Il romanzo La scimmia sulla schiena di William Burroughs è un trattato sulla dipendenza da oppioidi.

Il romanzo La scimmia sulla schiena, o Junkie nella versione originale, è l’opera di William Burroughs che più si allontana dallo stile visionario e spesso ostico che caratterizza gli altri lavori del patriarca della beat generation, in favore di un’impostazione ‘neorealista’ e una narrazione per lo più lineare. E questo schema piano è al servizio dei temi più radicali e fondanti della poetica di Burroughs, ovvero la droga e la tossicomania.

 

William Burroughs scrive Junkie nel 1953, negli anni che seguono un evento drammatico del suo già burrascoso vissuto: nel 1951 infatti aveva involontariamente sparato alla moglie, uccidendola, in una sorta di mal riuscita rievocazione delle gesta di Guglielmo Tell. Nel romanzo prende di petto la questione della tossicodipendenza, così caratterizzante della sua vita fino ad allora (e non solo), raccontando in maniera praticamente autobiografica gli episodi che l’hanno portato alla dipendenza da morfina, i piccoli crimini connessi alla dipendenza (come svaligiare gli ubriaconi che di notte si addormentavano sui tram), e soprattutto i tentativi di porre fine alla totalizzante quanto annichilente dipendenza da oppioidi.

 

“La droga è un’equazione cellulare che insegna al tossicomane verità di validità generale. Io ho imparato molto ricorrendo alla droga: ho veduto la vita misurata in pompette contagocce di morfina in soluzione. Ho provato quella straziante privazione che è il desiderio della droga e la gioia del sollievo quando le cellule assetate di droga la bevono dall’ago. Forse ogni piacere è sollievo. Ho appreso lo stoicismo cellulare che la droga insegna al tossicomane. […] La droga non è, come l’alcool o la marijuana, un mezzo per intensificare il godimento della vita. La droga non è euforia. È un modo di vivere.”

 

La morfina, che William Burroughs e gli altri tossicodipendenti si iniettavano quotidianamente, fa parte degli oppioidi: questa famiglia riunisce una serie di sostanze sintetizzate a partire dall’oppio, e tra di esse la più famigerata è oggi probabilmente l’eroina. Ma non dobbiamo fare l’errore di ritenere la morfina meno pericolosa, assuefacente, e subdola della ‘sorella maggiore’: infatti l’eroina altro non è che un composto ottenuto mediante l’acetilazione (un semplice processo chimico) della morfina. Ma al di là delle premesse biochimiche, l’importante è capire come gli stessi presupposti che sappiamo soggiacere alla dipendenza da eroina siano veri anche in quella da morfina.

 

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William Burroughs e gli altri tossicodipendenti si iniettavano quotidianamente morfina. © by Angelo Montanari

 

Queste sostanze si legano ai recettori per gli oppioidi, fisiologicamente presenti nel nostro sistema nervoso, mediando gli effetti ormai arcinoti anche a chi non li ha mai conosciuti in prima persona: euforia, totalizzante e assoluto benessere, sono solo alcuni dei modi in cui si prova a definire uno stato psico-fisico di estremo piacere, tanto grande da alienare il consumatore da tutta quella serie di preoccupazioni ed impellenze che costituiscono la ‘vita vera’.

 

Ma una sorta di legge non scritta che regola gli equilibri naturali degli stati psicofisici insegna che tutto ciò che va su, deve poi tornare giù. “Whatever goes up, must come down, and down, and down”, per citare il film Human Traffic, frase che calza a pennello anche se si riferiva ad un’altra sostanza: l’MDMA. Quando manca la sostanza,il prezzo da pagare per il paradiso chimico che sperimenta il consumatore di oppioidi è quello di tutte le dipendenze. Nel caso degli oppioidi poi, la situazione è la peggiore; un inferno in terra fatto di nausea, febbre, dolori muscolari e nervosi, insonnia diarrea… il tutto accompagnato da una nevrotica depressione, un dissesto psicologico quanto fisico che solo un’altra dose può calmare. E l’assuefazione, ovvero la necessità di aumentare la dose per sortire l’effetto desiderato, oltre ad essere l’anticamera della dipendenza è anche il fattore più subdolo e difficile da discernere coscientemente.

 

“In genere non si rende affatto conto che sta scivolando nell’abitudine agli stupefacenti; dice che si può benissimo fare a meno di assuefarsi alla droga; basta essere prudenti e osservare alcune regole, come ad esempio quella di praticarsi la puntura a giorni alterni. In realtà, egli non osserva tali regole, ma ogni iniezione in più viene considerata un’eccezione.”

