Storia di un cuore plastificato. È quello del mondo, sotto l'effetto sedativo della sua immagine.

“Il mondo degli oggetti in cui probabilmente siete cresciuti, dai giocattoli alla televisione, dalla televisione a internet, da internet ai videogiochi, non vi ha fatto capire la differenza tra le cose e gli uomini, e, come le automobili sullo schermo dei videogame, anche le macchine che corrono sulle autostrade per voi non contengono nessuno”.

 

(Umberto Galimberti, L’ospite inquietante – Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, 2008).

 

Ho il volto di plastica e le mani pure.
Sono finito nella vetrina di un negozio del centro e sto qui, tutti i giorni e tutte le notti. Quello che vedo è divertente, triste, buffo, violento, bagnato e colorato.
Vedo un’anestesia sociale ed emotiva. Una nube che si posa dolcemente al suolo, che avvolge l’intera totalità degli elementi nella sua pancia e intorpidisce ogni colore.

 

La differenza tra le cose e gli uomini è forse sempre più sottile nella loro concezione.
Le decisioni, le passioni, hanno tutte un prezzo ed un valore emotivo che dipendono in qualche modo da quello materiale.
Dalla cura dell’immagine all’esposizione del Sè interiore, si trovano nel mezzo di una pubblicizzazione della persona e, paradossalmente, si ‘de-personificano’; mutano il loro modo di essere, modellano il loro comportamento e il loro atteggiamento verso l’esterno, in sua funzione.

 

Quando escono dall’ambiente consueto e protettivo delle loro abitazioni e vanno a fare una passeggiata in una grande città è subito percettibile, ma questo vale anche in alcuni ambienti lavorativi, il valore che le persone attribuiscono alle altre.
In molte occasioni questo viene determinato dal prestigio, dall’immagine, dall’ordine e, perché no, dalla bella presenza; dimenticando, però, di porsi una domanda forse fondamentale ma ormai apparentemente assurda:
“Questa persona farà del bene alle altre?”.
Immaginare la scena di un uomo o di una donna che si chiedono una cosa simile in una situazione di lavoro o del quotidiano, viene da ridere. È assurdo, in fondo, pensare che questa possa essere la consuetudine. Si chiedono forse che lavoro faccia, da dove venga, magari come potrebbe essere senza veli; tutte domande lecite, sia chiaro. Sono pur sempre un manichino.
Ma sarebbe davvero una domanda così assurda se ponessero tutto questo in secondo piano e dessero la priorità al punto di vista umano?

 

Quando, esattamente, l’osservazione e l’intenzione sono diventati a fini funzionali solo per l’aspetto individuale e non per quello collettivo?
Perché, al tempo stesso, non danno valore a un uomo o a una donna che vivono per strada, senza dimora, sopravvivendo a qualunque stagione e temperatura tutte le notti della loro vita (dimostrando così un coraggio talvolta letto come sottomissione al mondo)?
Perché non hanno lo stesso entusiasmo nel conoscere queste persone?
Se fossero ben vestiti, se gli tornassero utili in qualche modo, li guarderebbero con gli stessi occhi?
Avrebbero questa indifferenza verso di loro?
Hanno più occhi per me.

 

Quanto c’è in comune tra il sentimento e l’immagine, tra il tornaconto e il rispetto?
E se stessero capovolgendo irrimediabilmente la loro scala di valori?
In un mondo neanche troppo lontano, il valore di un uomo veniva attribuitogli dalla società in cui viveva, in funzione del suo coraggio.
Io non c’ero ancora.

 

Oggi il denaro ha sostituito questa virtù, consentendo a chiunque ne sia in possesso di essere guardato e ammirato dalle altre persone, arrivando perfino a scaturire l’invidia tra i più deboli di spirito.

 

Ma io ho il volto di plastica, le mani pure.

 

Le automobili che viaggiano sulla loro carreggiata non contengono nessuno e questo, forse, scinde dalla loro influenza da videogiochi.
Le osservano in uno stato di apatia, considerandone il metallo e tralasciando l’anima che la sta guidando.
Corrono su un’autostrada libera, ci sono poche macchine e sono nella carreggiata di mezzo. Ascoltano una canzone che li trasporta in questo viaggio e trovano magari in un paesaggio il piacere di continuare.
Ma poi si distraggono.
Li sorpassa un’auto sportiva e non possono fare a meno di guardarla.
Bastano pochi secondi per far nascere delle emozioni.
Bramano quell’oggetto e lo guardano allontanarsi, provando a premere sull’acceleratore per tenere il passo, consapevoli di non potercela fare.
Così, poche centinaia di metri dopo, sono loro a sorpassare. Quel catorcio di fronte è un ostacolo e gli impedisce di proseguire retti sulla loro strada, l’unica per loro possibile e l’unica visibile ai loro occhi condizionati dai colori che lentamente sbiadiscono, con il passare dei chilometri e quindi degli anni.

 

Nessuna elemosina.

 

Sono nel mezzo, guardano il mondo da una prospettiva fortunata.
È forse per questo, allora, che provano l’appiglio verso l’alto e non tendono la mano verso chi cerca di fare lo stesso con loro.
Hanno paura di essere trascinati giù, di tendere la mano e precipitare. Dimostrando così di avere paura.
Il contrario del coraggio.
Il contrario del coraggio di fermarsi nella corsia di emergenza e spegnere la macchina. Di smettere di guardare tutte quelle auto che passano, alternando noia e disprezzo ad avidità e invidia, concedendosi qualche istante di apparente sensibilità cantando qualche canzone con i finestrini abbassati e convincendosi stupidamente che le relazioni e gli amori li rendano esseri umani. Ma è tutto fittizio, perché anche l’amore, quello sincero, è un’esclusiva dei coraggiosi e non si limita all’immagine.

 

Fermatevi, quindi, guardate per un attimo il mondo senza correre. Potreste notare che se state fermi le ombre degli alberi fanno un giro completo durante una giornata e come lo stesso giro ogni giorno cambi il suo raggio d’azione.
Cogliereste il piacere dell’imprevedibilità, godendo del bello che viene e cancellando il dolore per quello che non c’è più. Ascoltereste il silenzio, a volte con fatica, ma lontani da quegli assordanti rombi di motore a cui quasi non fate nemmeno più caso.
Potreste forse sentire quelle voci che vengono dal basso. Potreste ascoltarli mentre implorano un aiuto, tendendo una mano. Arrivereste a capire, forse, che c’è un anima anche nella sporcizia e nel cattivo odore. Capireste che bianco e pulito non rappresentino il bene e che nel nero e nella sporcizia si possa trovare una infinita ricchezza. Una incalcolabile e assoluta bellezza di colori alla quale il mondo darà poi un valore.

 

Come un minatore solitario che scava il buio della terra seguendo il silenzio e portando con sé un raggio luce, abbastanza forte da illuminare quella che senza dubbio, grazie al suo coraggio, troverà.
Una miniera alta e profonda. Umida, come la migliore delle donne, e pronta, nella sua tetra e nobile eleganza riscoperta, ad essere spogliata di tutti i suoi diamanti.

 

Ho il volto di plastica, le mani pure.
Sono un manichino. Mi chiamo così. Non ho un nome, solo manichino.
Il manichino che ride.