“Sembra che io abbia una costituzione che non regge l'alcol e ancor di meno l'idiozia e l'incoerenza”.

Jack Kerouac è ormai entrato di diritto nella storia come ‘Re dei beatnik’, massimo esponente della beat generation. Ma quanto (o fino a quando) egli si sia riconosciuto in tale ingombrante ruolo, è sicuramente materia degna di approfondimento.

 

Ma non solo: si sta correndo il rischio di trasformare in uno sterile e banale stereotipo il vissuto di Kerouac, che invece è stato un divenire vivido e abbagliante, a tratti tragico e sorprendentemente fluido. Di sicuro, tra gli alti e bassi delle sue esperienze, possiamo discernere a livello di stabilità mentale una parabola discendente.

 

Per rendere giustizia a tali aspetti, voglio analizzare alcuni passi de I vagabondi del Dharma e Big Sur: attraverso queste opere infatti si riesce ad avere la cifra del mutamento che lo scrittore ha vissuto. Con il passare degli anni scopriamo un Kerouac sempre più oscuro, paranoico e sconfitto dall’alcol, alla fine un uomo incapace di risollevarsi.

 

Nei Vagabondi, opera che si distacca spesso radicalmente da On the Road, le imprese degli esponenti della beat generation non sono più contrappuntate dagli scatenati ritmi bepop, ma dai principi buddisti e zen, nuova travolgente passione del collettivo. Dopo gli ormai celebri eccessi delle folli notti del noto romanzo, i beatnik danno vita ad una loro interpretazione del buddismo, che sarà evidentemente peculiare e bellissima.

 

In Big Sur leggiamo un Kerouac tragicamente diverso, precipitato: l’ultimo capitolo dell’epopea beat ci scaglia direttamente nell’abisso paranoide in cui Jack ormai vagava, e lo fa regalandoci passaggi di una forza mai letta prima. La caratteristica ‘prosa spontanea’ viene messa al servizio non più dell’entusiasmo verso una vita pronta ad offrire l’incredibile, ma di una mente sconvolta dai rovesci di un destino inquieto e dalla dipendenza dall’alcol.

 

jack kerouac (1)

 

I vagabondi del Dharma: “Io sono il Buddha-Mangia-e-Bevi!”

 

I vagabondi del Dharma, sono un cristallino specchio della filosofia buddista che aveva affascinato l’autore: non sono certo gli aspetti dogmatici e mitologici ad averlo rapito, quanto più le idee essenziali, anche salvifiche nei riguardi di una ‘vita che è sofferenza’. I Vagabondi diventano l’interpretazione moderna e intensamente beat degli illuminati monaci buddisti, in costante anelito verso la pace meditativa: l’ascetismo si affianca ad una Romantica venerazione della natura, entità meravigliosa quanto spaventosa.

 

Nel romanzo, Gary Snyder (divenuto poi un poeta cardine del Novecento americano) delinea così il Vagabondo:

“<<Dammi un altro sorso di quel fiasco. Uuah! Oh! Uhu!>>  Japhy balzando in piedi: <<Sto leggendo Whitman, sapete cosa dice, Allegri, schiavi, e inorridite despoti stranieri, vuoi dire che questo è l’atteggiamento giusto per il Bardo, il Pazzo Bardo Zen delle antiche piste del deserto, capite è tutto un mondo pieno di nomadi con lo zaino in spalla, Vagabondi del Dharma che si rifiutano di cedere all’imperativo generale che li porta a consumare e dunque a lavorare per il privilegio di consumare, tutte quelle schifezze che nemmeno volevano davvero tipo frigoriferi, televisori, macchine, o perlomeno macchine nuove ultimo modello, certe brillantine per capelli e deodoranti e un sacco di robaccia varia che nel giro di una settimana trovi comunque nella spazzatura, tutti prigionieri di un sistema per cui lavori, produci, consumi, lavori, produci, consumi, con l’occhio della mente vedo una grandiosa rivoluzione di zaini migliaia o addirittura milioni di giovani americani che girano con lo zaino in spalla, che salgono sulle montagne a pregare, fanno ridere i bambini e rallegrano i vecchi, rendono felici le ragazze e ancora più felici le vecchie, tutti Pazzi Zen che girano scrivendo poesie che prendono forma nella loro testa senza una ragione precisa e inoltre essendo gentili e avendo anche certi imprevedibili gesti strani continuano a elargire visioni di libertà eterna a tutti e a tutte le creature viventi, ecco cosa mi piace di voi Goldbook e Smith, voi due figlioli di una East Coast che io ritenevo defunta>>”.