 

Il romanzo di William Burroughs ha la grandissima capacità di non darci solo la visione più ‘cinematografica’ e se vogliamo anche ormai scontata della dipendenza, quanto di addentrarsi nei meandri della psiche del tossicodipendente come solo il grande maestro della beat generation ha saputo fare.

 

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William Burroughs ha sempre flirtato con il pericolo

 

E senza arrivare agli scenari più visionari di Pasto Nudo, William Burroughs riesce comunque a far vivere una sorta di disagiante e vividissimo brivido al lettore: la trappola della dipendenza e l’inevitabile necessità di iniettarsi la droga appaiono in tutta la loro brutale essenza.

 

“<<Perché non può fare a meno dei narcotici, signor Lee?>> è la domanda posta normalmente dagli psichiatri stupidi. Si può solo rispondere: <<Ho bisogno della droga per alzarmi dal letto al mattino, per radermi e far colazione. Ne ho bisogno per rimanere in vita.>>”

 

La droga diventa una condizione imprescindibile, funzionale semplicemente alla più naturale esigenza di sopravvivere. L’autore racconta come l’organismo sia vittima di una sorta di parassita, che richiede di essere nutrito: lentamente, le iniezioni non riescono nemmeno a dare più quell’estasi provata alla prima somministrazione, anzi più volte nella letteratura della dipendenza si racconta di come in un certo senso ogni iniezione sia il frustrante tentativo di riprovare quella prima inarrivabile sensazione. La droga diventa, insomma, l’antidoto al tremendo malessere dato dall’astinenza. E se la forza del malessere è la stessa dell’euforia, non può che essere davvero tremendo.

 

“Sembra però che non vi sia alcun modo di sottrarsi al malessere per la mancanza di droga. Il malessere è l’opposto dell’euforia da droga. L’eccitazione della droga consiste nel fatto che non puoi fare a meno di provarla. I tossicomani sono dominati dalla durata dell’azione della droga e dal metabolismo della droga. Non ci si può sottrarre al malessere per la mancanza di droga, così come non è possibile sottrarsi all’euforia della droga dopo una puntura.”

 

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Burroughs in Junkie racconta della ricerca della droga (il craving), degli episodi criminosi, di quelli con i medici più o meno disposti a prescrivere morfina, ma anche e soprattutto di cosa significhi e comporti decidere di smettere. Se la droga è un modo di vivere, smettere deve per forza essere, in qualche modo, come morire.

 

“Naturalmente, gli intossicati non muoiono, di norma, se vengono privati dello stupefacente. Ma, in un senso del tutto letterale, il liberarsi dal vizio implica la morte delle cellule che non possono sopravvivere senza la droga e la loro sostituzione con cellule non bisognose di sostanze stupefacenti.”

 

L’immagine che Burroughs tratteggia è pittoresca, ma contiene molta verità: di certo dà l’idea di quanto possa essere difficile sconfiggere una dipendenza che – anche in breve tempo – è riuscita a plasmare l’individuo affetto da quella che spesso è considerata una vera e propria patologia. Nel nostro immaginario un’altra risorsa ormai immediata quando si pensa a questo insidioso processo è l’immagine di Mark Renton, di Trainspotting, che si barrica in casa con ‘tutto il necessario’ per uscire dalla tossicodipendenza: dopo aver sistemato cibo in scatola, giornali porno e secchi per vomito e feci – ed aver piantato i chiodi sulla porta – decide di sospendere tutto per spararsi un’ultima dose.

 

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Se la droga è un modo di vivere, smettere deve per forza essere, in qualche modo, come morire. © by Angelo Montanari

 

La verità è che per il morfinomane, o eroinomane che sia, la vita ha preso le sembianze della sostanza: senza di essa, tutto perde di lucentezza e di senso facendo rimpiangere subito l’estasi chimica della droga… e devono ancora sopraggiungere i terribili sintomi dell’astinenza.

 

“Quando riesci a procurarti droga in abbondanza, liberarsi della scimmia sembra facile. Dici a te stesso: <<Le punture non mi danno più alcuna euforia. Tanto vale che smetta>>. Ma quando riduci la dose e precipiti nel malessere, la cosa si presenta sotto tutt’altro aspetto.”

