Can we know the truth? Racconto di un viaggio introspettivo lungo e profondissimo che parte dalla ripetitività di un suono familiare: se guardo attentamente il mio tavolo di casa… lo sento scricchiolare.
Il tavolo poggia quasi perfettamente su mattonelle di cotto invecchiato; quasi, perché da un lato sembra più inclinato. Dalla parte destra, la gamba in mogano forza una maggiore resistenza per sopperire la delicata inclinazione naturale della casa.
Il tavolo scricchiola.
Ogni giorno lo guardo e, nel silenzio, scricchiola.
Malgrado la banalità della circostanza descritta, quasi deridibile, mi rendo conto che quel crepitio diventa un’ossessione a cui subentra facilmente la difficoltà di sentirmi bene se, ogni giorno, non maneggio quel suono.
Sì, a quel gracile suono si è accostata in modo inconfondibile la sensazione di normalità e benessere quotidiano.
Il tavolo scricchiola e io mi sento bene.
È palese che la natura dello stimolo, in questo caso uditivo, ripetuto casualmente ma costantemente, si impossessa velocemente del mio essere.
Va a intaccare un ramo della mia personalità, forse l’insicurezza, e la riempie di un suono che probabilmente si presenta come il suo contrappunto.
A poco a poco passo dal sentirmi Re delle sensazioni, date da una melodia che ristabilisce i miei equilibri giornalieri, all’esserne schiavo.
Mi sento un santo, cieco, mentre fa la parte del diavolo, impotente di realizzare il mio stato, valvassore di una dipendenza che mi trascina nella nebbia delle mie debolezze.
Divento un cittadino medio il cui inconscio tenta di ribellarsi al suo vivere malsano.
Forse calza meglio un mostro, un Leviatano che riflette la sua forza nell’avere e nel distruggere: un essere condizionato dalle sensazioni di cui si ciba per placare la voglia di possedere tutto( psicologicamente si possiede anche ciò che si mangia).
Sopraffatto, cado in un surrogato del tempo e dello spazio: la paura sopprime l’astinenza.
Perdo così il mio unico contatto col corpo in grado di avvertirmi che era la soglia più bassa del controllo era già stata varcata.
Il processo autodistruttivo diventa irreversibile. Le immagini scindono gradualmente i loro nessi comunicativi e poco a poco divento cittadino dell’oblio.
È così facile perdersi, che la mente si scinde per aiutare il corpo. La parte buona spiega
Che l’attitudine di vivere si basa sulla risposta immediata di richieste ambientali cui il corpo è sottoposto continuamente e, qualunque sia il genere di esigenza, l’autoprogrammazione riduce i minimi rischi che qualunque problema risulti tale; ecco, la dipendenza, la parte cattiva inverte i meccanismi. La forma non ci interessa, la dipendenza è comunque la contrazione del corpo che assimila la novità e, per mantenere la sua omeostasi, sostituisce, centrifuga, scombussola il suo orientamento pur di non cedere.
I suoi effetti sono proporzionali al tempo impiegato dalla percezione del controllo di capire che è stata illusa: è come un’afta orale, sepolta tra le cavità da tempo, e si fa riconoscere solo con il dolore, esiste insieme al dolore; il piacere sadico della lingua prima o poi viene rimpiazzato dallo tsunami speziato dei sapori che elettrizza la bocca rendendola vulnerabile.
Così sento scindersi l’identità come colla, la stessa che unisce ciò che vedo a quello che penso.
E, debole, scrivo a me, a quello che ero con l’intenzione di non ritrovarmi:
“Tu, non voglio sapere come stai,
ma come si sta senza di me.
Io non sono mai stato senza me
e quindi non lo so.
Vorrei sapere cosa si prova a non avere me
che mi preoccupo di sapere
se va tutto bene,
a non sentirmi ridere,
a non sentirmi canticchiare canzoni stupide,
a non sentirmi parlare,
a non sentirmi sbraitare quando mi arrabbio,
a non avere me con cui sfogarsi per le cose che non vanno,
a non avermi pronto lì a fare qualsiasi cosa per farti stare bene.
Forse si sta meglio, o forse no.
Pero mi è venuto il dubbio
e vorrei anche sapere
se ogni tanto questo dubbio è venuto anche a te.
Perché sai,
io a volte me lo chiedo come si sta senza di te,
poi però preferisco rispondere che tanto va bene così.
Ho addirittura dimenticato me stesso per poter ricordare te”