L’artista, è opera prima delle sue opere, e diventa simbolo immortale solo grazie alla morte.

Genio è colui che sa vedere l’assoluto nel particolare, sa andare oltre i fenomeni e trascende la soggettività nello sguardo oggettivo. Il genio avanza di conoscenza intuitiva, scollegata alla sua volontà; il suo cervello non appartiene a lui ma al Mondo. Il genio è come se avesse una posizione diversa dell’orizzonte, riesce a scorgere i fenomeni da una postazione più alta. Postazione da cui perde il suo soggettivo punto di vista, in cui le cose appaiono collegate e rischiarate dalla luce oggettiva del giorno e non dal lume personale.

 

Il genio ha un’energia intellettuale superiore applicata a ciò che vi è di generale nell’essere. La concezione intuitiva, spiega Schopenhauer, è l’atto generativo di ogni autentica opera d’arte o pensiero immortale. La fantasia ne è un suo strumento indispensabile per trascendere il reale nel possibile. Non esistono cicli inferenziali, vedere sempre il generale nel particolare, ecco il tratto distintivo del genio rispetto all’uomo comune. Egli coglie l’essenza delle cose, andando contro la natura che invece congiunge intelletto e volontà. Quella separazione porta il genio a somigliare alla follia. Il genio non è mai un moderato o un flemmatico, ma è sempre un eccessivo, frutto di un’esaltazione anormale della sua vita nervosa e cerebrale.
L’utilità del genio è sempre inversamente proporzionale alla vicinanza con il suo periodo biologico di vita, perciò più ci si allontana dalla sua nascita più si riscontrerà la sua mancanza da un lato, e la sua rilevanza dall’altro, quando verrà compresa. Un’opera geniale non è mai utile, è il suo rango di nobiltà, come la fioritura, che parla al tempo. Gli alberi più belli e maestosi sono infecondi, le piante da frutto hanno invece tronchi piccoli e rinsecchiti, dice Schopenhauer. Di conseguenza il genio, non servendo al suo tempo ed eccedendo dalla norma, è destinato a essere incompreso. Le persone comuni possono apprezzare il talento o il tipo brillante, difficilmente il genio, che vive in perenne discordanza col mondo e col proprio tempo.

 

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La concezione intuitiva, spiega Schopenhauer, è l’atto generativo di ogni autentica opera d’arte o pensiero immortale

 

Il genio è solitario, è troppo raro per poter incontrare dei suoi simili e troppo diverso dagli altri per poter stare in compagnia e sfruttare l’automatismo dei luoghi comuni per pensare e condividere. Perciò si apparta, è a disagio. Anche se il genio riflette la sua immagine nel mare della misantropia, non vale l’inverso, che la misantropia sia il segno certo di una superiorità.
Il genio è malinconico, anche se trae delizia abbandonandosi alla propria ispirazione.  Aristotele, Cicerone, Goethe e Schopenhauer cantano in coro canoni sfalsati nel tempo di come, per l’uomo, più è viva la luce che illumina l’intelletto, più è alta la probabilità di percepire la miseria della sua condizione. Dunque il genio non può che essere pessimista.
Infine il genio è un bambino, come lui ha uno sguardo puro e disinteressato sul mondo. Anzi, come mostrano Mozart e Goethe o Salvador Dalì e Fellini, ogni bambino è in un certo senso un genio e ogni genio è in un certo senso un bambino.
Il genio, insomma, è un bambino malinconico che trascura sé e si cura del mondo. Il suo soffitto è il cielo, la sua vista è la visione del mondo.
Il genio è un puer eternus che non fa amicizia con il suo tempo, si autoesilia dal mondo perché quel mondo gli sta stretto; vede la morte oltre le siepi di Recanati e si lancia oltre le porte della percezione, rimanendo illeso, lasciando il corpo, ma rimendo uomo.

 

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Come dimostra anche Fellini, il genio è bambino

 

Ci sono tre geni che ho voluto prendere in considerazione per riportare la mutevolezza della loro esistenza; di come ogni genio abbia delle capacità che sente distaccarlo dagli altri, ma allo stesso tempo è succube dei gesti degli altri.

 

La figura carismatica di un artista, per paradosso, può, a volte, rivelarsi così ingombrante da oscurare persino i propri artefatti. Personalità istrioniche dal vissuto tanto eccentrico che sono oggetto di ammirazione già soltanto per l’esistenza estrema che hanno condotto. Spesso la genialità in un poeta è congruente con scelte di vita vissuta negli eccessi e nonostante questa tesi possa essere confutata con molti esempi di artisti eccellenti ma dal vissuto semplice, lo stereotipo del genio-ribelle continua ad imprimere una profonda carica attrattiva. Il mondo è stato stregato da individualità come quelle di Baudelaire o Michelangelo partendo dalle opere, ma in alcune circostanze il processo è stato inverso. È certamente il caso del giovane attore River Phoenix, un validissimo interprete la cui esistenza è stata però così fulminea e misteriosa, che si è tramutata in un’opera d’arte, nella metafora di un’era.

