Spike Jonze, dopo molti film buoni ma mai eccelsi, arriva a compiere il tanto atteso passo della maturità con Her.

Her di Spike Jonze è il risultato della spersonalizzazione dell’uomo nella grande città, ma più che di spazi qui si parla di consistenza: l’uomo è solo non perché piccolo puntino in mezzo a distese chilometriche di palazzi di cui non si vede la fine, ma perché si è creato un carcere di solitudine, un’ampolla in cui si culla senza rendersi conto che il punto di non ritorno è più vicino di quanto egli creda.
Siamo in un futuro prossimo concettualmente non troppo distante dal nostro presente. Theodore Twombly (uno straordinario Joaquin Phoenix) vive in una metropoli imprecisata, che si differenzia molto dalle altre viste fino ad ora sullo schermo; i colori sono caldi, così caldi che volti e contorni di ciò che circonda Theodore, di ciò che sta all’esterno, sembrano liquefarsi, sfumare piano piano in qualcosa di ectoplasmatico.
Theodore è diverso dalla massa, ha un animo sensibile, scrive lettere di corrispondenza per conto terzi con gentilezza ormai rara, si traveste di volta in volta da amante, amico, marito, quasi come se li conoscesse davvero, analizzando le foto che gli vengono inviate nei minimi dettagli, per recuperare più indizi possibili sui destinatari, mostrandoci che i dettagli sono ancora importanti in un mondo invaso dall’avvento tecnologico, che diventa spesso abuso di un mezzo che può masticare cervelli ipnotizzando milioni di persone.

 

È un momento duro per Theodore, la vita gli ha voltato le spalle quasi un anno prima, e lui ha scoperto il fianco, vulnerabile per come è finito il suo matrimonio si lascia cadere in una spirale di depressione che gli farà perdere di vista tutto, perfino il suo lavoro che ha tanto di autentico, di dolce, ma lui dirà al collega che sono solo lettere, sminuendo il suo magnifico operato, sbriciolando tutto ciò che lo rende un animo nobile.
Nel mondo di Theodore sembra esserci una soluzione per tutto: per strada volti copia e incolla si aggirano con cellulari tenuti come figli, auricolari pigiati negli orecchi come ovatta, quasi a non voler sentire il lamento di un’era, quasi a non voler sentire il proprio prossimo, come se bastasse una voce elettronica per sostituire tutto ciò che ci sta intorno, tutto ciò che è carne e sangue. Per questo anche Theodore trova il modo di uscire da quell’ampolla dov’è relegata la sua vita; la soluzione è a portata di mano, la soluzione è il sistema operativo Samantha (la bellissima voce di Scarlett Johansson).

 

Her - Spike Jonze

 

Samantha è la compagna perfetta, non invade gli spazi di Theodore, è sempre lui che decide quando e come parlarci. Lei ascolta e asseconda tutto ciò che le viene detto con spirito di osservazione, ma, poco a poco, inizia ad interrogarsi su tutto, proprio come un essere in carne ed ossa, e Theodore rimarrà abbagliato da questa voce calma e docile, dalla sua voglia di scoprire il mondo, di emozionarsi per le piccole cose così tanto da innamorarsene.
Theodore inizia a chiedersi se sia insano quello che si sta compiendo fra lui e Samantha, arriverà quasi a vergognarsene, finché non ne parlerà con l’amica Amy (una dolce Amy Adams), altra anima sola che lo capirà perfettamente, lo incoraggerà a continuare dritto per la propria strada.
Samantha si ciba di conoscenza proprio come l’uomo beve acqua tutti i giorni per non rimanere disidratato, ma ad un certo punto l’appetito di Samantha diventerà inarrestabile: non può bastarle un solo uomo, anche se amato, non può bastarle il mondo di Theodore e per questo finirà per allontanarsi ferendolo come una freccia scagliata dall’alto del cielo.

 

Spike Jonze, dopo molti film buoni ma mai eccelsi, arriva a compiere il tanto atteso passo della maturità con Her, che ci mostra un mondo dalle emozioni fredde, rarefatte, sfuggite di mano alla maggior parte della popolazione, ma ce lo mostra con amore, con sentimenti caldi, con primi piani di Theodore che piange sdraiato sul letto, che vive stritolato dai suoi ricordi, di un matrimonio ormai finito, di un passato che non ritorna, ma da cui è difficile distaccarsi, un po’ come dal cordone ombelicale; anche qui per voltare pagina c’è bisogno di un taglio netto, c’è bisogno di continuare a credere nell’essere umano, nell’altro e negli altri. Samantha ha ferito Theodore ma lo ha smosso da un torpore che non avrebbe superato da solo, a dimostrare che basta un input, una semplice voce per far ricominciare tutto, per far girare di nuovo gli ingranaggi della vita, e la lettera di Theodore alla ex moglie Catherine è la rappresentazione del superamento del dolore, la presa di coscienza che la vita va avanti con noi e senza di noi, quindi perché non farne parte?