Il grandioso scrittore italo-americano, amato anche da Bukowski, lascia un'opera che è una scia avventurosa e commovente.

Leggere John Fante è un bene, rileggerlo una benedizione. Era una sera di novembre e mi trovavo, dopo anni, a considerare di nuovo Fante, lui e la sua solita polvere, lui e le sue impermeabili speranze. La sfrontatezza e il disincantato menefreghismo di chi non ha più un soldo, solo progetti e sogni e chili di arance (Cfr. John Fante, Chiedi alla polvere). Arance a volontà e risvolti preoccupanti di mancanze di idee, qualche Ave Maria intonato nei momenti di tragicomiche difficoltà.

 

«Cara mamma, […]

Sono di nuovo al verde, e questa volta sono messo proprio male. Comunque non sono   

preoccupato. Attraversare questi giorni senza un soldo è roba vecchia per me.

Ci sono talmente abituato che non mi preoccupo più. […] In qualche maniera riesco a

procurarmi da mangiare a sazietà, un letto caldo, un posto per scrivere, e moltissimo

tempo per sognare. Che altro si può volere? Speranze. Sì, un uomo deve avere delle

speranze.» 

John Fante, lettera alla madre, 26 gennaio 1933, in Lettere. 1932-1981

 

Lo leggevo come una preghiera, lo recitavo a voce alta come un mantra, declamavo i suoi poetici vagheggiamenti e veneravo la sobria robustezza delle sue antiche e sagge parole, e del loro stare insieme in un architettonico progetto di composizione scenica, dentro alla vita.

 

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John Fante, l’autore del cult Chiedi alla polvere

 

Se c’è qualcosa che ha salvato John Fante dalle disonorevoli insensatezze dell’America del suo tempo, è stata la sua speranza, specialmente nella forma di forza di volontà che costantemente accompagna ogni sua opera, in maniera velata o mostrandosi direttamente per ciò che è. Una speranza candida che spesso si fa illusione boriosa e alta aspettativa, pur conservando sempre il suo carattere modesto di fondo, che alberga in ogni romanzo, lettera o semplice racconto dell’italoamericano.

 

In Chiedi alla polvere la speranza emerge in modo travolgente nel vuoto di un addio e nel silenzio di un deserto, quando nonostante John Fante fosse «pieno di dolore […]annaspavo nella polvere e mi sentivo prossimo a morire», «con tutta la forza che possedevo, gettai il libro nella direzione che lei aveva preso», un libro per colmare la distanza di un amore perduto. Non più la speranza di un ritorno, ma la consapevolezza di una cesura e la forza per andare avanti, che infine torna ad essere quello che era: speranza, un circolo vizioso in positivo. È una dinamica, questa, che muove la maggior parte delle opere di John Fante.

 

Andare avanti, ma andare dove? La risposta è semplice e mai banale: Los Angeles, la meta che più di ogni altro lo scrittore brama, l’unico posto in cui sempre John Fante vorrebbe essere. Bisognava andare, scrive spesso, «volevo sempre andarmene, o cambiare» (John Fante, La strada per Los Angeles), partire senza un soldo con smanie di successo. Da Denver, Colorado, la strada è tanta, ma non saranno i chilometri a fermare quello che è stato uno spirito inqueto e sovversivo, non è stata la miseria ad ostacolare la sua fiduciosa determinazione. Come scriveva in una lettera alla madre:

 

«ho finito tutti i soldi, ma non preoccuparti. Conoscerò della gente influente che mi sarà utile nel futuro, e il mio futuro sarà grande».

 

Il sogno americano si esprime in modo magistralmente personale in ogni opera dello scrittore, ma è un sogno che non brilla di luce propria, piuttosto si dimostra essere un amalgama di materia e gas col nucleo al collasso, una stella degenere spenta e fredda che si trascina filamenti di luce come ricordi. Rifrazioni del banale quotidiano che divengono frasi dense e struggenti, speranze corrotte ma sempre autentiche, presentate come possibili, realizzabili, attuabili in un futuro non molto lontano.