Kerouac (Smith nel testo, l’autore ha sempre usato pseudonimi per motivi legali) e Ginsberg (Goldbook) incarnano sempre gli ideali più tipici della tradizione beat: basti pensare alla negazione dei valori borghesi-capitalistici del denaro e della vita finalizzata al lavoro, e si arricchiscono di un più ampio e mistico respiro. È ben chiaro come l’espressione pratica dei principi filosofici del buddismo cari agli artisti beat vada a tracciare un disegno sotteso ai sempre validi concetti che avevano posto le radici del collettivo.

 

L’elemento del viaggio era centrale in On the Road, e qui resta fiero protagonista, con le dovute differenze. Al posto dell’interminabile asfalto della strada, percorsa a tempi da record con veloci automobili americane, troviamo placidi sentieri di montagna. Kerouac s’innamora subito di questo nuovo modo di concepire il viaggio, visto anche come modo per disintossicarsi dagli anni di eccessi alcolici, e si lascerà guidare dall’esperto Snyder nella scalata del monte Matterhorn. Sarà poi questa la cristallina dichiarazione d’intenti che racchiude l’essenza del romanzo:

“Volevo procurarmi uno zaino completo, con il necessario per dormire, ripararmi, mangiare, cucinare, insomma cucina e camera da letto da portare in spalla, e andarmene chissà dove e trovare una solitudine perfetta e contemplare il vuoto perfetto della mia mente ed essere del tutto neutrale rispetto a qualunque idea e a tutte. Intendevo pregare, anche, e doveva essere la mia unica attività, pregare per tutte le creature viventi; capivo che era l’unica attività rispettabile rimasta al mondo”.

A proposito di come il buddismo si intercali armonicamente nella poetica (e quindi nel pensiero) di Kerouac, mi piace citarlo quando parla di buddismo neutrale: non si tratta di una sterile e dogmatica ricerca religiosa, quanto di una totale apertura verso tutto ciò che c’è di buono nelle persone:

“La gente ha il cuore buono, che viva come i Vagabondi del Dharma o no. La pietà è il cuore del buddismo”.

Sarà inoltre un buddismo dai connotati singolarmente ed ecumenicamente cattolici (retaggio della sua anche rigida formazione), soprattutto per il già visto concetto di pietà, ma anche per l’interpretazione del Nirvana come Paradiso. È una visione facile da avvicinare, anche solo pensando alle illuminazioni ascetico-meditative che caratterizzano il vissuto di alcuni santi cristiani.

 

Ma si farebbe un errore ad immaginare i Vagabondi unicamente come asceti: sono sempre i beatnik amanti delle feste, delle interminabili discussioni sui massimi sistemi illuminate da abbondanti dosi di alcol, delle orge sfrenate con ragazze coinvolte e sconvolte dal buddismo libertino di questi moderni bhikkhu.

“Come sei orale, Smith, non fai altro che mangiare e bere.” – “Io sono il Buddha-Mangia-e-Bevi!”.

