Un romanzo emblematico nel raccontare l’orbita che ogni essere umano compie attorno al proprio trauma.
Rimettere insieme i pezzi di un’esistenza, ripercorrere la traiettoria tracciata cercando di cavarne fuori un senso: questo si appresta a fare James, o meglio Jiggy, quando prende la parola raccontando la quotidianità della meschina Shively, città della Louisiana in cui nasce e cresce. Flaneur di Caterina Sbrana rivela una molteplicità di aspetti interessanti, e tra questi l’ossessione per il punto d’origine sembra essere quello più ricorrente: origine in senso geografico (Shively, un posto dal quale il protagonista vuole fuggire e che immancabile si ripresenta), ma anche e soprattutto in senso dinamico. Quasi come nella ricostruzione di un incidente stradale, infatti, la sensibilità di Jiggy è continuamente rivolta agli eventi che hanno provocato la sua deriva esistenziale. Benché cerchi di liberarsi spostandosi dalla Louisiana a New York, l’eco del profondissimo trauma patito nella città natale lo insegue nella fisionomia di vecchie conoscenze, ora compagne di studi al college.
Ma chi è Jiggy? La voce narrante che anima il romanzo è quella di un antieroe in cui vengono a incontrarsi tensioni opposte. Ama l’eleganza, ma odia le formalità; è fragile eppure pieno di rabbia; antisociale, e allo stesso tempo alla disperata ricerca di qualcuno che lo comprenda. L’autrice porta questo tormento fino all’esplosione finale, senza risolverlo con facili soluzioni. È lei stessa a offrire una chiave di lettura per il suo personaggio citando L’uomo della folla di Poe, e in effetti, il cuore di Jiggy, così come l’Hortulus Animae “non si lascia leggere”, è completamente refrattario a una lettura univoca.
Ciononostante, troviamo alcune linee ricorrenti. L’identità, ad esempio, è il primo terreno sul quale il protagonista combatte la sua battaglia per l’autoaffermazione: identità in senso stretto, onomastico, dal momento che persino il nome datogli dai genitori gli risulta stretto.
L’irrequietezza iniziale si traduce in un movimento di fuga che porta Jiggy a lasciare la Louisiana per tentare di reinventarsi a New York. Ma già prima di questo salto, a Shively è avvenuto un fatto tremendo che continuerà a echeggiare nella sua coscienza. Lasciamo che il lettore scopra da solo di cosa si tratta, ci basti dire che Flaneur è emblematico nel raccontare l’orbita che ogni essere umano compie attorno al proprio trauma. Siamo tutti creature traumatizzate, senza eccezione, non importa se ce ne stiamo sdraiati a bordo piscina prendendo il sole, oppure se siamo costretti a sgobbare per sopravvivere: essere umani significa portarsi dentro il trauma di essere nati, cresciuti, di aver ricevuto l’etichetta di un nome che non accettiamo, significa perdere l’innocenza, cercare di recuperarla, soffrire. Tutto dipende dal grado di coscienza con cui osserviamo noi stessi. Il flaneur di Sbrana, malgrado l’occhio cieco a causa di una rissa, rivela una capacità di visione della realtà insopportabilmente profonda, al punto da condurlo verso l’estremismo esistenziale. Il nichilismo che ne deriva lo porterà a fare i conti con se stesso, ma non prima di aver affrontato l’ambigua vita sociale del college e poi le misere strade di New York, entrando in lotta con entrambe le dimensioni. Del resto, quando si parla di romanzo, si parla di un conflitto tra l’io e il mondo. A partire dal Don Chisciotte, passando per il Viaggio al termine della notte e la Ricerca del tempo perduto, ogni eroe è un io che si scontra con l’ambiente, almeno finché l’io non esploderà in epoca postmoderna. Jiggy è questo tipo di io conflittuale ma unitario dall’inizio alla fine, una voce che, accompagnando il lettore, diventa per lui una specie di amico. La sua sensibilità è radicale perché il turbamento da cui è scossa ha a che fare proprio col fatto di esserci, di occupare uno spazio – o meglio, di essere costretto dalla vita a occuparlo – che subirà sicuramente l’assedio del mondo esterno (i benpensanti di Shively, l’associazione del college, la polizia). Se il mondo sociale, col suo straziante conformismo, è quasi sempre un avversario insidioso, è invece nei rapporti intimi che Jiggy trova conforto. Il personaggio di Rob prima, e di David poi, testimoniano questo aspetto. In effetti, nel romanzo di Sbrana, sembra che la redenzione “affettiva” (e la conseguente uscita dal nichilismo) sia possibile solo nel rapporto a due, e non tanto attraverso ritualità collettive o scalate al potere.
Il protagonista – come dicevamo all’inizio – presenta in sé contraddizioni irrisolvibili, e questo lo rende interessante. Per usare un termine dell’astrofisica, possiamo definire Jiggy una “singolarità”, cioè un punto che contraddice la teoria stessa di cui fa parte: è nel mondo ma al tempo stesso si pone contro di esso, cerca disperatamente di ripristinare il barlume di felicità provato durante l’infanzia, ma il tentativo è paragonabile a quello di risalire l’entropia per ritrovare l’energia originaria. È destinato al fallimento, ma ciò non significa che il personaggio non ci metta tutto lo slancio possibile.
Anche la costruzione spaziotemporale che l’autrice dà al suo romanzo fa pensare alla dispersione: una struttura esplosa che alterna sequenze ambientate a Shively (infanzia e prima adolescenza di Jiggy), con altre in cui il protagonista, chiuso nella sua stanza al college, aspetta che la polizia venga a prelevarlo per un delitto i cui dettagli saranno svelati più avanti. Già da qui vediamo come l’opera sia chiusa entro due polarità traumatiche: il dramma di Shively e il dramma del college, e il collante della voce narrativa che cerca di rimettere insieme i pezzi della vita esplosa.
Del resto, anche l’atto di “rompere” ha una natura duplice nel romanzo. Se da un lato la rottura della simmetria infantile (l’innocenza rovinata dal pregiudizio) provoca dolore e tormento, dall’altro bisogna considerare che la battuta ricorrente basta poco per rompere il cristallo, forse, può riferirsi alla possibilità di evadere dalla teca della solitudine.
Un’ultima nota.
La giovane autrice sceglie uno spazio (gli Stati Uniti) e un tempo (gli anni ’60-’70) che non le appartengono, per raccontare una storia che le appartiene eccome. Credo sia proprio questo l’aspetto più importante: il fatto che la strumentazione, la “tavolozza” scelta da chi scrive, per quanto lontana dal vissuto, riesca a esprimere a pieno qualcosa di tremendamente sentito.
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