Una cena di lavoro ad Hanoi.

Se il mondo era già “piccolo” per la saggezza popolare, lo è ancor più nell’epoca della globalizzazione. Tempi e distanze si assottigliano in un eterno presente scandito dagli accessi ai relativi account di posta elettronica, Facebook, Twitter e chi più ne ha, più ne metta. Un bene? Un male? Ai posteri l’ardua sentenza. Per adesso, io mi gongolo in questo sogno di relazioni fantomatiche e geolocalizzazioni sospette senza congetturarmi a dovere sulle enormi implicazioni del caso, specialmente quando “le contingenze” mi permettono di fare incontri insperati. Proprio scorrendo la home di Facebook, mi sono imbattuto, come per incanto, nell’autoscatto di un caro amico tedesco avvinto dal torpore del caldo abbraccio di Hanoi. “E’ mai possibile che Tilli si trovi in questo momento a qualche chilometro da casa mia?”, mi sono domandato, e Zuckerberg ha risposto con la rapidità di Mercurio : “Jawohl!”.

Appollaiati sulla più bella terrazza di Hoan Kiem (situata al numero 11 di Hàng Gai, per chi volesse farci un salto), io e Tilli abbiamo lasciato che la birra locale ci lubrificasse le fauci prima di recuperare il tempo perduto.

“Cosa ci fai qui in Vietnam, Samu?”.

“Bah, le solite cose… ”.

“Ad Hanoi?! Andiamo, mai mi sarei aspettato di trovarti qui!”.

“Eppure!”.

“Dai, raccontami di uno dei momenti più stravaganti del tuo soggiorno ad Hanoi!”.

“Lasciami riflettere un secondo… Sai, la mia prima cena di lavoro è stata molto diversa da quanto mi aspettassi…”.

“Sono tutto orecchie!”.

 

*

 

Orbene. Partiamo dal presupposto che una cena di lavoro è un’esperienza come tante altre. Prepariamoci adeguatamente a trascorrere un momento, per così dire, di effervescenza impiegatizia, imbellettiamoci e gettiamo in pasto ai cani il suddetto presupposto. Perché? Perché in Vietnam il “lavoro” sta ad una “cena di lavoro” come il “celibato” sta ad un “addio al celibato”. Il soggetto è immanente, orbita attorno alla conversazione e ne è addirittura il pretesto. Tuttavia, non è il suo centro dal momento che lo scopo ultimo è approfondire le relazioni umane. Facile a dirsi col senno di poi. Io, alla mia prima cena di lavoro in Vietnam, ci sono andato in giacca e cravatta.

L’invito ufficiale l’ho ricevuto da Khang (nome di fantasia), management consultant, ristoratore e “belgofilo” di rara caratura. Durante un incontro di lavoro con vari esponenti del mondo imprenditoriale hanoita, il mirabile poliglotta mi si è attaccato come una cozza di Ostenda per condividere le gioie del trapassato soggiorno belga.

“Sono lieto di invitarla a cenare con alcuni collaboratori al mio ristorante, mercoledì prossimo. A Bruxelles, ho passato dei fantastici momenti! Santé, bonheur!”.

Lusingato dalla gentile proposta, ho accettato immediatamente.

Il giorno del mio debutto in società l’ho trascorso a preparare bei discorsi e a scegliere il giusto outfit. Ci tenevo così tanto a fare bella figura che, al posto di inforcare il mio scooter giallo, ho chiamato un taxi per la mia entrata in scena alla Fred Buscaglione, una scelta che si sarebbe rivelata fondamentale per la mia incolumità. Peccato però che né io, né il tassista, né Google Maps siamo riusciti a trovare il ristorante di Khang, per cui di fronte alle insistenze telefoniche del padrone del locale ho accettato di farmi venire a prendere in un luogo imprecisato della periferia.

“Ti sei perso? Dai, vengo a prenderti in moto che sei in ritardo”.

 

La cena.

Alcuni minuti dopo, giungiamo a destinazione. Il ristorante assomiglia più ad un “Bia Hoi” (beer-garden all’aria aperta dove ci si riunisce al termine di una giornata di lavoro per bere della birra brassata di fresco) piuttosto che ad un posto dove si consumano pasti. L’atmosfera è totalmente rilassata, si siede su dei microscopici sgabelli in plastica e si condividono le porzioni tutti assieme, ma soprattutto si fanno tintinnare i bicchieri senza sosta. Neanche il tempo di mettermi a sedere che qualcuno già mi sta porgendo del vino di riso per rompere il ghiaccio.

“Il signor Anh lavora nel settore edilizio ed è molto felice di fare la tua conoscenza”, mi confida il mio ospite.

“Molto lieto! E cos’è che starebbe dicendo il signor Anh?”.

“Alla goccia!”.

Non ho potuto rifiutare. In Vietnam, bere fra colleghi e partner commerciali è una professione di fede reciproca. L’alcool è un lubrificante sociale talmente importante che coloro che mostrano una maggiore resistenza fra i quadri della burocrazia locale, hanno maggiori chance di fare carriera. Almeno fino a quando non li stronca una patologia dovuta all’abuso.