 

Big Sur: “In quel canyon sarei impazzito sei settimane dopo, nella notte di luna del 3 settembre”

 

“E mi guardo intorno nella squallida cella, ecco lo zaino speranzoso riempito alla perfezione con tutto il necessario per vivere nei boschi, fino ai più minuti dettagli della cassettina del pronto soccorso e le indicazioni su cosa mangiare e persino un piccolo astuccio da cucito saggiamente rimpinguato dalla mia brava mamma […]. Ma lo zaino se ne sta lì speranzoso in mezzo a un casino di bottiglie scolate, fiaschette vuote di Porto bianco, cicche, rifiuti, orrore… <<Se non mi do subito una mossa sono spacciato>> mi dico, spacciato come negli ultimi tre anni di disperazione ubriaca, una disperazione fisica e spirituale e metafisica che non si può imparare a scuola per quanti libri si leggano sull’esistenzialismo o sul pessimismo, per quante tazze di ayahuasca visionaria si bevano, per quanta mescalina si prenda, per quanto peyote s’ingurgiti – La sensazione di quando ti svegli con il delirium tremens la paura di una morte misteriosa che ti gronda giù dalle orecchie come le grevi ragnatele dei ragni nei paesi caldi…”.

Anno 1960: Kerouac raggiunge San Francisco per passare un po’ di tempo in santa pace nella cabin di Ferlinghetti (storico editore della beat generation), una casetta dispersa nell’idilliaca natura di Big Sur, California. Sono passati due anni dai Vagabondi, almeno dieci dalle vicende narrate in On the Road. Il ‘Re dei beatnik’ è nell’immaginario comune sempre il Sal Paradise dello storico romanzo, ma in verità è un trentottenne che porta sulle spalle il peso di una fama inaspettata e scomoda, e nella testa le prime avvisaglie di un disagio mentale che l’etilismo ha, se non causato, sicuramente fatto esplodere.

“…e secondo i giornali io sarei il Re del beatnik, già, ma nello stesso tempo io sono arcistufo di tutti gli entusiasmi infiniti dei nuovi bambocci che vogliono conoscermi e scaricarmi addosso tutta la loro vita per farmi saltare su e giù dicendo sì sì hai ragione, cosa che non riesco più a fare – Sono venuto a passare l’estate a Big Sur proprio per stare alla larga da situazioni del genere – Come quei cinque patetici studenti di liceo che una sera si sono presentati alla porta di casa mia a Long Island indossando giubbotti con la scritta “Vagabondi del Dharma” aspettandosi che io avessi venticinque anni per via di un errore sul risvolto del libro, e invece eccomi lì vecchio abbastanza da essere il loro papà…”.

È ancora il viaggio a fare da motore alla scrittura di Kerouac, il movimento come unica via per la stabilità: e lo zaino ‘speranzoso’ che vediamo nel passaggio precedente non fa che riportarci col pensiero allo zaino che nei Vagabondi simboleggiava la libera serenità del bhikkhu in montagna. Qui invece lo si distingue a fatica in mezzo allo squallido caos, teatro di un risveglio rocambolesco se non tragico, con l’autore nel pieno dell’astinenza etilica.

 

La cabin dove Kerouac va alla ricerca di una utopica serenità è immersa nella natura mozzafiato delle alture californiane della costa del Pacifico: ritroviamo l’elemento naturale, che nei Vagabondi era romantica e mistica rappresentazione del divino. In Big Sur, anche la natura riflette l’inquietudine dell’autore: sarà infatti sempre più spesso una minacciosa presenza, manifestazione della paranoia e portatrice di presagi di morte.

 

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La cabin di Ferlinghetti

 

“Urla con la furia di fiume in piena proprio sotto di me – E per di più laggiù il buio è più fitto che mai! Là sotto ci sono radure, felci orribili e viscidi tronchi, muschi, pozzanghere pericolose, umide foschie si alzano gelide come l’alito della morte, grandi alberi minacciosi si piegano su di me arrivando a sfiorare lo zaino – Sento un rumore e lo so benissimo, è destinato ad aumentare man mano che sprofondo verso il basso e per paura di quanto possa diventare forte mi fermo ad ascoltare, e difatti aumenta scagliandosi misteriosamente contro di me dai recessi di una battaglia che infuria fra oscure cose, legno o roccia o qualcosa che si è schiantato, che si è spappolato completamente, un pericolo di terra fradicia nera sprofondante – ho paura di andare laggiù”.

“<<Guardate laggiù, una lontra morta che galleggia fra le alghe!>> – Ed è proprio una lontra morta suppongo, un grande ammasso informe marrone chiaro che galleggia su e giù luttuosamente con le onde e le alghe”.

