Il ciclista è un racconto sulla vita vista come una gara.

Il sudore gli colava sulla fronte impedendogli di vedere distintamente, gli avversari lo braccavano come sciacalli affamati, era l’ultima salita, la tappa della consacrazione, lui era lì, in testa alla lunga fila di ciclisti che annaspavano per lo sforzo finale.

Si sentiva osservato, invidiato, bruciato dagli sguardi nemici che non potevano fare altro che guardargli il fondoschiena.

Era troppo veloce, una scheggia in pianura, una locomotiva in salita.

Guardava dritto davanti a sé come un puledro da corsa, tirava piccole boccate d’ossigeno calibrando ogni respiro.

Pedalando ripensò a tutti i chilometri che aveva fatto, a tutte le avversità che aveva superato stringendo i denti.

 

Il sole cominciava a farsi sentire su quella strada di montagna, ma il capofila non era tipo da arrendersi per così poco, aveva mantenuto la sua posizione in condizioni ben peggiori, ricordava ancora con estrema commozione la pioggia torrenziale che li aveva aggrediti durante la settima tappa, ma lui, fradicio come un pulcino, aveva evitato una brutta caduta all’ultimo secondo con fare da acrobata.

Era l’astro nascente, il fenomeno venuto dall’est, tutti lo guardavano con ammirazione, ma allo stesso tempo volevano la sua carcassa, sopratutto quell’italiano che gli stava alle calcagna da centinaia di chilometri, la sua era la faccia di chi non vuole perdere, di chi tenterà il tutto per tutto fino all’ultimo per spodestare l’imbattibile.

Ma il capofila non mostrava nessun cedimento, ripensava a tutti gli allenamenti a cui si era sottoposto, alle diete sane e sotto controllo, al vizio del fumo che tanto lo affascinava ma al quale rinunciava, ricordava tutto con dolore, il dolore di chi lotta per qualcosa d’importante, lo spasmo dei muscoli esausti che non rispondono più ai comandi, il sudore dell’uomo prima che del campione; perché, al contrario di quello che pensavano tutti, lui non era il fenomeno a cui riesce tutto senza sforzo, anzi, per arrivare a primeggiare in quella gara era morto e rinato infinite volte.

Passata la salita il ciclista sputò uno sbuffo di sollievo; il peggio se l’era lasciato alle spalle e dopo la discesa ci sarebbe stata la dirittura finale, ma lui era l’asso della pianura, faceva correre i piedi come bielle dirette al traguardo.

 

L’italiano era sempre lì, in attesa di un errore, sperava in un piccolo cedimento, in un crampo improvviso, perché sapeva che in una situazione normale non ce l’avrebbe fatta, era un avversario troppo forte, il duro dei duri e intanto continuava a guardargli il fondoschiena.

Il capofila sbuffava indisturbato verso il traguardo, pensò che dopo la corsa sarebbe andato a casa dalla sua famiglia; non amava le cose in grande, gli sarebbe bastata una serata tranquilla con le persone che più amava, era stanco dei ricevimenti di gala e dei sorrisi per i fotografi, ma comunque la competitività lo tormentava fin dalla più tenera età.

Pochi metri, pochi metri ancora e la vittoria sarebbe stata sua, nessuno gliela avrebbe più tolta, primo davanti al suo eterno secondo.

Il ciclista rigirò la testa per la cavalcata finale e…100, 80, 50 metri all’ultimo sprint, una manciata, solo una manciata di metri ancora e…quel daino, maledizione, un muro di carne viva a bloccargli la vista…per evitarlo rischiò di sfracellarsi a gran velocità, rallentò fino a fermarsi, rimise il piede sul pedale, sentì due gomme fischiare alla sua destra…capì che era tutto finito.