulsione dall’Accademia delle Belle Arti di Madrid, i frequenti incontri con gli intellettuali del tempo (García Lorca in primis), si intersecano con la storia, le avventure e gli incidenti intellettuali del dopoguerra europeo, del quale si sente l’incarnazione più rappresentativa. Il tutto attraversato a sua volta dalle sue bizzarre manie, paure, atti di violenza apparentemente ingiustificati, e sentimenti anarchici sempre più marcati. Troviamo opere d’arte dalla fama crescente, collaborazioni cinematografiche, invenzione di oggetti a dir poco eccentrici da un lato, ed escrementi, sudore, insetti e sangue dall’altro: un accostamento di attrazione e disgusto che intriga il lettore. Riga dopo riga, abbiamo quasi l’impressione di iniziare a conoscerlo, di capirlo nella sua straordinaria follia. Non mancano inoltre pagine e pagine dedicate alla sua relazione con Gala, la donna che gli scombussolò la vita e l’anima fin dal loro primissimo incontro durante il quale, sopraffatto da una crisi di ilarità, perse la facoltà di parlare. Un amore morboso con qualche sfumatura di odio, per un Dalì che cominciava a sentirsi privato del suo lavoro, della sua personalità e in particolare della sua solitudine, visibilmente rivendicata fin dalla sua infanzia.

 

E per concludere: chi lo dice che l’arte è una disciplina pacifica? Salvador Dalì è un combattente con i controcazzi e come lui stesso scriverà, intraprende una grande battaglia. Una battaglia contro la semplicità per la complessità, contro l’egualitarismo per la gerarchizzazione, contro la rivoluzione per la tradizione, contro il tempo per i suoi “orologi molli”. Possiamo considerarlo un coprofago, un figlio di papà, un montato, ma non possiamo rinnegare che la sua sfacciataggine rende ancora più credibile e ammirevole il suo personaggio e il suo talento. E soprattutto: non possiamo impedirci di riconoscere lo straordinario apporto che ha dato al Surrealismo, tale che all’epoca si cominciò a dividere il surrealismo fra ante-Dalì e post-Dalì, e tale che forse, come lui stesso affermerà, il Surrealismo era lui stesso.
Un libro dalla lettura scorrevole, frizzante, che colma le possibili lacune riguardo all’universo daliano e all’interpretazione della sua arte, lasciandoci comunque con un pizzico di ambiguità nel sottofondo, in particolare per quanto riguarda il suo rapporto con la fede, dove sembra fino all’ultimo contraddirsi. Una misteriosità che gli si concede senza rimorsi, e senza la quale Salvador Dalì non potrebbe chiamarsi Salvador Dalì.