La tetra carcassa della lontra diventerà una sorta di spettro, pronto ad inquietare Kerouac nei momenti di delirio che lo attendono. Ma sarà una lettera della madre a sconvolgerlo ancora più a fondo: lo renderà partecipe della dipartita del gattino Tyke, che per Kerouac era come un fratello. Ed è immediato il rimando al background dell’autore, che in tenera età dovette vivere la perdita del fratello Gerrard, tragico evento che non mancherà di appesantire la nera cappa di morte che sembra perseguitare la psiche sempre meno stabile di Jack.

 

Tanto rilevante quanto questi presagi è il tema della follia. L’autore non fa che annunciarlo, facendolo volutamente diventare l’esplicito leit-motiv dei momenti più nevroticamente convulsi della narrazione.

“In quel canyon sarei impazzito sei settimane dopo, nella notte di luna del 3 settembre”.

Racconta di frequente la sua incipiente follia con un occhio che possiamo senza esagerare definire lucidamente clinico, lo sguardo vigile di un uomo che sente sfuggire dalle mani le briglie della propria sanità mentale.

“<<E se Ron e tutti gli altri, Dave e McLear o chissà chi altro, gli altri ragazzi di prima, fossero una congrega di streghe piombate qui per farmi impazzire?>> ci penso seriamente – Ricordando la fantasticheria alla quale mi abbandonavo spesso da bambino e sulla quale ruminavo seriamente tornando a casa dalla Scuola Parrocchiale di St Joseph o seduto in salotto, e cioè che tutto il mondo si diverte a prendermi in giro e io non me ne accorgo perché ogni volta che mi giro per vedere chi c’è alle mie spalle quelli si ricompongono all’istante riassumendo un’espressione normale, ma non appena distolgo lo sguardo mi saltano alla nuca bisbigliando sghignazzando e tramando alle mie spalle, silenziosamente, senza farsi sentire, ma non appena mi volto di scatto per coglierli sul fatto si sono già ricomposti perfettamente e stano dicendo: <<Dovete sapere che il modo migliore per cuocere le uova è>> oppure intonano canzoni di Chet Baker guardando dall’altra parte… […] Arrivato in età adulta, momento del disastro dell’anima causato dal troppo bere, tutto ciò si era facilmente trasformato nella fantasticheria per cui ogni persona al mondo mi stava stregando per condurmi alla pazzia: inconsciamente dovevo proprio esserne convinto perché come ho detto non appena Ron Blake se ne fu andato mi sentii di nuovo bene e addirittura soddisfatto”.

Sarà una decisione oltremodo avventata a far precipitare ulteriormente la situazione. Kerouac conosce grazie all’amico Neal Cassady una ragazza, Billie, che presto si innamora di lui e della figura di profeta beat che rappresenta. Si rivela però alquanto squilibrata, e per di più ha un bambino a carico, Elliott; Kerouac, dopo una settimana passata a casa di lei sempre sulla stessa poltrona a bere Porto (fino a romperne le molle), decide di condurli entrambi nella casetta a Big Sur: la situazione è esplosiva.

 

A far loro compagnia ci sono lo scrittore Lew Welch (Dave Wain) e consorte (Romana). Giunti a Big Sur si gettano le premesse di un soggiorno disastroso, con Kerouac che avverte vibrazioni maligne provenire da tutti i presenti, bambino compreso. Con la tipica secchezza causata dall’abuso di alcol continua a recarsi al ruscello per bere, almeno fino a quando non si convince che questo deve essere stato avvelenato con del kerosene. L’assurda paranoia galoppa, e a cena non toccherà cibo: sono sempre le propaggini del complotto volto a farlo uscire di senno, forse Lew Welch ha drogato il cibo. Forse sente già le pupille dilatarsi? Lew dev’essere invidioso per il successo che l’amico ha avuto come romanziere, forse addirittura Neal ha pensato di accompagnarlo a Billie per farlo impazzire e derubarlo.

“Eccola lì l’ampia lugubre luna piena che spaventa i pazzi e solleva le acque”.

