Siamo stati a Garbagnate Milanese, in una delle cinque comunità di Dianova, per scoprire cosa si cela sotto la tossicodipendenza.

Dopo lo scorso articolo, in cui ci siamo fatti raccontare l’esperienza di un ex cocainomane, continua il viaggio del Cartello nel mondo della riabilitazione dalla tossicodipendenza. Questa volta siamo stati a Garbagnate Milanese, in una delle cinque comunità di Dianova, associazione senza scopo di lucro che si occupa di persone con problemi di droga e di alcool dal 1984.

 

Non chiamateli pazienti. Le comunità non sono ospedali. Utenti: questo è il termine tecnico. Ma dall’equipe di Garbagnate vengono chiamati soprattutto persone. “Le persone che cerchiamo di aiutare”. Un uso corretto dei termini è importante perché favorisce l’empatia nel rapporto tra personale della comunità e individui tossicodipendenti. Tra utenti, direttore, psichiatri, educatori, operatori,e gli altri membri del centro infatti ci si dà sempre del tu. Ciò che si cerca di instaurare tra un tossicodipendente e il suo operatore è una sorta di alleanza terapeutica, basata sulla fiducia reciproca.

 

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Tra il tossicodipendente e il suo operatore deve esserci una sorta di alleanza terapeutica, basata sulla fiducia reciproca

 

Costruire un rapporto di questo genere è fondamentale per il percorso di riabilitazione ma è anche molto complesso. “Un utente, quando entra in comunità, tende alla diffidenza verso chiunque. Eppure difficile, in un programma di riabilitazione, non è il momento iniziale in cui l’utente, appena uscito da una situazione d’ emergenza, è motivato a cambiare. Difficile è lavorare su questo obbiettivo a lungo termine”, mi spiegano Ombretta Garavaglia, responsabile della comunicazione e Letizia Vedana, direttrice del centro, dopo avermi accolto all’ingresso. Saranno loro le mie guide in questa giornata.

 

Anatomia

Mentre camminiamo all’interno dell’edificio dedicato alle attività per gli utenti, tre di loro, due uomini e una donna, seduti, la testa china sul tavolo, assemblano dei piccoli attrezzi elettrici indecifrabili. Gli oggetti sono stati spediti precedentemente da un’azienda a cui la comunità presta servizio di assemblaggio. I fondi raccolti da questo impiego, verranno destinati agli utenti che non hanno disponibilità economica. Perché proprio l’assemblaggio? Aiuta a gestire la noia degli utenti e la frustrazione di rimanere fermi, seduti. Proseguiamo. Alla mia destra: una palestra, così piccola e stretta che i pesi, gli attrezzi e la panca sembrano ammassati. Le persone fisicamente in grado di allenarsi in realtà sono molto poche. Di solito sono i detenuti provenienti dalle carceri circostanti, da cui hanno ereditato il culto della prestanza fisica.

 

Passata la palestra: una minuscola ciclofficina. Le biciclette, mezzo a disposizione degli utenti per spostarsi in autonomia. Oltre all’uso interno la comunità offre collaborazioni con altre associazioni. Per la stazione dei treni di Garbagnate garantisce un deposito sicuro per le biciclette dei passeggeri, visti i continui furti avvenuti in stazione. Per i percorsi ciclistici organizzati dal parco delle Groane, a nord di Milano, l’officina diventa itinerante, fornendo assistenza a chi ne ha bisogno lungo il tragitto del parco.  Aggiustare biciclette è una tradizione iniziata anni prima da un operatore con diverse competenze nel settore, tramandate poi ad alcuni utenti. Da loro è iniziato il passaggio di nozioni di periodo in periodo.

 

All’esterno, procediamo attraverso la cosiddetta Zona di Break. In questo luogo, per due diversi momenti della giornata, gli utenti e operatori si riuniscono. Una pausa dal lavoro, la scusa di un thè in compagnia, seduti, rilassati, all’aperto. In realtà questo ritrovo ha lo scopo di approfondire i rapporti e magari creare qualche legame. A pochi metri: l’orto, con la sua cura, avvolto dalla luce e dal silenzio, luogo remoto, con la sua sacra indifferenza verso tutto ciò che non siano le sue piante, il suo portico, la sua passatoia.