 

Perciò l’artista, è opera prima delle sue opere, fa della sua vita un’eccezione così particolare che si discosta dall’apprezzamento dell’epoca in cui è inserita, e diventa simbolo immortale solo grazie alla morte, eccesso oltre il quale non può andare. La morte come passaggio per un mondo celestiale, si trasforma in un istante che eleva la posizione dell’uomo pur rimanendo nel mondo stesso, incatenando la sua presenza nella mente della gente. Come alcuni decessi nel regno animale sono portati a termine in modo crudo e volontario per puro fine riproduttivo e egoismo genetico, la morte del genio è un evento involontario (a volte anche volontario) specie specifico d’eccezione che fa coincidere la fine con l’elevazione dell’uomo a mito. La morte di River Phoenix, come di molti altri artisti, è soggetta a continue speculazioni, e non esiste peggior processo se non quello della mercificazione dell’opera, o addirittura della persona. Ci sono molte ipotesi, ricostruzioni, ma in realtà quello che davvero dobbiamo sapere risiede nel sacrilego rispetto di una famiglia che perde un figlio e del mondo che non ha pietà per il genio.

 

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La morte di River Phoenix è soggetta a continue speculazioni

 

Jim Morrison è una delle principali menti musicali che si annoverano nelle liste dei geni scomparsi prematuramente e allo stesso tempo rientra nell’insieme di morti avvolte nel mistero. Un mistero che si alimenta nella suscettibilità delle persone, nel lascito suggestivo del proprio idolo e infine nella speranza di poter credere che la vita non sia così cinica e crudele.

In effetti la storia di Morrison fu turbolenta, compresa tra la grandezza del genio e la sua immancabile sregolatezza.

Le sue vicende sono incastrate in un particolare periodo storico, anche se il suo vero contesto, quello che da cui è stato davvero influenzato, è quello dei The Doors, band che aveva contenuto tutte le contraddizioni, i paradossi, il fascino ambiguo della nuova cultura hippy. Le loro composizioni musicali si evolvevano più velocemente del loro successo, e si stavano dilatando verso i confini più arcani, verso sabba sonori in cui Jim e il suo inconscio cavalcavano le menti della gente, improvvisando frammenti poetici ispirati e visionari. Furono proprio questi momenti di peripatedica improvvisazione che affermarono Jim come sciamano del rock.

 

Un vero e proprio tipo strano, complicato, colto, sexy e selvaggio. Il demone dalla pelle nera, il Re Lucertola, bello ed eccessivo come Dioniso, acuto come un Nietzsche in pantaloni di vinile e capelli lunghi, ma anche manesco e riottoso come un cazzuto beone irlandese. La sua capacità di incatenare la propria immaginazione all’interno delle sue canzoni e di comunicarla agli altri come se divulgasse con se stesso perpetrò un alone di sacralità messianiaca intorno alla sua figura. Poco alla volta però Jim, tentando di sfruttare il successo della sua band per affermarsi come poeta, sprofondò nell’alcolismo più triste trascorrendo un’esistenza sempre più dissoluta e autodistruttiva. Nell’intento di seguire il suo sogno, Jim Morrison, si spostò a Parigi insieme alla sua consorte, Pamela Courson.

Qui vi rimase fino per qualche tempo, circondato da un relativo anonimato, finché il 3 luglio 1971 il suo corpo venne ritrovato privo di vita nella vasca da bagno del suo appartamento.

 

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Jim Morrison è una delle principali menti musicali che si annoverano nelle liste dei geni scomparsi

 

Anche se secondo il rapporto ufficiale la morte sembrava dovuta ad un attacco cardiaco, nessuna analisi autoptica venne mai effettuata e veramente in pochi ebbero modo di vedere il suo cadavere. Aveva 27 anni. La versione dell’arresto cardiaco provocato da cause naturali fu poco convincente e la mancata autopsia unita alle labili testimonianze della moglie hanno creato un clima di mistero attorno alla morte. L’atmosfera indiscreta e i ritardi sui referti medici viziavano la stampa, che, operativa su più fronti, asseriva che la morte potesse essere addirittura stata inscenata dallo stesso Jim così da liberarsi da quella fama maledetta in cui stava troppo stretto. La verità rimarrà nascosta, eppure morto o vivo che sia, ogni anno Jim Morrison muove milioni di dollari e la sua storia da poeta maledetto conquista l’animo di giovani fan che continuano a venerarlo come un mito.

