Tre mesi chiuso in macchina per disintossicarsi dalla cocaina.

“Pezzo di merda. Dici di essere un uomo e hai lasciato tua figlia per questa roba”.

Per Dario, il senso di colpa era incessante. Un ritornello odioso, un chiodo vecchio e deviato. Gli si ficcava in testa di notte, quando era solo, perseguitato dall’insonnia. La sua routine: quattro grammi di cocaina al giorno, accompagnati dall’abuso di alcol, per non più di venti ore di sonno alla settimana. La sua occupazione principale: truffe e altri piccoli reati. Sempre in movimento tra Milano, Firenze, Foggia, Bari, Trento, Amsterdam e Parigi alla ricerca di Compro oro a cui rifilare i suoi falsi. Trovare la cocaina era facile perché di soldi ne aveva una montagna. Aveva escogitato un sistema efficace per fregare i Compro oro italiani ed europei:

“Lavoravo un materiale simile all’acciaio chirurgico e ci facevo delle catenine. Incassavo circa mille euro a vendita. In una giornata riuscivo a chiudere anche tre o quattro vendite”.

Dario si è costituito e, da quasi un anno, ha cominciato un percorso di riabilitazione. Lo incontro alla comunità Dianova di Garbagnate Milanese. Una distesa di nuvole grigiastre ricopre il cielo come un tessuto cinereo, forato dai raggi sottili e bianchi del sole. Sono le tre di un pomeriggio scuro. Il freddo autunnale si fonde al silenzio dell’ingresso. C’è pace, qui fuori. Ma il freddo e questo cielo suggeriscono un sentimento dolente.
Entriamo in una stanza minuscola con le pareti di un blu spento. Dario ha quarantacinque anni, è basso di statura, i suoi occhi sono scuri, densi, piccoli, come due punti. Ha sempre pronto un sorriso timido e gentile. Parla poco, con voce pacata. “Si è messo in ghingheri per l’intervista”, scherza la direttrice del centro, prima di lasciarci soli. Dario indossa una camicia scura. I capelli folti, castani e inzuppati di gel, sono pettinati all’indietro. Ci sediamo uno di fronte all’altro come due giocatori di scacchi. Su un tavolo in legno sistemo la mia handycam. Lo tranquillizzo: non devo fare riprese. Questa videocamera è il mio registratore. Schiaccio rec senza levare il tappo coprilente dall’obiettivo.

 

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“Giocatori di scacchi” di Ludovico Caracci. 1590 circa.

 

Cominciamo.

Mi accorgo subito della sua capacità di stare a galla nel silenzio. Dario sa aspettare una domanda e sa aspettare prima di rispondere. È abile a mascherare l’imbarazzo iniziale tra intervistatore e intervistato. Va bene i reati, lo sballo, la paranoia. La storia di Dario può sembrare simile alle disavventure di qualunque altro tossicodipendente. Figlio di un falsario professionista, ha cominciato a 15 anni con i furti d’auto. Ha conosciuto il riformatorio. Ha conosciuto la strada e la bella vita. Ma la particolarità della sua storia arriva tardi, quando la sua dipendenza da cocaina lo ha portato oltre.
Nel giugno del 2016  crede di aver toccato il fondo:

“Non ce la facevo più, camminavo sempre da una città all’altra. Ero una macchinetta. La coca mi aveva cambiato. Ero incazzato e depresso. Volevo darci un taglio”.  