 

Un anno terribile

 Il primo libro che ho letto di John Fante, l’iniziai a giugno, nel caldo tepore del pomeriggio, una storia che poco si addiceva al giorno che rovente si prestava a finire. La vicenda era ambientata in Colorado, per la precisione a Denver, negli Stati Uniti Centrali; si apriva con una scena di lucida sopravvivenza espressa sotto forma di alta letteratura: Dominic Molise arrancava nella neve in quel terribile inverno del 1943. Un portato di malinconia e inesauribile coraggio, intriso di una forza d’animo che è in fondo la forza generatrice alla base di tutta l’opera di Fante: muove il suo modo di pensare, la volontà di resistere di fronte alle incombenze e davanti alle tragicità della vita. John Fante è soprattutto questo, e Un anno terribile, libro postumo e incompleto, è solo un frammento di un complesso ben più ampio.

 

È stato anno decisamente rigido, difficile, tremendo, quel 1943. Soprattutto ad «Arapahoe Street, ai piedi della prima collina che poi cresceva a formare il lato est delle Montagne Rocciose». La descrizione del Colorado di John Fante – «un  paese freddo, dal brutto carattere, il cui terreno era una lastra di ghiaccio per tutto aprile, con la neve la domenica di Pasqua, e a volte un’improvvisa tormenta a maggio» è molto vicina a quella della Beozia di Esiodo, che scriveva: «torrido d’estate, freddo d’inverno, mai buono» (Esiodo, Opere e giorni).

 

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La forza generatrice di Fante è la volontà di resistere di fronte alle incombenze e davanti alle tragicità della vita

 

È sotto un cielo traboccante neve sopra la terra gelata, che si compiono le imprese quotidiane di Dominic Molise, lui e il suo braccio sinistro ricoperto notte e giorno di Balsamo Sloan, effondendo odore di pino tutt’intorno. Il distillato di sogni dalla boccetta di unguento permea le giornate di Dominic, che vuole diventare il lanciatore di baseball migliore d’America, anzi, «il Mancino più Grande del Mondo», e scompagina la quotidianità di una casa immersa nel calore della stufa a legna, mentre da qualche stanza giunge il brusio di qualche Pater Noster recitato a bassa voce.

 

Un obiettivo da raggiungere, una betoniera prima da rubare e poi da rivendere: ma molte cose non andranno come previste, alcune sembreranno diverse da come poi si svilupperanno, altre non succederanno e basta. Comica e terribile nel bilanciamento più giusto: come andrà a finire non importa, ma quello che questa storia contiene, i residui del passato che trattiene – speranze, vanaglorie, sudore, dolore, peccato, fama, risate – sono quanto di più bello rimane, come impronte di scarponi sulla neve, della letteratura fantiana e dell’essenza della vita di uomo e scrittore.

«Coraggio, forza e preghiera» scrive John Fante in una lettera alla madre, in una alla moglie invece scriverà: «tesoro, qui è tutto una follia», entrambe calzano bene nel tracciare la natura più pura e autentica di questo indimenticabile romanzo. 

La saga di Arturo Bandini

«Volevo saltare, vivere, morire, volevo…dormire da sveglio in un sogno senza sogni. Che cose meravigliose. Che meravigliosa chiarezza. Stavo morendo, ero morto, ed ero immortale. Ero il cielo e non lo ero. C’era troppo da dire, e non c’era maniera di dirlo»

(John Fante, La strada per Los Angeles)

 

Arturo Bandini è l’eroe moderno di cui John Fante canta le gesta, ma è soprattutto l’autore sotto falso nome: ogni romanzo dell’americano si configura, in definitiva, come autobiografia. Ha scritto di sé stesso tutta la vita con l’accortezza di non farsi inghiottire dal vortice della letteratura, con distacco si è raccontato e con ferma obiettività si è riproposto come altro, pur restando quello che soleva essere. Come scrisse una volta a Mencken, il suo editore, «il libro non è più narrativa, ma fatti» (in riferimento a Full of Life).