 

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L’orto, con la sua cura, avvolto dalla luce e dal silenzio, luogo remoto

 

Ecco come si regola la vita nella comunità: le mansioni domestiche vengono gestite tramite una divisione in turni. Impieghi quali il giardinaggio, l’assemblaggio, le riparazioni, spesso legati a progetti esterni,vengono chiamati laboratori e hanno un’organizzazione più mirata. Dal prato, nella zona circostante all’orto, si eleva una grande parete d’arrampicata. L’attività in questione è la montagnaterapia. Un’attività fisica solo in apparenza. Scalare, puntare in alto, raggiungere la cima. Scalare stimola la fiducia in sé stessi. Scalare, non cedere di fronte alla paura. Lo sport è fondamentale per due motivi. Il primo: aiuta il fisico a riprendersi dopo gli abusi di sostanze. Impone costanza e disciplina. Il secondo: la rete. Dianova fa parte di una rete di contatti tra cui servizi pubblici, SerT e altre comunità, uniti nella creazione di eventi  dedicati alla montagna, con escursioni  e scalate in mezzo alla natura.

 

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La montagnaterapia

 

Ultima meta del tour: raggiungiamo un altro edificio, la Zona Residenziale. Al piano di sopra, le stanze degli utenti. Al piano terra, la cucina e una stanza con televisore, una buona collezione di dvd, la sala riunioni e, all’esterno, un portico e una piazzetta di forma ottagonale.  Quando chiedo quanto possa durare in media il programma di riabilitazione, mi viene risposto che è soggettivo. Per un tossicodipendente in comunità il fattore tempo è importantissimo perché ha l’ansia del risultato: vuole tutto e subito ed è spaventato dal percorso che gli si prospetta di fronte. Mantenimento, costanza. Due concetti ad anni luce di distanza da un tossico. Dopo i primi mesi, una volta recuperata la forma fisica, la maggior parte di loro crede di essere al termine del programma. Costruire il percorso in base agli obbiettivi e non alla durata. Questa una delle sfide più grosse.

 

Cambiamento

Potrebbe sembrare un paradosso, ma non lo è. La droga non è poi così importante. Raramente si parla di droga in comunità. Le sostanze in sé rappresentano solo la minima parte di una serie di problematiche più profonde presenti nell’individuo. Qui si affrontano le dipendenze. Eliminare la dipendenza fisica da una sostanza non è poi così difficile. Il vero ostacolo sono le anomalie che accomunano i soggetti dipendenti. La loro fatica a porsi dei limiti è un esempio.  Determinante è anche come vivono le relazioni: per la maggior parte dei casi, sono persone sole, incapaci di costruire delle relazioni stabili. Hanno provato un forte senso di abbandono causato da una difficile separazione.

 

Riguardo alla solitudine, mi viene spiegato quanto sia difficile per gli utenti oggi fare gruppo all’interno delle comunità. Dagli anni ’70 a oggi la concezione della droga nella società è cambiata radicalmente. Prima, la droga univa perché era trasgressione e bisogno politico di cambiare il mondo. Un’esperienza di condivisione. Lotta al sistema. Ribellione. Oggi chi si droga lo fa per alleviare sofferenze personali. Carenze emotive. Isolamento. Nelle scuole, tra i giovani, non si accosta più l’utilizzo degli stupefacenti al termine trasgressione. È obsoleto. Oltre all’uso di sostanze è cambiato il concetto stesso di comunità.  Nei primi centri di riabilitazione i tossicodipendenti erano trattati come dei malati. Niente di più. Erano luoghi distanti dalla società. E una volta guariti dalla loro “malattia”, gli utenti erano abbandonati a loro stessi durante il loro ritorno alla vita di tutti i giorni. Non gli venivano forniti gli strumenti emotivi e psicologici necessari per combattere le ricadute. Oggi il 90% delle comunità non cerca di isolare l’utente, ma di accompagnarlo in un percorso che si sviluppi per il resto della sua vita.