 

 

hanoi (3)

 

 

“Grazie del brindisi signor Anh! Khang, guarda, ti ho portato del cioccolato dal Belgio!”.

“Grazie mille! Appoggialo pure lì sul tavolo”.

E lì sul tavolo è rimasto a squagliarsi senza che nessuno se ne accorgesse. Nel frattempo, alcune specialità locali sono atterrate di fronte ai nostri piatti bianchi su cui giacciono pulite delle bacchette di legno scuro. Khang spezza il pane secco per distribuirlo ai convitati che lo utilizzeranno per portare alla bocca dei cuori di vongola saltati al curry con aglio, coriandolo e peperoncino. Ma prima un altro brindisi “alla goccia” in onore del padrone del Bia Hoi. Posato il bicchiere vuoto, tutti si stringono la mano calorosamente secondo un tacito rituale. È il momento di chiedere delucidazioni a Khang.

“Perdonami la domanda ingenua, esiste per caso un’etichetta per il brindisi in Vietnam?”.

“Certamente. Quando si tende il bicchiere, si tocca il proprio gomito in segno di rispetto. Se la persona con cui si brinda appartiene ad una più elevata categoria sociale o è anziano, si urta il bicchiere tenendolo più basso in segno di rispetto. Terminato il brindisi, è bene stringere la mano della persona in questione e farlo con entrambe le mani è ancora meglio”.

Mi sorride enfaticamente per accertarsi che abbia capito, poi con un gesto rapido allontana qualcosa che ronza intorno al mio orecchio sinistro e va a posarsi fra me e lui. Quel giorno ho scoperto che gli esemplari di Periplaneta Americana, meglio noti come “blatte rosse”, sono in grado di volare. Una volta che avranno imparato anche a nuotare, conquisteranno il mondo.  

Squisite prelibatezze a base di manzo, verdure, erbe fresche, vermicelli, carpacci vari, pollo stufato e riso, si susseguono senza soluzione di continuità, così come i brindisi a base di birra locale e vino di riso. Ne approfitto per allenarmi con i gesti rituali. Tento di mostrare rispetto ad un giovane che ha fatto altrettanto sin dall’inizio del simposio e a forza di abbassare i nostri bicchieri, finiamo entrambi con le mani negli spinaci saltati. I sensi cominciano a tradirci. Poco dopo fa la sua comparsa al ristorante un personaggio singolare che in pratica smonta dal motorino in corsa. È alticcio. In un buon inglese mi dice che è lieto di conoscermi e che dobbiamo brindare all’incontro. Impossibile opporsi.

“L’ingegner Tuan è un amico di vecchia data. Viene spesso qui al mio ristorante per mangiare e bere qualcosa. A cena non si parla di lavoro, siamo qui per passare il tempo e conoscerci meglio”.   

“Capisco. È bello vedere che molti amici trascorrono del tempo nel tuo locale”.

“Certamente! Qui ci conosciamo tutti!”.

E urlando alcune formule in vietnamita, invita gli altri clienti del locale a unirsi al nostro tavolo e a presentarsi all’ultimo arrivato.

Davanti al profilarsi di incalcolabili gottini di vino di riso, sono stato colto dagli stessi brividi che il generale Badoglio deve aver sentito sulla schiena prima di me. Quella cena si stava trasformando nella mia Rotta di Caporetto. Fortunatamente, dopo alcuni brindisi di riverenza, Khang ha letto chiaramente nei miei occhi la volontà di negoziare una resa incondizionata e mi ha risparmiato tutti gli altri perché non perdessi la reputazione. Un altro concetto molto importante della cultura locale.

 

La metacena.

Quando gli ospiti hanno cominciato a prendere la via del ritorno, Khang ha insistito per riaccompagnarmi a casa in ciclomotore malgrado le mie reticenze. Anche stavolta, ho dovuto cedere di fronte alla sua ostinazione. Contrariamente a quanto mi aspettassi, lui era lucidissimo, quasi non avesse neanche preso parte a quel banchetto innaffiato a dovere. Ed è forse così, perché a due passi dal mio portone ha insistito per ordinare due porzioni di Pho Ga (brodo di tagliolini al pollo, consumatissimo nella capitale) e due birre alla tavola calda all’angolo. Non so bene se l’uomo che avevo di fronte fosse in realtà il fratello gemello che non aveva preso parte al convivio, oppure se Khang avesse appena inventato il concetto di “metacena”, la “cena oltre la cena”. Fatto sta che io sono rimasto in silenzio a riprendermi dalla disfatta per tutta la durata dello spuntino. Fine della storia.

 

*

 

“Non c’è che dire Samu: un ingresso in società come si deve!” incalza il mio germanico amico.

“Bhé, in qualche modo devo aver superato il battesimo del fuoco perché Khang mi ha invitato ad altre due cene e ad andare con lui a mangiare il serpente in un villaggio a Nord di Hanoi…”.

“Ehh?! E come diamine lo preparano?!”.

“Prima di tutto, il cuoco gli spacca la testa sul tavolo di fronte a tutti gli invitati, poi estrae il cuore e…”.