Il film di Jim Jarmush è una riflessione esistenziale velata di una romantica malinconia di fondo.

Le leggi, non scritte, della grande distribuzione sono note a tutti; tuttavia continuo a domandarmi come mai certi film (uno su tutti: Mud di Jeff Nichols) non riescono a trovare il minimo spazio nel circuito distributivo italiano. Tra questi film rientra anche l’ultimo lavoro del regista americano Jim Jarmush, Solo gli amanti sopravvivono, presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, tra l’altro una delle migliori edizioni degli ultimi anni.

 

I protagonisti di Solo gli amanti sopravvivono sono quelle creature fantastiche che tanta fortuna hanno avuto nel recente passato sul piccolo e grande schermo: i vampiri. Ma se in Twilight erano semplicemente i protagonisti di una storia d’amore giovanilistica in salsa melò e in True Blood erano (non semplicemente) la reificazione del “diverso” in una società xenofoba come quella in cui viviamo, nel film di Jim Jarmush assumono connotati del tutto differenti trovandosi al centro di una riflessione esistenziale velata di una romantica malinconia di fondo.
 
Esemplari i primi venti minuti, che ci presentano i due protagonisti, Adam ed Eve, gli amanti del titolo, ai due lati del mondo, alle prese con il bisogno primario di ogni essere “vivente”: nutrirsi. Necessità alla quale assolvono non più succhiando sangue dagli esseri umani (o, come li chiamano loro, zombie), ritenuto infetto, ma bevendo sangue pulito in provetta che ottengono da medici dietro oneroso compenso. Sono ultracentenari, sposati la prima volta nel 1864, ed hanno conosciuto (o sono stati loro stessi?) alcuni tra i più grandi artisti del passato quali Shakespeare, Schubert, Byron.
Solo gli amanti sopravvivono_1
 
Adam si trova a Detroit, nel suo palazzo lugubre ed imboscato, insieme con gli strumenti del mestiere (musicista) che ha svolto nel corso dei secoli passati sulla Terra, e con una sempre più insistente depressione che lo spinge a cullare la possibilità di farla finita. “Mi sento come sabbia sul fondo di una clessidra” dice alla compagna. Eve è a Tangeri insieme al comune amico, anch’egli vampiro, Kit (Christopher Marlowe in persona, lo scrittore maledetto che ha ispirato William Shakespeare) ma deciderà presto di coprire le migliaia di chilometri che li separano volando dal suo amore in difficoltà. Rileggendo in aereo, lei grande divoratrice di libri, le parole di Sir William sull’eternità e l’immutabilità dell’amore. Adam ed Eve, due anime gemelle che hanno attraversato centinaia di anni, adattandosi a secoli di cambiamenti, e che adesso stanno nel tempo con la quieta rassegnazione di chi ne ha viste tante, forse troppe. Esauriti, faticano a capovolgere ancora una volta la clessidra. Diventano così l’emblema di un disagio esistenziale che è malattia del nostro millennio decadente.
 
C’è un che di malinconico nella vita, esclusivamente notturna, di un vampiro. C’è anche qualcosa di profondamente romantico in due anime sole che si muovono all’interno di una cornice che è il mondo a loro estraneo. Così diverso dal mondo che hanno conosciuto loro e che preziosamente conservano in parole, musiche ed immagini.