Un mese è passato rapido come uno schiocco di dita, come sempre. Ripenso nostalgicamente al mio atterraggio a Cape Town: io che distolgo lo sguardo dal romanzo che sto leggendo per guardare fuori dall’aereo, il sole che mi abbaglia e per un attimo mi fa credere di essere in paradiso. Poi l’aereo plana e curva a sinistra allo stesso tempo, e d’improvviso Table Mountain, nei suoi improvvisi 1100 metri di imponente bellezza, mi si materializza davanti. Mi lascia senza fiato, e la luce dorata del tramonto che ne pennella le pendici la rende quasi sacra. L’uscita dall’aeroporto è invece un’esperienza pressoché opposta: la sacra visione dell’imponente monumento fatto da madre natura è sostituita da un drammatico profano. La prima cosa che si incontra uscendo dall’aeroporto è una delle più grosse baraccopoli della città, una decina di chilometri di instabili capanne, persone e qualche capra che vivono ai bordi dell’autostrada e – almeno a prima vista – ai margini della società. Trovo che l’arrivo a Cape Town sia una perfetta metafora che descrive i contrasti che caratterizzano questa città – e che forse caratterizzano l’intero Sudafrica. Infatti, se da un lato si trovano la bellezza naturalistica, il dinamismo sociale, una città artisticamente viva e invitante per i turisti, dall’altro povertà, contrasti sociali e criminalità (vedi Numbers Gang) sono all’angolo di ogni strada.
Rileggo il mio diario e mi rendo conto di come Cape Town, proprio per via dei suoi contrasti, crei un certo bipolarismo emotivo per cui la malinconia sale alla svelta ma svanisce altrettanto velocemente.
 
In un giorno più malinconico scrivevo: “È come se vi fosse una duplice realtà, due veri e propri mondi distinti, divisi dalle recinzioni elettriche che delimitano le abitazioni, dal filo spinato che riveste ogni muretto e dai numerosi cancelli che ti devi chiudere dietro prima di entrare in casa. Ogni mattina andando al bar passo, necessariamente, attraverso la messa in scena della disuguaglianza. Macchine costose che partono dal mio quartiere per andare al lavoro sfrecciano accanto a poveri senzatetto coperti di stracci, che setacciano i secchi della spazzatura in caccia di ogni avanzo ancora utilizzabile. Accanto a questi, già dalle prime ore del giorno, si trovano i poveri di una categoria leggermente superiore, i car-guards (parcheggiatori abusivi e prima classe sociale che non si da per vinta e prova a far qualcosa per sbarcare il lunario). Mentre le donne di servizio varcano portoni di case che puliranno durante il giorno, scambiandosi sull’uscio con signore ben vestite.”
 
Un altro giorno ho invece scritto: “Il bus navetta gratuito (con tanto di Wi-Fi) che mi porta fino all’università, mi fa sempre tornare il sorriso. Anche la passeggiata per il campus è sempre un toccasana per il morale: mai visto un campus così colorato, cartolina perfetta della ‘Nazione Arcobaleno’, lasciata in eredità da Mandela. Ancora, le persone sono estremamente sorridenti e gentili. Molti si danno da fare per cogliere le opportunità offerte da un paese in sviluppo e migliorarlo, spesso riuscendo anche a trarne un sostanzioso profitto. Tra l’altro sono tante le attività volte ad integrare i poveri e i gruppi sociali deboli (il paradosso qua è che è una minoranza – i bianchi – a integrare una maggioranza – i neri), dalle attività di pulizia all’integrazione tramite progetti artistici. E poi i manifesti, le attività, i mercati e lo sport colorano le strade di questa strana città. È indubbiamente un posto dove la qualità della vita è alta e si può vivere bene.”
 
Probabilmente la nota più significativa è questa, scritta in un giorno di umore neutro. “Le divisioni sono marcate ma c’è un grande margine di cambiamento, e quest’ultimo è un processo in atto. Ripenso a quando sono andato a pranzo nella baraccopoli. Viste dall’interno, le cose sembrano un po’ meno radicali di quanto sembrano da fuori. E’ uno spettacolo triste da vedere, ma guidandovi all’interno si nota che c’è chi inizia ad avere un tenore di vita migliore, chi possiede macchine, bei vestiti e un bel giardino. Insomma la classe media si sta formando – ovviamente – a partire dal basso. Sono sicuro che se tornassi tra due anni sarebbe già tutto cambiato: questo paese è l’emblema del dinamismo.”
 
Scorro il mio diario mentre pianifico il resto del viaggio – durante il quale potrò finalmente vedere cosa ha da offrire il resto del paese. Mi emoziono a pensare ai safari, alle spiagge deserte, ai tramonti e ai pernottamenti con comunità locali che farò nei prossimi giorni. Tuttavia ho un chiodo fisso in testa da circa un mese, da quando vidi un documentario di Vice sullo Swaziland. Lo Swaziland è il San Marino del Sudafrica, se non fosse che il primo è l’ultima monarchia assoluta dell’Africa e che la povertà e il tasso di morti per HIV sono altissimi. Credo che sia anche per questo che nessuno sa dirmi niente di preciso su questo piccolo paese di 1.4 milioni di (quasi tutti) contadini: nessuno c’è stato. Mi è rimasto in testa il video perché documenta la massiccia produzione – illegale – di marijuana in Swaziland. Dunque vi lascio rendendovi partecipi del mio obiettivo: vado in Swaziland con l’obiettivo di farmi un nuovo timbro sul passaporto e di poter scrivere un articolo sulla produzione illegale di ganja in Swaziland!
 
Ps. C’è un’altra storia incredibile sempre a proposito dello Swaziland. Il re, ogni anno, sceglie una nuova moglie durante una sorta di Miss Swaziland, dove migliaia di donne sfidano la sorte ballando a seno scoperto e sostenendo prove per lui.