 

Adesso cambiamo direzione, senza tanto spostarci nel tempo: immaginatevi una bambina, cresciuta in un clima di periferia del Texas, in cui bullismo, ostracismo e misoginia sono le quotidiane abitudini di una società mutevole che riversa deplorevolmente le sue conseguenze direttamente sulle nuove generazioni. Immaginate una donna, parte di questa umanità indifesa, oggetto di vessazioni per il suo aspetto, frustrata per il giudizio di un contesto di cui non si sente parte ma che rischia d’insinuarsi e sostituirsi con veemenza al proprio Io Critico. Immaginate questa fanciulla mentre scopre di avere un talento particolare, una voce incredibile. Immaginate che dopo qualche falsa partenza, Janis, valutata come goffa, sgraziata, sempre fuori luogo, inizi a crescere, determinata a farsi una vita propria. E assetata di riscatto, scappi di casa a vent’anni, armata d’incoscienza e brama di poter disconfermare le verità sul suo conto, e si ritrovi a essere una star, anzi un simbolo. È così, infatti, che Janis Joplin diventa Il volto di una generazione, una generazione che la ama proprio per come si muove sul palco, si agita, urla, suda. Viene lodata per l’imperfezione del suo corpo, per la libertà con cui canta del sesso.

 

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Immaginate questa fanciulla mentre scopre di avere un talento particolare, una voce incredibile

 

Ma la fama improvvisa, desiderata con sacrificio, ottenuta per qualità artistiche intrinseche oppure per una coincidenza di fattori, non è alleata coi fantasmi della coscienza. La fama è l’amplificazione della realtà, una realtà che ha il sapore e l’emozione della novità, una realtà che ha il potere di inondare gli spazi e di insinuarsi nella mente della gente. Con la fama, la tua unicità incrementa proporzionalmente a quanto svanisce il tuo anonimato, e i tuoi gesti, che prima avevano ripercussioni limitate su un microcontesto, adesso acquisiscono una risonanza globale e temporalmente indefinita. La tua immagine non è più legata solo a te stesso, adesso sei una unità che ha ripercussione su migliaia di altre unità, perciò la vita subisce un cambiamento che rischia, per molti versi, di concernere nella dicotomia etica del “tutto o niente”.

 

E questa era la filosofia di Janis Joplin: “Se tutti la amavano, andava bene, ma bastava che una sola persona non la amasse per distruggerla completamente”. Pur avendo ribaltato la percezione che la sua immagine aveva sugli altri, senza alterare nulla della sua figura, non era riuscita ad accettare il suo aspetto fisico, motore del suo successo e promotore, allo stesso tempo, della sofferenza che l’aveva resa così suscettibile al giudizio degli altri su di sé. Janis, per nulla cosciente, decide di affrontare la sua debolezza alla radice, tornando nella piccola città dove è cresciuta, per partecipare a una riunione tra i compagni di liceo, dieci anni dopo la maturità.

 

Janis arriva in città con un piccolo entourage, ma è molto sola, perché i pochi ragazzini con cui aveva stretto amicizia durante il liceo tutto desiderano salvo ritrovarsi faccia a faccia con i bulli e le cheerleader di un tempo. Lei è l’unica della sua classe a essere diventata famosa – o, se è per quello, ad aver lasciato il Texas – ma è anche l’unica a non aver fatto nessuna forma di pace con il passato. Cammina per le stradine del paese con un’andatura incerta, gli occhiali con le lenti porpora calati sul naso e le piume colorate tra i capelli. Sembra recitare la parte della ragazzaccia ribelle, cosa di cui, a volte, la accusano anche i musicisti che la accompagnano. Eppure non ci sarebbe bisogno di recitare nessuna parte: nello stesso mese, agosto 1970, Rolling Stone le dedica l’ennesima copertina; lei sta scrivendo nuove canzoni, e ha persino smesso di drogarsi – sul serio, questa volta. Non potrebbe andarle meglio, no? Allora perché decide di mettersi alla prova in questo modo, perché cerca di piacere a tutti?

 

Lei resta in città qualche giorno, in uno sfascio via via più evidente, tenuta a distanza da chiunque non voglia scucirle un’intervista. Poi se ne va, giurando che lei, lì, non ci rimetterà piede. Due mesi più tardi, dopo un weekend trascorso aspettando una visita di amici che non arrivano mai, Janis Joplin muore per un’overdose di eroina.

 

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