 

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Nei primi centri di riabilitazione i tossicodipendenti erano trattati come dei malati

 

Il guardiano della sua giovinezza

Di lui si ricorda il suo nome. Si chiama Franco, era suo compagno di cella al carcere di SanVittore e aveva già scontato vent’anni, ma gliene mancavano altri dieci. Per molti delinquenti il carcere è un’iniziazione alla criminalità. Per Will fu l’inizio della redenzione. “Sei ancora giovane. Questo tipo di vita porta rispetto dalla strada, ma nient’altro. Sei ancora in tempo per cambiare e pensare alla tua famiglia”, gli suggerì Franco. Se Will, 28 anni, di origine salvadoregna sta scontando gli ultimi due anni della sua pena in comunità lo deve soprattutto alle parole del suo ex compagno di cella. La cocaina, le pastiglie, l’MDMA colmavano un grosso vuoto affettivo proveniente dell’infanzia. Di questo Will ne è consapevole.

 

È lui stesso a dirmi che i suoi problemi legati alla dipendenza, in realtà, hanno origine quando a soli due mesi, sua madre fu costretta a trasferirsi, abbandonandolo ai suoi parenti (una separazione).  La povertà lo faceva sentire invidioso. Allora pur di levarsi qualche sfizio cominciò a commettere qualche piccolo reato (tutto e subito). In adolescenza conobbe le droghe. Poi ha cominciato con le rapine, lo spaccio. Infine il carcere e la sensazione di sentirsi piccolo, come un topo in gabbia. Grazie alle droghe combatteva la sua timidezza. Grazie alle droghe si sentiva coraggioso. Grazie alle droghe provò adrenalina. Oggi si impegna a trovarla solo con stimoli sani come lo sport. Non ce l’ha con sua madre. È consapevole di non essere mai stato abbandonato veramente. Sa che quelle di sua madre, sono state decisioni prese sempre e solo per suo il bene. È nel programma da nove mesi.

 

La guerra del caffè

Il caffèè razionato per motivi strettamente terapeutici. Gli utenti ne possono bere solo tre al giorno. Ovviamente, porre un divieto a un tossicodipendente scatena la sua voglia di trasgressione. Risultato: è diventato una questione vitale. Farebbero di tutto per averlo. Episodi come nascondersi una moca in stanza, sono all’ordine del giorno. Per questo è custodito severamente ed è motivo continuo di discordia e capricci. È una questione psicologica tipica di chi ha un passato di dipendenza. Ma oltre al fascino della trasgressione, il caffè, essendo un eccitante, agisce da sostitutivo. Anche se in minima parte. Non facendo più uso di sostanze, agli utenti, per adesso, resta questo vizio. Chi vincerà la guerra?

 

Il piacere della bottiglia

Concetta crede nella famiglia. Nella sua, che gli è sempre stata accanto e nel sogno di averne una nuova, in futuro. Un passato di cocaina, hashish ma soprattutto alcool. In comunità è la responsabile della lavanderia. Beveva di continuo, fumava circa dodici canne al giorno,ma quando usciva con le amiche per l’aperitivo fingeva di essere sotto antibiotico, pur di non bere davanti ai loro occhi: sapeva che, dopo un bicchiere, non sarebbe riuscita a controllarsi. La sua dipendenza è iniziata vent’anni prima, dopo la morte del nonno, a cui era molto affezionata (una separazione). Non è la sua prima esperienza all’interno di un centro di riabilitazione.

 

Quella volta, dopo soli quattro mesi, era convinta di essere pronta per tornare alla vita di tutti i giorni (tutto e subito). Eppure, pronta non lo era ancora: dopo solo ventisei giorni, la ricaduta. Un bicchiere di vino, ingurgitato avidamente di nascosto, durante il matrimonio di suo fratello. Le chiedo il motivo della ricaduta. Mi da una risposta scontata ma sconvolgente: nessun motivo. Le era solo venuta voglia di bere. Non deve per forza succedere qualcosa di brutto. La bottiglia non è solo un rifugio dai problemi. È un piacere. Difficile per lei pensare che da qui al resto della sua vita non potrà più toccare un goccio. Allora per combattere il piacere della bottiglia si costringe a pensare a ciò che l’alcool le ha tolto. E pensa a ciò che può ancora fare: trovarsi un lavoro, approfondire gli studi sulla storia dell’arte e, soprattutto, diventare mamma. Non è ancora troppo tardi. E lei non intende arrendersi. È nel programma da sette mesi.