 

Ma come si fa, dunque, a disintossicarsi? Burroughs racconta di come si sia sottoposto ad ogni sorta di terapia: quella preponderante era quella della riduzione, che prevedeva dosi sempre inferiori di morfina al fine di arrivare ad iniettarsi una quantità così piccola da poterla sospendere senza incorrere nell’astinenza. Ma questo metodo, nelle sue varianti rapide e lente, come anche il sonno prolungato, gli antistaminici, i barbiturici, portavano sempre a repentine ricadute: il craving per la sostanza aveva la meglio, prima o dopo.

 

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Per il morfinomane, o eroinomane che sia, la vita ha preso le sembianze della sostanza. © by Angelo Montanari

 

L’autore illustra il suo pensiero, che di sicuro è tra i più importanti in quest’ambito, spiegando che queste terapie – come tutte quelle in uso all’epoca – non curavano davvero il male, ma rimandavano solamente la ricerca della sostanza. Rifacendosi al paragone con l’organismo insidiato da un parassita, dice che la terapia di riduzione non fa che affamare la tenia che alberga nell’ospite, indebolendola ma lasciandone sempre la testa conficcata… pronta a tornare a colpire più forte di prima.

 

È a questo punto che William Burroughs racconta della sua esperienza con l’apomorfina, sostanza protagonista della terapia somministratagli dal dottor John Dent. L’apomorfina ha una struttura molecolare simile alla morfina, ma va ad esplicare un’attività biologica totalmente opposta: dopo circa una settimana di continue iniezioni di questo farmaco, con l’importante requisito che mai l’individuo trattato faccia uso di morfina, egli non sarà più dipendente dalla morfina, e non vivrà quindi l’inferno dell’astinenza.

 

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William Burroughs ha provato anche una terapia con l’apomorfina

 

La terapia con l’apomorfina, all’epoca praticamente sconosciuta, che Burroughs promuove con tanto fervore nel romanzo altro non è che un profetico precursore della terapia che va oggi per la maggiore, ovvero quella con il metadone per via orale. In entrambi i casi si tratta di terapie dette ‘sostitutive’, che mediante la somministrazione di una sostanza in grado di legare gli stessi recettori della droga – senza però mediarne gli effetti euforizzanti – riescono ad evitare le ricadute dovute alle crisi di astinenza, tenendo inoltre lontano l’ex-dipendente dai rischi della somministrazione endovenosa (nel caso del metadone). La tenia non è stata quindi affamata, anzi è stata nutrita con qualcosa che però non dà gli effetti desiderati e portatori della ricerca spasmodica della sostanza: la ‘scimmia sulla schiena’ viene così debellata. Infatti oggi la terapia di sostituzione con il metadone è quella preferibile e più efficace, unitamente ad un trattamento psicoterapeutico volto a curare a fondo il paziente, che certo non è unicamente identificabile e riassumibile in legami sostanza-recettore.

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William Burroughs racconta come debellare la scimmia sulla schiena

 

Burroughs si spinge un po’ più in là, e fantastica di utilizzi universali per l’apomorfina, in grado secondo lui di curare l’uomo da qualsiasi dipendenza: sia essa da oppioidi, da alcol, da cocaina o da barbiturici (oggi ci riferiremmo alle benzodiazepine, come Valium e Xanax, che hanno preso il posto dei vetusti barbiturici quasi in toto). La chiusura del libro è esplicativa in questo senso, sebbene sia oggi dimostrato che una sostanza universale in grado di curare qualsiasi dipendenza sia un’inesistente chimera: ma con i suoi toni profetici e carichi di buoni propositi,impossibili da leggere oggi senza una forte carica ironica conoscendo per bene il personaggio in questione, danno la cifra anche della differenza tra Junkie e il restante corpus letterario dell’autore.

 

“Il signor Anschlinger, che dirige l’Ufficio Narcotici degli Stati Uniti, dispone senza dubbio dello schedario più completo del mondo per quanto concerne il traffico e l’uso di stupefacenti. I dati in possesso del suo ufficio, posti in correlazione con la terapia dell’apomorfina, consentirebbero agli Stati Uniti di mettersi alla testa di una crociata per liberare i popoli del mondo dalla schiavitù degli agenti chimici.”

 

Certo è che la terapia sostitutiva deve incontrare un soggetto motivato e disposto a far davvero a meno dell’eroina… e se pensiamo alla vita – peraltro considerevolmente lunga – di William Burroughs, morto ad ottantatre anni nel 1997 ancora dipendente dalla sostanza, ci rendiamo conto che, forse, il vecchio beatnik non ha rappresentato il paziente modello.

 

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