 

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Il libro non è più narrativa ma fatti

 

Quanto affetto resta nel cuore per uno come Arturo, che tutti detesta e che tutti ama allo stesso tempo, che tutto vuole cambiare ma che riesce a mutare molto meno di quanto si prefigge nelle sue ossessioni. In pochi romanzi si trova espressa una forza d’animo del genere, in poche storie emerge la stessa ostinazione che viene fuori dalla macchina da scrivere di John Fante quando dà voce ad un giovane americano figlio di immigrati italiani. Quanta comicità, vicende, problemi, malinconia. Storie, strade e motel trasandati. Episodi oscillanti tra il ricordo del passato – con toni di rimpianto, ma un rimpianto che diviene nostalgia – e il presente che è l’America.

 

Quel passato, in tutta l’opera di John Fante, non è l’Italia, quel passato è l’Abruzzo. Elementi regionali trapiantati in Colorado tornano e ritornano come un flusso periodico di memorie e rievocazioni che prendono forma nella concretezza materiale del quotidiano, nel cibo, nel modo di vivere, nella maniera di pensare. Il mos maiorum da Torricella Peligna si rinsalda nella tradizione e nel ricordo.

 

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Torricella Peligna

 

Chiedi alla polvere

«È la storia di una ragazza che una volta amavo e che amava un altro che a sua volta la disprezzava. Strana storia di una bellissima ragazza messicana […] vagabonda per il deserto Mojave»

(John Fante, lettera alla cugina Jo Campiglia, 29 novembre 1938, in Lettere)

 

Provate a domandare alla polvere, chiedetele quello che ha visto: la polvere sa, la polvere vi risponderà. Arturo Bandini – «vuole sapere se io sono Arturo Bandini, e io le dico che lo sono – in particolare l’Arturo di Chiedi alla polvere» (lettera a Keith Baker, 6 novembre 1940) – in una stanza d’albergo a Bunker Hill, nel bel mezzo di Los Angeles, nel posto che sempre aveva sognato, ma senza un soldo.

 

Un promettente scrittore squattrinato nell’inferno del Middle West americano. Oltre ad essere completamente al verde è anche carente di idee per mettere su una storia decente e a tutto questo si aggiunge Cammilla Lopez, una cameriera messicana della quale lo scrittore s’innamorerà terribilmente. Ma lei amava un altro, per la precisione Sammy, il barista americano. La suddetta infatuazione aggiunge un problema in più al dramma quotidiano. In mezzo a tutto questo caotico disastro e frenetico bisogno di qualunque cosa che sia un briciolo d’amore o almeno qualche dollaro, s’instaurano tonnellate di polvere:

 

«polvere, vecchie case e vecchia gente seduta alle finestre, vecchi che uscivano traballando dalle porte, e che si trascinavano lungo le strade buie. […] vecchi che avevano divelto le loro radici negli ultimi giorni della vita, […] con la polvere di Chicago, di Cincinnati, di Cleveland sulle scarpe, condannati a morire al sole, e qualche dollaro in banca, abbastanza per […] tenere viva l’illusione che questo fosse il paradiso e che le loro casette di cartapesta fossero dei castelli».

 

In mezzo a così tanta polvere, che va ad innestarsi anche dentro alle ossa, al cuore e allo spirito di quella gente che viveva di illusione e miseria, c’è una donna che per un lasso di tempo definito ruberà l’anima al giovane Arturo pieno di speranze.

