Pregava, pregava e pregava. Ma per chi? Per cosa?
Nessuno poteva dirlo, quel piccolo monaco di montagna non era molto loquace, pensava solo a svolgere i compiti per la sua comunità e a pregare.
Camminando lungo un ruscello si abbassò per carezzare l’acqua, che, fredda, gli provocò un senso di beatitudine, la ricerca di una sensazione forte, come a cercar conferma di essere ancora vivo.
Gli uccelli cinguettavano mentre lui giocava con le mani nell’acqua come un bambino, lontano da ogni cosa terrena.
Nonostante i suoi trentaquattro anni, il viso era quello di un giovane non segnato dai solchi della vita, un sorriso mascherava i turbamenti del suo cuore.
Niente gli aveva mai dato più pace che stare in quel tempio.
Poteva vivere con altri esseri umani mantenendo il dono del silenzio; non era indispensabile parlare con loro. Li rispettava, sapendo poco o niente delle loro vite; per lui, questa era una cosa straordinaria.
Pensava che quando conosci a fondo una persona, lentamente inizi a scoprirne dei lati nascosti, sviscerati da un luogo buio e segreto, dove di solito vengono gelosamente custoditi. Lati che non avresti mai voluto conoscere, ma questa è la base della convivenza, dei rapporti interpersonali, è tutto un dare e avere. Uno scambio reciproco che spesso spaventa gli animi puri come quello del piccolo monaco di montagna.
Una rana lo guardava con i suoi occhi a palla, lui si avvicinò e quasi sfidandola le fece il verso “Cra-Cra-Cra”.
La rana non ci stette, saltò dritto e lungo sulla faccia del monaco, egli sobbalzò all’indietro ma a differenza di molti non emise imprecazioni schifato, non si vendicò sul povero animale lanciandolo da qualche parte, ma rise, rise sonoramente come il più innocente dei bambini.
“Sei proprio una rana simpatica, lo sai?” disse cercando di accarezzarla. Ma la rana scappò quasi infastidita.
Continuando la sua camminata mattutina incrociò un altro monaco, si scambiarono un saluto rapido e formale con un cenno del capo.
Iniziò a pensare se le sue preghiere sarebbero bastate, si chiedeva se non servisse uno sforzo maggiore. Pregava otto ore tutti i giorni; per lui era un vero e proprio lavoro.
Da quando era arrivato in quel tempio, non si era mai fermato, con la pioggia e il vento incessanti, col caldo torrido, con la neve alta un metro, perfino quando era malato riusciva a trovare le forze per pregare, con un’ostinazione che faceva quasi invidia ai suoi compagni.
Tornando nel suo abitacolo prese un tappeto di canna di bambù, lo stese e iniziò la consueta preghiera.
Farfugliava parole incomprensibili, solo il suo cuore ne conosceva il significato più recondito.
Di tanto in tanto si tirava dei colpi sul petto, con una rabbia e una forza che sembravano squarciarlo, colpi che tuonavano come lampi sul suo torace e le vene pompavano molto più sangue del normale durante quegli sfoghi autolesionisti.
Otto ore in ginocchio, senza pause, con quegli scatti rabbiosi di tanto in tanto, da anni costellavano ormai le sue giornate.
Quando era arrivato al tempio quattro anni prima con quel suo zainetto contenente lo stretto necessario, tutti lo accolsero a braccia aperte.
Era un giorno piovoso e lui, zuppo come un pulcino bagnato, piangeva, ma nessuno pareva essersene accorto; si sa, la pioggia cancella le lacrime: aveva scelto proprio un buon giorno per nascondere il suo dolore.
“Vorrei rendermi utile” disse incrociando lo sguardo con i monaci.
Essendo tutti di larghe vedute lo accolsero senza troppe domande; notarono che era fatto della loro stessa pasta, aveva percorso due chilometri a passo di montagna con una pioggia come non se ne vedeva da anni.
Che lo avesse fatto per infliggersi un’altra delle sue punizioni corporali? O forse mentre camminava tranquillamente per raggiungere la vetta della montagna era scoppiato un improvviso temporale? Aveva l’aria di chi ha fatto lo zaino in fretta, di chi è scappato dal proprio presente, trasformandolo in passato. Da quel giorno dedicò anima e corpo alla comunità.
Finite le otto ore di preghiera, ansimante andò a farsi un doccia senza neanche riscaldare l’acqua.
Prima di andare a letto guardò una foto, due occhi di donna lo guardavano, ma il resto del corpo non c’era.
Solo quegli occhi erano stati ritagliati, quasi a smaterializzare la figura umana, uno sguardo era più che sufficiente per ricordare. Ma ricordare chi? Cosa?
Si rannicchiò sotto le coperte guardando le iridi della ragazza, ci si perse dentro, fantasticando, ma il sorriso che si formò sulla sua bocca era evidentemente amaro.
L’espressione del piccolo monaco non era quella di un adolescente che fantastica sul primo amore, era l’espressione di un uomo ferito, ferito da un colpo mortale, non la semplice rottura di un legame, non la fine di una bella storia; c’era qualcosa di più.
Un orecchio attento avrebbe potuto decifrare i suoi borbottii mentre pregava, avrebbe potuto scoprire il motivo di quei colpi sul petto. Un orecchio attento avrebbe potuto capire che il piccolo monaco aveva una moglie in coma da quattro anni, avrebbe potuto capire che pregava, pregava e pregava soltanto per la salvezza della donna, per il suo risveglio e infine avrebbe potuto capire che tutti quei colpi furiosi erano uno sfogo verso la divinità, una richiesta silenziosa “Prendi me” diceva col cuore colmo di rabbia e disperazione.
Guardò per un’ultima volta la foto, chiuse gli occhi e si addormentò custodendo tutto questo dentro il suo involucro da essere umano.