 

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La bottiglia non è solo un rifugio dai problemi. È un piacere

 

Equilibri

A un certo punto della sua vita, Bruno si è trasferito nella sua auto, abbandonata in un parcheggio a causa di un guasto al motore. Si era detto basta. L’auto era un perfetto nascondiglio dalla vita e dai suoi vizi. Soprattutto dalla cocaina. Pur di non avere soldi con sé, si faceva comprare il cibo da sua sorella. Proveniente da una famiglia di truffatori, figlio della strada, cresciuto nelle carceri minorili, sposo di una gitana, padre di una bambina ancora molto piccola. La cocaina, inizialmente era un divertimento. Ma dopo il divorzio dalla moglie (una separazione), la ricerca dello sballo è diventata quotidiana. Sniffava fino a quattro grammi al giorno, scivolando rapidamente in uno stato paranoico e ossessivo.

 

In una settimana non dormiva più di quindici ore. L’alcool era la sua unica ninna nanna.  Ha cercato di smettere da solo, più e più volte (tutto e subito). Come molti ex detenuti,Bruno credeva che le comunità fossero un posto per deboli. Pensiero tipico della cultura carceraria, fondata sull’omertà. Finché ci dovette entrare a causa di un vincolo legale, per la custodia di sua figlia. Per il futuro è il suo primo grande obbiettivo: ristabilire i rapporti con la sua bambina. Nel programma terapeutico invece sta lavorando sulla gestione dell’impulsività e della violenza quando è sotto pressione. Inoltre si sta sforzando per riconoscere i propri bisogni affettivi e le proprie emozioni. È nel programma da nove mesi.

 

Pensieri

In una delle stanze della Zona Residenziale, un cartellone attaccato al muro, zeppo di frasi, residui di emozioni provate dagli utenti. Eccone alcune.

 

“Non sono mai stato bene come ora e questo lo devo alle persone che mi sono state vicino e mi hanno dato la forza di combattere giorno per giorno le difficoltà che per troppo tempo hanno soffocato il mio desiderio di libertà. Vi devo la vita”

 

“Sono entrato non si capiva cosa era ora si! Meglio non dirlo!!! Manca ancora strada per il traguardo ma penso che possa riuscire a trasformarmi in essere umano, grazie a tutti gli operatori e amici. Vi voglio bene. Ciao stronzi!”

 

C’è anche chi cita De André:

 

“Dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fiori”

 

Oppure, chi scrive per esultare:

 

“A me piace pensare che Dio scelga i suoi migliori soldati! Fine programma 8/10/2016”

 

Riflessioni

Ho passato un’intera giornata nella comunità di Garbagnate. Ho pranzato seduto al tavolo della mensa con gli utenti, sempre accompagnato dalle mie due guide. Mi è stato detto: torna quando vuoi. Mi sono rilassato al sole insieme ai membri del centro. Ho chiacchierato, ho scherzato e ho ascoltato molto. Mi sono chiesto quali sensazioni provocasse la mia presenza agli utenti. Poi mi sono chiesto se anche loro si ponessero questa domanda. Ho messo da parte i dubbi, gli imbarazzi. Loro hanno fatto lo stesso. Ho capito che la nostra società è principalmente malata di disinformazione.  

 

Il tossico è ancora troppe volte etichettato con il buco, la siringa o il volto deturpato. Quanti sanno che un tossico è quasi sempre soggetto a polidipendenze? E molto difficilmente il cocainomane rimarrà solo un cocainomane, ma cercherà con qualunque sostanza, legale o non, di colmare un vuoto sinistro e insaziabile? Quando smetteremo di identificare la parola dipendenza con l’immagine della droga? Quando assoceremo la dipendenza a un carattere o un comportamento? I dati parlano chiaro:solo a Dianova Italia, nel 2016, sono stati registrati 361 ingressi nelle sue comunità, di cui la principale problematica sanitaria era l’Epatite C (115 utenti). Sempre nel 2016, la prima sostanza utilizzata era la cocaina (124 utenti). La seconda l’eroina (114). La terza, l’alcool (99). Ho lasciato la comunità nel tardo pomeriggio, mentre gli utenti partecipavano a una delle riunioni del centro. Non ho fatto in tempo a salutarli. Uscendo, intorno a me, c’era solo silenzio.

 

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