Con la sciarpa verde è il racconto in cui l'aspetto esteriore va di pari passo con la crescita reale e la scoperta della realtà delle cose.

“Agli umani piace perdersi negli altri umani e nei loro affari”.

 

Quel giorno c’era una grande luce che batteva sull’ingresso del negozio.

Non so se fosse opera del titolare, forse un modo per avvantaggiare il proprio lavoro o un semplice scherzo della natura, resta però il fatto che chiunque entrasse nel negozio un momento prima era battezzato e divinizzato dalla luce e, pochi passi dopo, si demonizzava nell’ombra.

L’effetto era quello delle docce sterilizzanti ai bordi della piscina, forse meno fastidioso, comunque le persone varcavano l’ingresso vacillando, come se dovessero lasciare il clima estremo del deserto( del Karakum) ed entrare direttamente nell’ultimo girone dell’inferno.

Ma tutti sanno come sono gli uomini, “…spogliateli di tutti i pensieri e rivestiteli di inebrianti profumi e calore umano e loro vi ripagheranno con l’oro”.

Il sole rimaneva fuori.

Quest’ultimo soffriva veemente la velocità con cui le nuvole si rincorrevano e lo eclissavano in modo sempre più duraturo e, malgrado ogni volta prendesse il tempo minuziosamente per scagliarsi contro e cercare di farsi valere, le lisciava malamente, finendo impiccato sulle vetrate del negozio, per il piacere del titolare.

Aspettare, in quel posto, era una regola, eppure si annidava nell’ambiente una strana allegria, quasi folkloristica, che riusciva a intrecciare il tempo reale con quello onirico: C’erano i profumi, quelli li sentivi subito, rendevano l’aria così densa che si poteva tagliare a fette, e i rumori, questi si attaccavano alle voci dei clienti come parassiti, creando una strana armonia. Ma soprattutto c’erano le persone e i loro atteggiamenti.

Alcuni modi di rendere l’attesa meno soffocante si basavano su inusitati metodi d’osservazione: non era facile distinguere il cliente occasionale da quello abituale, o il cliente soddisfatto da quello deluso.

Ognuno, a suo modo, aveva i suoi canoni di riconoscimento, bastava fare attenzione.

I soddisfatti se ne andavano salutando a una mano, come se impersonificassero la Regina d’Inghilterra arrangiavano piccoli movimenti attenti a non scomporsi. Questi non staccavano mai gli occhi dallo specchio, felici della nuova immagine, avevano cancellato la vecchia identità con le memorie dei vecchi capelli sul pavimento.

Più facile da riconoscere era invece il linguaggio non verbale degli insoddisfatti.

Quanto era divertente empatizzare con la loro delusione, rapire il loro tentativo di sodomizzare l’inquietudine e magari rivederlo in uno sguardo o in una smorfia.

I loro movimenti erano palesemente impacciati, si rivestivano frettolosamente senza guardarsi in giro per non scontrarsi né rivedersi negli occhi di qualcuno, annuivano, pagavano, infine uscivano per andare a sfogarsi con gli specchi di casa.

La regola lì dentro era che non c’erano regole, tutti erano attori e allo stesso tempo spettatori.

Ci si riscaldava con dicerie popolane di cui nessuno garantiva l’attendibilità, e si godeva di un crogiolo di sinestesie e sensazioni peccaminose degne della più fiorente Sodoma finché, ad un tratto, dalla porta principale entrò una piccola creatura che sconvolse quell’armonia orgiastica degna di un Dorian Gray non ancora redento.

Una bambina di circa 3 anni.

Era così piccola che con la sua manina destra si frugava in tasca come in cerca di un antidoto per tranquillizzarsi e con l’altra sfiorava le ginocchia del padre nello sbadato tentativo di arrampicarsi. Aveva i capelli di uno strano colore che rifletteva una certa invidia negli occhi delle clienti.

I suoi occhi, invece, erano verde smeraldo e risaltavano una carnagione così limpida da ricordare una piantagione di cotone a forma di zucchero filato.

La tenerezza della bambina ti scavava nel profondo, la sentivi strisciare sui punti vitali e poi sventrare l’invidia per far posto all’adorazione.

Ricordava un fiore.

Un fiore che spicca tra i suoi simili, un fiore sul punto di essere strappato dalla terra per annusarne la bellezza ma vulnerabile, prossimo a finire nel dimenticatoio degli strami senza valore.

La dolcezza dei suoi lineamenti adombrava qualunque decorazione messa dai genitori per deviare la sua attenzione dal fatto che avrebbe dovuto affrontare una dura prova: tagliarsi i capelli che lei amava tanto.

Era una delle ultime giornate di giugno e il caldo appannava gli specchi. C’erano i condizionatori ma l’aria così densa che si surriscaldavano in continuazione generando uno strano funzionamento a singhiozzi e sputacchiando acqua dalle feritoie.