 

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John Fante ha creato Arturo Bandini come alter ego nei suoi libri

 

«Lei era una principessa maya e quello era il suo castello», e Arturo navigava in una specie di fluttuante e rara frenesia, un’ansietà ubriaca, che sarebbe diventata infatuazione folle e meravigliosa. Una vicenda impolverata, terribilmente triste, inquieta e nostalgica. Contiene qualche afflato beat: sbronze, marijuana, manicomi, ma mantiene la robustezza profonda dello stile fantiano. Attorno al senso di colpa e sulla volontà ferma nella ricerca di una qualche espiazione incombe la sabbia del Mojave che sommerge e inonda ogni cosa. Ma questo è anche il racconto senza redenzione basato su una storia vera. Anticonvenzionale, manchevole del “vissero tutti felici e contenti” finale, anche perché, solo qualcuno resterà vivo, dopotutto.

 

La strada per Los Angeles

«La strada per Los Angeles è finita e, ragazzi!, sono soddisfatto. La soddisfazione però è solo intermittente. Spesso ho degli attacchi di disperazione. […] Alcune cose faranno drizzare i capelli. Potrebbe essere troppo forte; ovvero, mancare di buon gusto. Ma ciò non mi disturba. Se la letteratura ha bisogno di sangue e dolore il suo appetito verrà saziato»

(John Fante, lettera a Carey McWilliams, 14 luglio 1936, in Lettere)

 

Nella Strada per Los Angeles Arturo Gabriel Bandini perde le staffe, dopo aver perso il padre, cosa che specifica in apertura, quando scrive «la nostra famiglia era povera e mio padre era morto». Probabilmente anche per questo motivo, a causa di questa incolmabile mancanza, l’opera, rispetto a tutte le altre, appare imperfetta, privata della bellezza pulita e irriverente delle altre, incompleta della figura paterna, anche solo come comparsa. Il fantasma di Svevo Bandini non c’è, il suo nome non compare, vittima di qualche oblio, di una sorta di damnatio memoriae ingiustificata.

 

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La casa del padre di Fante in Abruzzo

 

È il romanzo più infuriato, incollerito, sbeffeggiante nei confronti di tutto e tutti. Bandini non risparmia nessuno, ce l’ha col mondo intero. Il suo rancore è talmente forte, eccessivo, roboante che soffoca le speranze, perché è questo l’unico romanzo, e non solo della saga di Bandini, in cui la speranza si trasforma in boria ossessiva, arrogante e superba. Il disdegno, la presunzione più acuta sono le basi fondative dalle quali emerge una figura quasi irriconoscibile, sfigurata dal suo dolore, dalla sua amarezza, ma è anche il solito Bandini sarcastico, ironico, testardo, orgoglioso e graffiante nel suo acuto dileggio.

 

«Camminavo lungo la strada insieme con altri. Chiedevano passaggi agitando il pollice. […] Senza dignità. Ma io no, non Arturo Bandini con le sue gambe possenti. Non fa per lui lo scrocco. Che mi passino avanti. Che vadano a centocinquanta chilometri all’ora, che mi riempiano pure il naso dei loro scarichi. Un giorno sarà tutto diverso. […] Non me lo davano, un passaggio? Bene, e allora? Sapessi che me ne frega! Andate tutti all’inferno! Mi sta bene così. Amo camminare su queste gambe divine […] Come Nietzsche. Come Kant. Immanuel Kant. Che ne sapete voi di Immanuel Kant? Scemi voi e le vostre V8 e Chevrolet!»

 

Oltre alla componente speranza che tocca livelli vanagloriosi ed eccessivi, ma mantenendo sempre quel piglio di ironia – perché John Fante è cosciente di scrivere delle assurdità, è un suo modo per prendersi poco sul serio, per sdrammatizzare, per rendere il dolore più facilmente accettabile – un elemento di vocazione fantiana che si ripropone spesso è il disprezzo nei confronti del mondo: si legge in Sogni di Bunker Hill «’fanculo Los Angeles, ‘fanculo le tue palme, e le tue donne con i culi alti, e le tue strade alla moda, perché io me ne vado a casa, torno in Colorado, torno nella dannata migliore città degli Stati Uniti»; questo aristocratico sdegno radical chic, raggiunge esiti altissimi ne La strada per Los Angeles, dove viene tirata in ballo la filosofia occidentale, Nietzsche specialmente, quando a un certo punto dichiara: «sarò un superuomo», e riflettendoci bene, un po’ Übermensch ci è diventato, andando oltre quello che prevedeva il sistema letterario americano, valicando i limiti del contegno con briosa irriverenza.

