Il club dei suicidi è un racconto sugli spauracchi della nostra generazione, dove la morte sostituisce la vita.

Molti dei miei amici si erano tolti la vita da poco, uno dopo l’altro erano andati ad allargare quella vasta cerchia di persone che ormai riempiva le prime pagine dei giornali, formando quello che poteva essere chiamato il club dei suicidi. Questa volta era toccato a Carletto, amico d’infanzia romano che aveva una vera e propria fissazione.

“Gli uomini sono come le mosche; vengono attirati costantemente dalla merda!” ripeteva di volta in volta.

Lo avevano trovato spiaccicato proprio come una mosca sul marciapiede davanti casa.

Un’altra persona che si era tolta la vita con noncuranza, come se fosse una cosa normale.

Il suicidio non veniva più considerato né un atto di forza né di debolezza, aveva perso tutto il suo fascino e mistero; ormai era una cosa da tutti i giorni, per questo quello fu chiamato “Il periodo dei suicidi”.

Le persone volavano dagli ultimi piani dei palazzi come foglie che si staccano da un albero.

La moglie ti lascia…e allora perché non buttarsi sotto un treno?

Il capo ti licenzia…e allora perché non ingerire una scatola di sonniferi?

Morte da abuso di sonniferi…la chiamano la morte da codardi, ti addormenti e non ti svegli più, è come morire di vecchiaia.

 

Viene chiamata morte da codardi solo perché non provoca dolore, ma non è forse dolore quello provocato nel cuore delle persone care?

Forse il loro desiderio è solo di addormentarsi come tutte le sere con la differenza che dopo aver chiuso gli occhi li aspetta una meta mai tracciata; o forse in cuor loro sono semplicemente gentili con i propri cari non facendosi trovare penzoloni con un cappio intorno al collo; fatto sta che il suicidio non è mai codardo o coraggioso…il suicidio è suicidio.

In quel periodo passavo intere giornate ad aggirarmi per le strade della città cercando di scervellarmi sulla questione.

Proprio io che avevo pensato e idealizzato il suicido mille e più volte mi trovavo ad assistere giorno dopo giorno a questo suicidio di massa della società senza poter far niente.

Dopo aver appreso la notizia della morte di Carletto, sentii il bisogno di passeggiare in campagna il più lontano possibile da quel clima folle e disperato.

Il cinguettio degli uccelli aveva preso il posto del rumore continuo delle ambulanze che si era ormai impadronito della mia testa.

 

L’aria di campagna servì a schiarirmi le idee.

La continua industrializzazione aveva contribuito in maniera significativa ad aumentare le debolezze delle persone facendole diventare fragili come bicchieri.

Bastava un nonnulla per mandare in frantumi tutte le certezze su cui era saldamente ancorata la vita di un individuo.

Uomini e donne che si toglievano la vita per una figuraccia in pubblico.

Vecchi che si toglievano la vita per la vergogna di essere vecchi.

La società aveva indebolito la sua popolazione succhiandole forza e coraggio; qualità ormai rare.

La malinconia, compagna fedele dell’uomo, riempiva di nero le stanze degli adolescenti chiudendoli in prigioni di tristezza e disperazione.

Camminando mi venne in mente che forse avrebbe potuto essere quella la fine dell’umanità…un grande suicidio indolore.

In lontananza scorsi un grosso carro trascinato da un uomo a mo di rishò.

Non riuscivo a capire come una sola persona potesse smuovere una cosa così grossa.

 

Quando mi fu più vicino lo riconobbi; era Simon, vecchio amico mio e di Carletto.

“Ehilà Borges! Che ci fai in queste tristi strade di campagna?”.

Borges…era tanto che qualcuno non mi chiamava con quel soprannome; sentirglielo pronunciare mi fece piacere.

“Vecchia volpe, come stai? Non sei cambiato di una virgola rispetto a cinque anni fa. Comunque se queste strade di campagna sono tristi, quelle di città sono veri e propri gironi infernali” risposi cambiando tono di voce.

“Città o campagna ormai non fa più differenza…tutto ha perso importanza…persino la vita”.

Quella frase mi gelò il sangue. Simon non era mai stato un ragazzo riflessivo ed ora appariva davanti ai miei occhi come una persona matura, anche se maturata nello sconforto.

“Che ci fai con questo carro?” chiesi cercando di cambiare discorso.

“Trasporto anime. Al suo interno ci sono molti stranieri provenienti da diverse nazioni che non hanno soldi per un lungo viaggio. Io li sto portando a Roma per pochi spiccioli. Mi piace l’idea di poter aiutare questi bisognosi; durante la giovinezza pensavo solo a me stesso e ho finito per perdere di vista tutte le cose davvero importanti. Ora ho trent’anni e mi rimane solo questo carro e la sua missione”.

“E’ una bella cosa. Hai saputo di Carletto? Anche lui ad aumentare la schiera dei suicidi”.

“Povero Carletto…eppure eravamo tanto felici noi tre assieme. Guardaci ora, lui morto e noi due morti di disperazione. Non ci sono più stagioni per la tristezza…”.

Non seppi cosa rispondere e feci solo un piccolo cenno di assenso col capo.

“Tienimi un secondo il carro”. Mi disse scomparendo all’interno di un bosco.

Quella fu l’ultima volta che vidi Simon.

Lo cercai nel bosco disperatamente, ma di lui nemmeno l’ombra.

Che si fosse volatilizzato nel nulla? Che si fosse iscritto anche lui nell’albo dei suicidi?

Non potevo sapere niente di tutto questo…mi caricai sulle spalle il suo fardello e iniziai a trainare il carro.