Dopo aver preso confidenza con il luogo, la bambina disse il suo nome a bassa voce, come se non volesse farsi sentire, Poi si adagiò, sedendosi in terra senza prendere in considerazione il padre che le aveva indicato alcuni giochi ammassati in un angolo. Fingendo che non gliene importasse, incrociò le gambette e provò a scordarsi il motivo per cui era lì.

Aveva un vestitino leggero che le scopriva le braccia e il modo in cui, ogni tanto, si gingillava le spalline per risistemarsi dava la sensazione che non fosse la sua taglia; si incantava a guardarsi le pieghe che intarsiavano i bottoni sull’addome e quasi ci si addormentava.

Teneva stretta a sé una sciarpa verde di lana. Una sciarpa sicuramente non sua, forse appartenuta a qualcuno d’importante con cui si identificava. Chi nell’infanzia non si è mai affezionato a qualcosa più che per la sua morfologia o funzionalità per la sua provenienza o stravaganza, che magari ci ricordava qualcosa o ci dava la forza di qualcuno.

Il valore affettivo di quella sciarpa verde per la bambina era tale da superare il timore e la vergogna di qualunque giudizio sociale, se di giudizio sociale a quel l’età si può parlare…”A 8 anni andavo a scuola sempre con i pantaloni rattoppati. Sempre gli stessi. Sempre, per due motivi: il primo era scaramantico, infatti credevo davvero nella forza mi trasmettevano quei pantaloni, mi preoccupavo di come indossarli piuttosto di essere sicuro riguardo a cosa mi avrebbero interrogato.

Senza quei pantaloni l’insicurezza squartava l’autostima e mi autoconvincevo di essere qualcun altro, il supereroe senza i super poteri. Naturalmente dietro alle ragioni di natura propiziatoria e aruspica c’erano anche dei motivi molto più fondati di necessità e ragionevolezza: per fortuna mia madre sapeva delle mie pessime abitudini ricreative scolastiche in cui nei giochi con i compagni ero molto estremo, spesso toglievo lavoro al bidello e al suo mocio nel pulire i pavimenti. Ero felice dei miei pantaloni, tanto che li portavo anche dopo scuola e mi trasformavo in un imbuto per giudizi di ogni genere, ma a me non importava”.

Intanto la bambina continuava a tocchicciare la sua sciarpa verde e nei suoi pensieri si faceva sempre più lontano il motivo dell’esser lì, oggi.

Un’atmosfera insolita si era depositata sulla vicenda.

Adagio, adagio, con la pazienza di un condor sopra la preda ferita, in procinto di morire per mano del tempo, la vicenda rallentò per poi scagliarsi con una furia inaudita.

Con una vile e tempestiva azione Amanda ( così disse di chiamarsi la bambina) fu spogliata delle sue fantasie e messa di fronte a uno specchio.

Uno specchio grandissimo in grado di dare una continuità tra ciò che vedeva davanti e quello che succedeva dietro di lei.

Era l’ora di conformarsi, di prestare attenzione alle regole estetiche; era il momento di incollare la fantasia al passato, perdere la propria unicità, e relegarsi alle regole della forma, della bellezza e del colore, imposte da qualcuno che lei sicuramente non conosceva e non avrebbe mai conosciuto.

Si guardava allo specchio chiedendosi cosa mai avesse di sbagliato, e in un tumulto di mugolii soffocati cercavano di inumidirle i capelli color grano.

La paura le salì in gola e il sapore dei battiti irregolari le attanagliò il collo, cambiandola in volto, poi, quando le fu nascosta dalla vista la sua sciarpa verde, non si trattenne e vomitò tutta la rabbia che aveva dentro.

Due secondi.

Non durò a lungo. Eppure quel poco bastò.

Un attimo prima, il silenzio. Il respiro che si gonfia, che strazia i polmoni fino al tremore dello sforzo, fino al formicolio incondizionato., Amanda fermò il tempo proprio al momento prima del salto nel vuoto. Un salto drastico che non vede il timore dello schianto, solo profondità, incontrollabile. Ferma, come lo spazio tra due corpi impenetrabili che negoziano la sopravvivenza al costo di una bomba di adrenalina pura, Amanda era immobile.

Poco dopo, come il maschio della vedova nera dopo l’accoppiamento si tuffa nella bocca della femmina per essere consumato, il silenzio fece una capriola e si lanciò nelle fauci del terrore per esserne divorato.

Amanda urlò e allo stesso tempo sentì urlare.

Il suo pianto fu così forte che scompigliò le reazioni dei clienti in un riverbero di sobbalzi.

Vedeva le sue ciocche cadere, addossarsi una su l’altra, e le veniva in mente quel fogliame che calpestava quando andava a giocare al parco.

Le veniva in mente l’autunno, il buio delle sei e il gusto dei primi freddi per i quali lei era costretta a coprirsi e gli alberi a spogliarsi.

Quando Amanda uscì dal negozio era bella e sorridente, ma aveva negli occhi il colore della strada. Quando la piccola Amanda uscì da quel negozio non aveva più la sua sciarpa verde.

Poco dopo, sulla vetrata principale del negozio, affissero un fiocco rosa con la scritta: “E’ nata Amanda”.

Dedicato a E