Gli chiedo se c’è stato un evento preciso ad averlo convinto a smettere. Capisco che devo lasciar perdere le semplificazioni, anche se possono fare comodo. L’evento che scatena l’idea di una redenzione nel protagonista. Tutte cazzate. La verità è che, uno come lui, ha sete di redenzione ogni giorno. Da sempre. Anche ora. E sarà sempre così. L’intera storia di Dario era l’evento scatenante che cercavo. Dario era semplicemente stanco della confusione di quell’evento. In Dario vivono tante figure. Il tossico, il truffatore, il detenuto, il padre di famiglia, il girovago e l’uomo per bene che si pettina per un’intervista. Quando mi parla di rabbia, di quanto fosse depresso, la sua faccia si perde in un’espressione abbattuta. Quelle manifestazioni del volto tipiche di quando sbuffiamo o arriviamo alla fine di una giornata difficile. Provo a chiedergli qualcos’altro sul rapporto con sua figlia. Risponde divagando, abbassando il tono della voce. Non capisco se voglia davvero affrontare il discorso. Alla fine mi dà una risposta stiracchiata. Mi spiega che quando la cocaina diventa protagonista della tua vita, non c’è posto per gli affetti. Non aggiunge altro. Dario ha il ferreo autocontrollo di una persona riservata. Per tutto il tempo della nostra chiacchierata rimane composto. Tra una mia domanda e una sua risposta si crea un vuoto in cui si sforza a mettere in fila poche parole necessarie. Dario cerca l’esattezza in mezzo a un caos misterioso e, a volte, in mezzo all’imbarazzo e al senso di colpa.
Nell’estate 2016 si stabilisce a Milano. Vuole entrare in comunità perché da solo non riesce a smettere. Comincia a frequentare il SerT di Piazzale Accursio. Ma è ancora troppo presto per la riabilitazione. Ci vuole tempo. Deve dimostrare all’assistenza sociale e allo psicologo di essere pronto e a cambiare.

“Non pensare che oggi vuoi smettere di farti e domani sei in comunità. Non basta ammettere di aver bisogno di aiuto”.

 

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Aver bisogno di aiuto.

 

Dario rischia di dover aspettare troppo tempo prima che un centro risponda alla sua richiesta. Si conosce, sa quanto sia facile perdersi via. Ha bisogno di rimanere sui suoi passi. Rigare dritto fino al momento giusto. Ha bisogno di stare solo con la certezza di smettere, lontano dai soldi, lontano dalle conoscenze del giro. Le circostanze non sono favorevoli. Come fare?

Cinque anni prima aveva abbandonato la sua vecchia Punto rossa in Viale Umbria per un guasto al motore. Se deve rigare dritto allora gli serve un nascondiglio. La Punto diventerà la sua casa per i prossimi mesi. La sua decisione, presa nel peggior momento della sua vita, può sembrare l’ennesima stramberia di un tossico sul fondo della dipendenza. Ciò che mi stupisce del racconto di Dario, invece, è la lucidità con cui ha organizzato la vita nel nuovo alloggio. Ci può essere così tanta lucidità al grado zero della disperazione?

 

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Macchina abbandonata.

 

In Viale Umbria ci sono diverse macchine abbandonate. Dario abbassa i sedili della sua Punto, li avvolge con un paio di coperte. Ed ecco il letto. Avvisa sua sorella e le affida i suoi soldi. Senza soldi è costretto a resistere all’astinenza. Sua sorella ha un compito: ogni tre giorni gli porta il cibo per sopravvivere. Si tiene lontano da zone come Rogoredo, Porta Venezia, Corso Como, Stazione Centrale. Di mattina frequenta un supermarket di Piazzale Lodi dove può lavarsi di nascosto nel bagno.

“Ho pensato: rimarrò qui finché non tornerò me stesso. Ovviamente, durante la permanenza in macchina ho avuto delle piccole ricadute. Ma non era più come prima”.

Passa qualche giorno e finalmente torna il sonno. Di giorno passeggia. Si rilassa al parco del Castello Sforzesco o a Parco Sempione.

La permanenza in macchina dura tre mesi. Poi, finalmente, si libera un posto in comunità, a Garbagnate.

Dianova è il suo primo centro di disintossicazione. La riabilitazione, dice, è una palestra del carattere. Oggi, il suo obbiettivo, è riallacciare i rapporti con sua figlia e trovarsi un lavoro onesto. Che tipo di padre è? Ha una foto della sua bambina nel portafogli o il suo contegno soprannaturale supera i facili sentimentalismi? Quando finiamo mi dice che spera di avere una vita tranquilla. Si corregge subito. Non serve sperare. Sarà così e basta. A volte, per le cose più semplici, serve un grande senso del dovere. Dario avrà la sua vita tranquilla. Ha l’aria di essere una promessa.

 

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