Un percorso tra biochimica e psicologia personale.

Una volta un amico, durante uno smorfinante pomeriggio d’estate, emergendo dall’afosa immobilità, proferì questa frase: “…ma questo continuo bisogno di droghe?” Questo interrogativo, balenato in un momento in cui la percezione effettivamente navigava in un’inquietudine che apparentemente solo una qualche droga sembrava in grado di appagare, è agevolmente rigirabile in una questione speculare: perché ci droghiamo?

 

Prima di tutto voglio distinguere due fondamentali atteggiamenti dell’uomo verso la sostanza: tossicofilia e tossicodipendenza. La tossicofilia descrive quel rapporto con la droga ascrivibile alla sfera del desiderio, del piacere; la tossicodipendenza alla totale ed incondizionata necessità. È scontato come queste due situazioni possano essere in molti casi considerate due fasi, con confini ben poco definiti. Esemplificative sono le dichiarazioni di un cocainomane: “Sono arrivato al punto in cui ho capito di poter funzionare meglio con lei (filia), poi è arrivato il momento in cui ho pensato di non poter funzionare senza (dipendenza)”. Insomma, la maggior parte delle sostanze è in grado, grazie ai potenti strumenti di persuasione e annichilimento del senso di realtà cui la chimica le ha dotate, di gettare il consumatore nel baratro della dipendenza senza che egli ne abbia la reale consapevolezza. La premessa è fondamentale per distinguere l’utenza della sostanza psicotropa: perché un tossicomane si droga? Perché senza la droga, sta malissimo. Perché ha sviluppato una dipendenza, che è tra le forze più trascinanti che si torcano nell’animo umano. E il tossicofilo?

 

Ogni sostanza si basa su una sensazione di appagamento, di piacere: con le dovute differenze, senza entrare nel merito della farmacodinamica di ognuna, i meccanismi mossi sono sempre gli stessi. Il consumo della sostanza provoca rilascio di dopamina tra mesencefalo e alcune aree frontali del cervello, mediando quell’effetto basilare che è da una parte appagata soddisfazione, e dall’altra ricerca della sostanza. Ricerca della sostanza dettata da un’azione molecolare, dalla dopamina che ci dice “Ehi è stato bello, che ne dici di procurartene ancora?”; fondamentalmente la prima risposta alla domanda che muove queste righe è di tipo biochimico. Ci droghiamo perché una volta scoperto un certo stato di appagamento, è il nostro cervello a suggerirci di farlo di nuovo… e si sa, il cervello è il boss di tutta la baracca. Questo meccanismo è detto ‘rinforzo’, e caratterizza tutte le sostanze d’abuso (mi permetto già a questo punto di distinguere da questa definizione gli allucinogeni, per motivi che verranno poi esposti). Ma è anche motore di tutte quelle attività ‘non tossiche’ che ci danno appagamento, anche per motivi biologici, di sopravvivenza: rilasciamo dopamina in contesti che riguardino il nutrirsi, la riproduzione… nonché quando ci dedichiamo a ciò che ci piace, che sia andare a correre o chiudersi davanti ad un videogioco online.

 

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Una scena del film Paura e delirio a Las Vegas

 

Ma questa spiegazione, per quanto giusta ed effettivamente alla base dell’appassionamento e della ricerca della sostanza, è nei fatti riduttiva. È corretta, ma non basta.

 

Perché se decidessimo che quella biochimica fosse la ragione univoca che motivi la ricerca della sostanza psicotropa, commetteremmo un delitto nei riguardi della complessità dell’essere umano. Non staremmo considerando i fattori ambientali, personali, sociali, biografici di ognuno: il ‘contesto’ di tutta la faccenda. Una prova che ritengo sempre molto forte la troviamo di nuovo guardando nell’ambito bio-medico: un paziente in trattamento post-operatorio in ospedale, trattato con generosi dosi di morfina, non uscirà dal ricovero in stato di tossicodipendenza. Eppure la sostanza gli è stata somministrata, la dopamina ha fatto il suo corso, il corpo si è abituato alla fedele presenza oppioide. Ma manca una rielaborazione personale della sostanza: il paziente non ha sviluppato un’affezione verso la morfina, potente oppioide, perché non l’ha contestualizzata nell’ottica ludico-ricreativa della sostanza psicotropa che effettivamente è. Non è andato oltre l’effetto analgesico, certo probabilmente si è goduto un po’ del sereno benessere donato dalla sostanza, ma nell’ambito medico in cui si trovava non ha avuto modo di tramutare tale benessere\mancanza di dolore in quello stato di placido piacere ricercato dal tossicofilo consumatore di oppioidi.

 

Questo semplice esempio pratico ci dà la misura di come gli effetti di una sostanza siano fortemente amplificati dal contesto culturale e personale, da cui non possiamo prescindere. D’altronde, anche questi fattori non fanno altro che generare (come ogni evento che anche minimamente ci sfiori) nel nostro sistema nervoso un certo rilascio di neurotrasmettitori, un complesso concerto biochimico atto a definire gli effetti della sostanza che stiamo assumendo.

 

Il consumatore di marijuana scopre gli effetti del fumo di cannabis solitamente insieme ai propri amici, godendo fortemente di questo contesto sociale estremamente positivo: il meccanismo del rinforzo trae enorme vantaggio da questi elementi, taggando l’assunzione di marijuana con tutti i tratti tipici di queste situazioni. Gli effetti di spensieratezza e benessere quindi non saranno dati unicamente dalla sostanza, dall’azione che le molecole di cannabinoidi mediano sui recettori deputati ad accoglierli, ma anche e soprattutto dal ‘setting’: è questo un concetto introdotto da Timothy Leary (forse il più grande profeta della psichedelia insieme ad Albert Hoffman), che ha voluto con questo termine indicare la situazione in cui si svolge l’esperienza con la sostanza. A questo concetto affianca giustamente quello del ‘set’, ossia il retroscena personale dell’assuntore, la sua formazione, il suo stato emotivo e via dicendo.