 

 

Sogni di Bunker Hill

«Per favore, Dio, per favore, Knut Hamsun, non abbandonatemi adesso»

(John Fante, Sogni di Bunker Hill)

 

Importante non solo per quello che contiene, ma per la storia che ha avuto è Sogni di Bunker Hill, il racconto di una vicenda privata e la testimonianza autentica di un atto d’amore: John Fante, ormai cieco e senza gambe a causa del diabete, detta il romanzo alla moglie Joyce: «la mia vista è andata e passo una considerevole quantità di tempo a pensare a un altro romanzo». Anche Borges ad un certo punto della sua vita diventò cieco – «della magnifica ironia di Dio che mi dette tutt’in una volta i libri e la notte» – è questo, forse, il prezzo che i grandi devono pagare.

 

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John Fante, ormai cieco e senza gambe detta Sogni di Bunker Hill alla moglie 

 

È il 1934 e siamo a Los Angeles – per la precisione nell’incrocio fra la terza e Hill – la vista non è molto ampia, i soldi nemmeno, ma coraggiose ambizioni si fanno strada e vanno ad albergare in un punto dello spazio che è l’universo dove si sviluppa la vicenda di quel ventunenne che per sopravvivere faceva l’aiuto cameriere in una tavola calda, ma per vivere faceva lo scrittore.

 

«Avevo ventun anni, e per me il mondo era delimitato a ovest da Bunker Hill, a est da Los Angeles Street, a sud da Pershing Square e a nord da Civic Center».

 

L’universo spaziale che apre la storia progressivamente si dilata, per cui quello che era solo un limite, diventa il baricentro – cadente e malandato – del romanzo. Bunker Hill, dove tutto è intriso di fascino ed esistenze più misere ma autentiche, dove ogni elemento è «solitario, decrepito, pittoresco. […] dove le strade erano per metà coperte di sabbia, e le verande e le staccionate ondeggiavano sferzate dal vento», lì arde la vita e si mostra la morte. Lì si cerca disperatamente di scrivere qualcosa di buono, ma niente. Si scomoda – dalla Norvegia più fredda – Knut Hamsun, in una preghiera, senza risposta.

Ma nonostante tutto, Arturo Bandini riesce a trovare nei bassifondi di Los Angeles qualcosa che somiglia a sogni impolverati, una disincantata speranza nel terreno tragico di lutto e miseria.

 

 Arturo Bandini riesce a trovare nei bassifondi di Los Angeles qualcosa che somiglia a sogni impolverati, una disincantata speranza nel terreno tragico di lutto e miseria

Arturo Bandini riesce a trovare nei bassifondi di Los Angeles una disincantata speranza nel terreno tragico di lutto e miseria

 

Quello che è considerato il testamento dello scrittore di Denver, oscilla tra felicità travolgente e inesorabile tristezza, contiene scissioni interne che si confondono ed equilibrano tra Los Angeles e il Colorado, tra disprezzo e venerazione, tra pianti disperati e autentiche risate. Tutto sembra infine mescolarsi per andare a collocarsi a Bunker Hill, ma nulla, se non ricordi e parole dettate, resteranno di quei giorni, perché «Bunker Hill non era per sempre. Un uomo ha il dovere di andare avanti».