Questa affascinante immagine della luna sarà sfondo di una notte delirante ed insonne. Kerouac si convincerà persino che il bambino batta il piede sul tavolato per tenerlo sveglio, proprio quando sta per addormentarsi. È tormentato dal pensiero ciclico del pazzo. Giunge poi una sorta di tetra illuminazione:

“Vedo la Croce, è silenziosa, rimane lì a lungo, il mio cuore le si avvicina, tutto il mio corpo svanisce nell’avvicinarcisi, stendo le braccia per essere portato verso quella croce, buon Dio sto per essere portato via, il mio corpo comincia a morire, e a venir meno nella Croce eretta in una zona luminosa dell’oscurità, comincio a urlare perché so di morire ma non voglio spaventare Billie o gli altri col mio urlo di morte perciò inghiotto l’urlo e mi lascio semplicemente andare dentro la morte e la Croce”.

Può sembrare una ricomparsa degli aspetti mistici dei Vagabondi, ma è evidente come questa volta la Fede vesta i panni di una lugubre follia, più che della luce salvifica. Al risveglio si troverà di nuovo sprofondato nell’insofferenza, e la decisione non è difficile da prendere: si torna in città. Restano solo da seppellire i rifiuti, e Billie si prende l’onere di scavare la buca.  Kerouac, invece, tocca il vertice del delirio paranoide.

“Billie si offre di farlo lei ma invece di un semplice buco scava una piccola fossa decisamente a forma di bara – Persino Dave Wain strabuzza gli occhi quando la vede – È proprio delle dimensioni giuste per metterci dentro un piccolo Elliott morto, Dave sta pensando la stessa cosa lo indovino dall’occhiata che mi lancia. […] E anche Romana lo nota, una fossa perfetta di un metro per un metro e mezzo i bordi precisi come se tutto fosse pronto per calarvi dentro una piccola bara – Mi inorridisce a tal punto che prendo la pala e m’incammino per andare a riempirla di spazzatura e sconvolgerne in qualche modo la precisione dei contorni ma il piccolo Elliott comincia a gridare afferrando la pala e mi impedisce di avvicinarmi alla fossa – Allora ci va Billie e comincia a buttarci dentro la spazzatura ma poi mi guarda con aria significativa (qualche volta sono sicuro che aspirasse proprio a farmi impazzire): <<Vuoi finirlo tu il lavoro?>> – <<Che vuoi dire?>> – <<Coprirlo di terra, rendere le onoranze?>> – <<Che vuoi dire rendere le onoranze?>> – <<Bé, io ho detto che avrei scavato la fossa per i rifiuti e l’ho fatto, non dovresti farlo tu il resto?>> Dave Wain ci guarda come incantato, anche lui ci vede qualcosa di folle, qualcosa di freddo e di spaventoso – <<D’accordo,>> dico <<lo copro di terra e la pesto ben bene>> ma appena mi muovo per farlo Elliott urla <<NO no no no!>> – <<Per quale ragione non vuole che mi avvicini alla fossa? Perché mai l’hai fatta a forma ti tomba?>> grido infine”.

È un momento a mio parere grandioso e disarmante, uno sguardo fulmineo nella psiche dell’autore, invasa da un delirante immaginario mortifero. Il solo pensiero che gli amici siano presi dalle sue stesse farneticazioni mentali ci illumina sul livello di distaccamento dalla realtà raggiunto in un paio di giorni. Un paio di giorni che, ricordiamolo, dovevano essere consacrati all’armonia, al buon mangiare e alla condivisione dei più buoni sentimenti.

 

Ma ora si torna a casa, l’incantesimo claustrofobico è spezzato, e come per magia tutta la paranoia accumulata e la nevrotica inquietudine vanno scemando, lasciando spazio alla serena certezza che, alle spiegazioni che darà ai suoi amici, seguirà un quieto ritorno alla normalità.

“Qualcosa di buono continuerà a venire fuori da tutte le cose – E sarà eterno e dorato proprio così – Non c’è bisogno di aggiungere altro”.

 

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