 

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Timothy Leary, profeta della psichedelia

 

Perché, quindi, ci droghiamo? Perché la realtà in cui abbiamo vissuto, le persone con cui abbiamo vissuto, il background psichico che abbiamo scolpito nel marmo dei nostri tessuti cerebrali, hanno fatto sì che determinate sostanze risveglino altrettante sensazioni: e quello che prima definivamo unicamente come appagamento di derivazione chimica (sostanza-recettore), si anima di un ricchissimo sottobosco di ragioni umane, personali e sociali.

 

Ed è tra le ragioni personali, legate al ‘set’, che voglio spingere a questo punto la mia analisi. Voglio pensare a come la ricerca della sostanza psicotropa possa essere una fuga, un momentaneo scudo che il consumatore erge a difesa della propria serenità, minacciata dai rovesci di una realtà spesso difficile da tollerare. Ma senza cercare particolari e concretissime problematiche personali, che possono essere un lutto, un disagio psicologico dovuto ad un evento traumatico, la realtà può essere insidiosa per ragioni del tutto impalpabili, difficilmente configurabili in un male oggettivo: voglio rifarmi ad un passo di ‘Rumore bianco’ di DeLillo per provare a descrivere questa situazione.

 

-Che strano. Abbiamo aleggianti in noi questi terribili timori circa noi stessi e le persone che amiamo. Eppure andiamo in giro, parliamo con gli altri, mangiamo e beviamo. Riusciamo a funzionare. Tuttavia quei sentimenti sono profondi e autentici. Non dovrebbero paralizzarci? Come facciamo a sopravvivere, anche solo un attimo? Guidiamo l’auto, teniamo lezioni. Com’è che nessuno si è accorto di quanto profondamente spaventati fossimo, ieri sera, questa mattina? È una cosa che ci nascondiamo a vicenda, per mutuo accordo? Oppure condividiamo lo stesso segreto senza saperlo? Portiamo la stessa maschera.

 

-E se la morte non fosse altro che suono?

 

-Rumore elettrico.

 

-Lo si sente per sempre. Suono ovunque. Che cosa tremenda!

 

-Uniforme, bianco.

 

Questo ‘Rumore bianco’, che titola il libro del geniale DeLillo, sembra essere nello specifico la paura della morte, tema dominante del romanzo, ma possiamo allargarne la definizione a quel sentire di fronte cui siamo tragicamente impotenti, che talvolta ci attanaglia e ci fa vedere come con la luce di un lampo tutta l’angoscia della vita. E il consumatore di sostanze psicotrope cerca rifugio da questo assordante rumore bianco, cerca di intontirsi meglio che può, soprattutto con certe classi di droghe. In tutto ciò vedo una fondamentale necessità di ritorno all’infanzia, a quella gioiosa spensieratezza che rievochiamo pensando a come stavamo da bambini.

 

Perché ci droghiamo? Per tornare bambini, e non sentire il rumore bianco.

 

Un’altra ragione che mi spinge a non poter dare unicamente risposte legate alla biochimica, è la ricerca delle sostanze allucinogene: in questo caso, l’assuntore di LSD, psilocibina, peyote, mescalina e via dicendo, difficilmente va cercando il sereno benessere dopaminergico (o serotoninergico, tipico dell’MDMA) che sembrava essere l’iniziale risposta al nostro quesito. Al contrario, la sostanza allucinogena è generalmente in grado di risvegliare una serie di reazioni che hanno poco a che fare con la serena pace dei sensi o la sprezzante onnipotente sicurezza di sé tipiche delle altre sostanze psicotrope. L’assuntore si trova in un turbinio caleidoscopico di pensieri, di sensazioni, che lo metteranno anche a dura prova, o che comunque gli daranno un bel daffare, a livello di impegno mentale. In questo caso mi piace vedere la ricerca psichedelica come una sorta di ricerca conoscitiva, tipica effettivamente degli psiconauti.

 

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Gli psiconauti

 

 

Possiamo dipingere lo psiconauta come una sorta di tossicofilo, ma nel senso più elevato del termine: con la sua cerca, che ha un ché di omerico, si accinge a varcare i confini dell’umana coscienza, quasi rispondendo all’imperativo dell’Ulisse dantesco: “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”.

 

La ricerca dello psiconauta non è mossa da una sostanza volta ad annichilire i sensi, a calmare l’animo scosso dai venti di questo o quel turbamento emotivo esistenziale: anzi è il gettarsi bendati in questo mare in tempesta, per fare sì che la benda si dissolva in una pace superiore, che poi pace può anche non essere. È frutto della scoperta di un mondo nuovo, con le porte della percezione non aperte ma spalancate, oltre le quali si anima una realtà che nemmeno immaginavamo fossimo in grado di elaborare: aree cerebrali prima ben distanti e deputate all’ordinaria amministrazione si trovano di colpo a dialogare tra loro, generando impulsi nuovi e grandiosi. La mente in preda al tornado psichedelico si agita nel pensiero ciclico, per poi emergere in boccate di gloriosa e illuminata lucidità: ed è qui che lo psiconauta si ciba dei gustosi frutti della sua impresa, assaporando verità magari inaccessibili con i mezzi della quotidiana coscienza.

 

Perché ci droghiamo? Per avere dischiusi tra le dita mondi che mai potremmo conoscere senza farlo.

 

“Non esistono sostanze buone o cattive, ma soltanto droghe più sante o più empie” Thomas Szasz