L'altrove di Gus è la rievocazione di una poetica testimoniata e sognata.

Quando nel 1997 uscì l’album dei Yo la tengo I can hear the heart beating as one, Gus Van Sant provava a raggiungere una catarsi attraverso il suo primo libro Pink.

 

I fortunati che hanno assistito alla presentazione del libro lo ricordano vagamente a disagio mentre saliva sul palco.

 

Perché sì, quel libro tenuto timidamente tra le mani quasi a voler chiedere permesso ai presenti, è stato, probabilmente, l’unico atto di narcisismo d’artista emerso a sprazzi qua e là nel corso della sua opera cinematografica.

 

Alice a Hollywood non è mai stato completato e così nacque Mala Noche: il tentativo, riuscito, di raccontare non solo quel nomadismo che caratterizzò l’infanzia del regista ma il senso di precarietà aleggiante, cullato in seno a un decennio di grandi cambiamenti culturali.

 

Il romanticismo nato dalla perdita di un’identità, di un punto di riferimento, di una passione straziante non corrisposta torneranno insistentemente nei film successivi Drugstore Cowboy e Belli e Dannati.

 

Gus Van Sant (3)

Keanu Reeves e River Phoenix in Belli e Dannati

 

 

Gus tiene in mano il libro e legge qualche passaggio su luoghi e persone ormai meri ricordi simili a sogni. Si aggrappa proprio a questi sogni ad occhi aperti: ai caratteri, a parole che ripetute ad alta voce perdono la loro intimità con chi le ha messe in fila.

 

Ora è Spunky, un regista e uomo insoddisfatto del proprio lavoro e di come l’arte a cui ha deciso di votare la propria vita si sia irrimediabilmente contaminata. E Gus – Spunky – vive con quella lucida consapevolezza che di lì a poco, gli anni descritti con tanto amore, avrebbero lasciato spazio a tempi bui.

 

Eppure questo figlio dell’America sta per essere candidato a un oscar per Will Hunting (1997) mentre per Milk (2009) il mondo sembra ancora così lontano da quel palco dove Pink sta per essere vivisezionato.

 

Almeno il mondo come lo conosceva lui con la sua Portland e i suoi ragazzi esiliati sulla 53rd & 3rd.

 

Continua a leggere dei passaggi di quel suo piccolo libro, per le domande c’è tempo, tutti credono sempre ci sia abbastanza tempo per fare ciò che si vuole.

 

Ecco, quei ragazzi che vivono al limite dell’alienazione, in quel racconto ci sono tutti: Felix e Blake.

 

Forse avrebbe dovuto essere più sottile nella descrizione di queste persone reali ormai diventati personaggi nell’immaginario collettivo?

 

Blake è Kurt Cobain, il leader dei Nirvana che in una notte del 1993 dedicò una canzone dei Meat Puppets al compianto River: Jesus don’t want me for a sunbeam.

 

Gus Van Sant (4)

Gus Van Sant e Michael Pitt sul set di Last Days

 

 

Gus Van Sant sembra essere l’unico anello di congiunzione tra le due facce tormentante degli anni 90. Blake e Felix, anche in Pink percorrono percorsi paralleli come nella vita vera e gli esiti non sembrano essere molto diversi: la realtà non può essere cambiata e non permette alla fantasia di trovare un proprio lieto fine.

 

River Phoenix è Felix, eroe di stampo beat di Belli e Dannati.

 

Quel film che l’agente di River e sua madre, Heart, volevano impedire di girare al ragazzo d’oro del cinema americano ma che Gus aveva voluto fortemente perché nell’aria c’era qualcosa di irripetibile: il film che diventò di diritto un manifesto generazionale.

 

Il regista del Kentucky sapeva di avere tutti gli elementi della Storia a suo favore: i ragazzi reclamano a gran voce un posto nel mondo da tutti gli angoli più remoti dell’esperienza umana. Ma come condensare pochi anni così fondamentali, talenti immensi e animi sofferti in poche pagine fortemente autobiografiche?

 

Bisogna creare un altro mondo.

