Piggs Peak, Swaziland. Stazione dei Taxi. Sono seduto su uno spoglio muretto e ripercorro mentalmente gli eventi della giornata mentre mi guardo intorno, alla ricerca di una faccia più sospetta delle altre. Ripenso al superamento della dogana, veloce e gratuito. Rifletto sul fatto che mi sento molto più sicuro rispetto al moderno e veloce Sudafrica che ho lasciato in Johannesburg. Guardandosi intorno si capisce immediatamente l’importanza del settore agricolo. È chiara anche la minaccia costituita dall’AIDS: preservativi gratuiti sono facilmente reperibili e pubblicità progresso sono all’ordine del giorno. Nonostante la povertà, le persone sono amichevoli, curiose e disposte ad aiutarti. Sono ottimista rispetto alla riuscita della mia missione (ispirato da un documentario di VICE, ambisco a documentare il fenomeno di produzione illegale di marijuana in Swaziland e le condizioni dei produttori) e orgoglioso del fuoristrada che ho noleggiato. Penso a tutto questo quando casualmente S. e T. mi si siedono accanto. Che fortuna, proprio il tipo di faccia che stavo cercando! 
Ciao, sono un giornalista e sto scrivendo un articolo sullo Swaziland. Vorrei sapere qualcosa di più sulla marijuana, weed. Dove posso comprare della weed?”. Ricevo in risposta una serie di sorrisi e risposte vaghe, “Che cerchi?” dice S., “Man, vorrei della weed, sono un giornalista”. “Ahhh” dice S. sicuro di sé ‘vuoi una moglie Swazi? Cerchi una Swazi-wife?”, “No veramente” – comincio a dire io. Poi mi fermo, rifletto, capisco il messaggio criptato. “Oh si, man, cerco una Swazi-wife. Vorrei anche vedere la sua casa, insomma i campi in cui vive, pensi sia possibile?”. I due parlottano tra di loro e poi mi dicono di si, mi faranno conoscere la rinomata ‘moglie Swazi’. Andiamo a farci un paio di birre mentre fanno delle telefonate, il posto si chiama Vuya-Vuya. Particolarmente spartano ma carino quando paragonato agli altri bar che Piggs Peak offre. Finalmente posso parlare chiaro e dico a S. che vorrei vedere delle piantagioni di marijuana, intervistare i contadini che la producono e, già che ci sono, visitare le zone rurali dove questi ultimi vivono. S. sembra aver capito bene, a quanto pare nessuno verrà quella sera ma la mattina andremo a fare il tour da me richiesto. Per il momento mi presentano K., una loro amica, giochiamo a ‘casino’, un gioco di carte Swazi, e ci scoliamo un altro paio di birre. K. mi invita a mangiare qualcosa ma declino l’invito e porto i ragazzi a casa.
 
Alle 20 sono in albergo, ceno e faccio amicizia con un ragazzo mentre guardo una partita del campionato di calcio sudafricano. N., il mio nuovo amico, mi apre gli occhi sulla povertà del paese quando mi dice che la sua ambizione è quella di trovare un lavoro migliore, un lavoro che gli permetta di guadagnare 3000 Emalangeni al mese – l’equivalente di 200 €! N., continua col suo racconto e mi dice che sogna di diventare un poliziotto ma, per diventarlo, è necessario comprarsi il posto corrompendo qualcuno e, non avendo né contatti né soldi, si rassegna al fatto che non sarà mai un poliziotto. Dice che biasima il re per questo, con un governo democratico sarebbe tutto diverso. Abbandoniamo le conversazioni serie per parlare un po’ di calcio, italiano ovviamente, prima che mi congedi per andare a letto in vista della missione mattutina.
 
L’appuntamento con le mie “guide” è fissato alle 8. Mi sveglio alle 6:30 eccitato per la giornata che ho davanti e preparo le domande da fare ai contadini, quando li incontrerò. Fatto ciò, preparo la valigia e vado a fare colazione. Incontro R., una giovane contabile in viaggio di lavoro, che mi mostra una faccia completamente nuova del paese. R. ha studiato all’Università dello Swaziland e ha un lavoro ben pagato ed è molto contenta e fiera del suo paese (sebbene anche essa vorrebbe un governo democratico). Salutata R. mi metto alla guida della mia Toyota per andare a prendere S. e T. I due ragazzi mi aspettano in strada, saltano a bordo del mio mezzo e ci avviamo verso le zone rurali nei dintorni di Piggs Peak. Come la sera prima, parliamo del più e del meno, mentre saltando da una marcia all’altra mi arrampico su impossibili strade sterrate. Entrambi non hanno un lavoro fisso ma hanno figli, entrambi pensano che il re sia uno dei mali del paese e che una transizione verso un modello democratico sarebbe benefico per tutti. Finalmente arriva il tanto atteso momento in cui S. mi dice “Parcheggia là”. Annuisco e posteggio il veicolo dietro a delle frasche.
Scendiamo e entriamo dentro una proprietà spartanamente delimitata. Sul terreno vi sono delle capanne di fango e diverse piante di banane. È proprio dietro a queste ultime che si apre un passaggio che conduce ad un campo di mais. Attraversiamo il campo di mais e vediamo in lontananza altre due capanne, in muratura questa volta. Due signore ci vengono incontro, “Sono loro!” penso mentre preparo la macchina fotografica. I quattro scambiano qualche parola in swazi e le signore mi sorridono. È allora che S. mi dice “girati, la Swaziè proprio dietro di te”. Felice mi volto, inizialmente non vedo cosa mi sta indicando, poi la noto. Dietro di me c’è un’enorme pianta di marijuana. Un sorriso inizia ad allargarsi sul mio volto per poi scomparire di colpo quando alla domanda “Dove è il resto?” ricevo come risposta “Loro hanno solo questa”.
 
Mentre abbraccio la pianta-albero per farmi fare una simpatica foto ricordo, collego in un secondo tutti i puntini. K. non era altro che una prostituta e S. e T. non usavano nessuno linguaggio in codice: volevano realmente presentarmi una Swazi-wife!