Tre racconti, tre ritorni.

Trasloco

Tu lì, accoccolata al pianoforte, nel tuo abito farcito di pizzi e golette. Quel salotto troppo grande per l’intimità, quei volti noti ed incorniciati che portano il tuo cognome e le loro eroiche ed ingombranti imprese, che ti pesano sulle dita. Lunghe e magre, affusolate e pungenti, pericolose in questo castello di carte. Io qui, nel mio pigiama peggiore, stretta davanti ad una finestra che dà su un magnifico giardino. Il nostro giardino segreto. Tu non lo respiri chissà da quanto tempo, io lo annuso ogni giorno, ma non riesco ad accedervi. Conosco a memoria tutte le sue sfumature, tutti i verdi delle sue foglie, tutti i fiori della sua primavera ed aspetto il tuo rientro in te stessa, ovvero il tuo tentativo di fuga, fatto di note in bianco e nero, per rompere queste sbarre che mi lasciano fuori, anche se poi, davvero, la pioggia cade oltre il vetro appannato. Il sabato mattina è il tuo momento preferito, allora preparo una grande tazza di caffèlatte e mi concentro fino a quando, finalmente, cominci. Scivoli tra i tasti, come l’acqua su qualsiasi superficie ed intoni la giornata in modo sublime. Tutto il mio verde diventa armonia bianca e tutta la tua armonia nera si fa verde. Non ho capito chi tu sia realmente tra tutti coloro che salgono e scendono queste scale, sbattendo la porta, comunque, chiunque tu sia, hai reso speciale il mio trasferimento. Quando sono arrivata, ti hanno introdotto alle prime lezioni; il tuo crudele maestro insisteva ed insisteva e tu, piccola, cercavi l’altezza delle sue pretese. Balbettavi in musica ciò che non ti era permesso in parola ed ogni giorno aggiungevi un accento, una virgola, un riverbero che riconoscevo. Le tue frasi son divenute periodi e forse, alla scadenza del contratto, il tuo racconto sarà concluso e queste sbarre cadranno, lasciando che ti incontri sotto l’albero più alto, quello dove si rincorrono gli scoiattoli. Chissà se allora sarò riuscita a portare qui le mie ciabatte, giusto in tempo per la partenza.

 

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