 

Quel mondo è Pink: un’altra dimensione, forse una casa in cui tornare o un piano in cui accadono tutte le cose che non sono mai successe. Un modo di svincolarsi da un presente che non consente soste per crogiolarsi nel passato che si è sempre agognato o in un futuro pregno di malinconia perché avrebbe potuto esserci se…

 

Gus Van Sant (2)

River Phoenix

 

 

Spunky non si era innamorato di River, non è innamorato di Felix in queste pagine che diventano sempre più difficili da leggere ad alta voce senza sentire un nodo alla gola: lo ama, semplicemente.

 

Con la stessa patetica disperazione con cui si amano le cose perdute, la rassegnazione di chi va incontro al giudizio universale a testa alta come Bob, il tossicodipendente di Drugstore Cowboy.

 

Lasciato sul pavimento a morire, sulla strada a giacere nell’indifferenza altrui, ma è River Phoenix quello che sta morendo sull’asfalto di Los Angeles e quel momento sembra ripetersi all’infinito nella memoria di chi l’ha conosciuto; tutto diventa un logoro film su videocassetta il cui nastro rischia di incepparsi mentre Gus Van Sant in un ultimo sforzo, prova a salvare il suo beniamino in quell’altro luogo che è Pink. E con River porta in salvo per poche strazianti pagine anche Kurt, il cui congedo dal mondo non è il volgare boato di un fucile in bocca pronto a cancellare il suo volto, e un’identità ormai ingombrante, ma ha il puro e semplice suono del grido di un neonato che annuncia la sua venuta al mondo: punk!

 

È arrivato il momento per qualche domanda da quel pubblico di San Francisco così generoso: è un’osservazione scomoda che un’intera generazione si è fatta per anni sull’ultima scena di Belli Dannati.

 

Chi è che raccoglie il corpo di River alla fine del film?

 

Gus torna ad essere Spunky: è nervoso, sapeva che quel quesito si sarebbe presentato prima o poi. Felix sta riposando nei lidi di Pink, che si estendono nella fantasia e nella mente del suo autore.

 

Gus Van Sant (1)

 

La risposta è ambigua – come la scena – chiama lo spettatore a decidere l’esito dello sfortunato Mike Waters, però il pubblico vuole una risposta che venga dall’alto, dal regista; Belli e Dannati come tutte le epopee americane richiedono un narratore, non sono forse così le grandi storie?

 

«Nella mia versione?» domanda prendendo tempo prima di rompere gli argini definitivamente.

 

È lui che raccoglie Felix e gli dà nuova vita in quella lettura pubblica del libro.

 

D’altra parte Gus ha iniziato il suo percorso artistico al college con la pittura: è bravo a tratteggiare il mondo che lo circonda e le persone che rendono l’esistenza straordinaria, togliendo dalle loro spalle il pesante fardello di divismo per ridare loro una dignità.

 

Caratteristica che lo accompagnerà – insieme alla sua intelligenza emotiva – fino a Paranoid Park, anticipato da lavori pregevoli come Da morire (1995) dove ritroviamo sempre un membro della famiglia Phoenix, Joaquin, e la trilogia della morte (Gerry, Elephant, The Last Days). Nel 2008 arriverà la seconda candidatura all’oscar per Milk e poi, per gli aficionados, il declino artistico già subodorato dallo stesso regista all’epoca della stesura di Pink.

 

Quei figli di un periodo storico, il rinascimento vissuto a cavallo tra gli anni 80 e 90, l’elevazione del perdente, del vagabondo, a ruolo di vero eroe americano, sembrano essersi dispersi o crollati sotto l’indeterminatezza della vita: erano i ragazzi terribili immaginati da Cocteau, la cui droga era una perenne giovinezza etichettata dalla società come un’epidemia da debellare o al massimo arginare evitando la contaminazione di massa. Gus Van Sant era rimasto solo, ormai impossibilitato a essere un buon osservatore di un presente incurante delle vittime da ricordare.

 

Le domande continuano a susseguirsi in quel giorno del 1997 e I can hear the heart beating as one dei Yo la tengo sembra proprio parlare di lui. Deeper into movies narra di un altro mondo, di segnali mandati al cielo in attesa di una risposta che sembra perdersi nel riverbero di stelle già morte da tempo.

 

Quell’epoca del mondo è finita e non rimane altra scelta che celebrare i morti mentre seppelliamo i vivi.