 

Full of Life

«Lasciò dietro di sé una scia di amore»

(John Fante, Full of Life)

 

Dopo le vicende di Bandini, ad un certo punto succede una cosa, un fatto naturale ma che ha il sapore di una grande novità: John Fante cresce, si innamora, si sposa e mette su famiglia. Siamo negli anni cinquanta e quello che è stato il giovane scanzonato che sognava Hollywood, sta per diventare padre. È uno dei libri – insieme a Chiedi alla polvere e Aspetta primavera, Bandini – che ha elevato Fante nell’Olimpo degli scrittori dell’America moderna, e anche se a quanto disse l’autore «Full of Life è stato scritto per soldi. Non è un romanzo molto bello» questa storia nonostante tutto il tempo e la polvere – è il caso di dirlo – che l’ha ricoperta, non ha conosciuto il briciolo di una svalutazione.

 

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Fante con il suo cane

 

Resta uno dei libri più belli e più terribilmente commoventi e straordinariamente autentici dell’italoamericano, impiantato su uno stile originale che fa perno su valori veri e antichi, memori di una saldezza remota, quasi espressione di una saggezza vetusta. Opera che a prescindere dalla modestia di come lo scrittore ne parlò, è carica di una freschezza intramontabile. Mediante un’ironia raffinata, con un afflato di puro sentimentalismo, senza cadere negli eccessi del patetico, si racconta la quotidianità della vita di coppia, gli ostacoli di una famiglia e il traballante amore coniugale alle prese con una gravidanza che ha tutto il sapore di una dichiarazione di guerra.

 

Le cose sono cambiate rispetto ai contrattempi del passato, ma questo non esenta il nuovo Bandini, che qui è semplicemente John, dai vecchi guai che tornano solamente sotto veste nuova. C’è un pancione che cresce giorno dopo giorno in mezzo a un uomo e una donna che un tempo si amavano, è un pallone pieno di vita ma che almeno fino al nono mese, comporta inconvenienti, uno di questi si chiama Nick Fante, che giunge per risolvere il dramma delle termiti che fanno traballare la struttura della casa e infuocanogli animi di chi ci sta dentro. Il fatto è che, come al solito, Nick farà di testa sua:

 

«– Papà, – dissi. – Quando aggiusterai il buco nel pavimento di cucina?

– Non è un lavoro per me, quello. Chiama un falegname».

 

La soluzione che si fa problema, il miraggio diventa misfatto, solo l’abbaglio di una chimera in mezzo all’inferno di una gestazione scomoda.  Joyce è scontrosa, detestabile, isterica, puritana. John è disperato, Nick è il solito vecchio insolente che confonde le carte. Tutto questo è raccontato in Full of Life, che è il libro forse più intimo, in cui vediamo un uomo che è padre, marito, scrittore “modesto” – «uscii in giardino davanti alla casa, mi fermai fra le rose e la guardai con soddisfazione. La ricompensa dell’autore. Io, l’autore, John Fante, scrittore di tre libri. Il primo aveva venduto 2300 copie. Il secondo 4800. Il terzo 2100» –  ma anche figlio, figlio di un uomo che ha amato e detestato al tempo stesso.

 

È in quest’opera che John Fante approfondisce il rapporto con il padre regalando al lettore uno squarcio di incolmabile bellezza, e abbondante di momenti ironici – come quando Nick, dopo essersi rifiutato di prendere un aereo e obbligando anche John al viaggio in treno, per il viaggio indossa «uno strano assortimento di cose: una tuta blu con la pettorina, una camicia nera con la cravatta bianca, e una giacca a doppio petto marrone», non si stenta allora a credere che quel viaggio in treno fu veramente un incubo. Ma a quest’ironia di fondo si affiancano gli attimi in cui la presenza bonaria del vecchio abruzzese diventa essenziale: «l’assenza di papà creava una lacuna che si poteva avvertire perfettamente».

 

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John Fante tra ironia e malinconia

 

Letteralmente “pieno di vita”, era così il pancione di Joyce quando aspettava il loro bambino. Succedono cose impensabili, il vecchio muratore porta a casa dello scrittore un’ondata di affettuosa follia, progetti, prese di posizione, russare nella notte: si creano schieramenti causati dalla distruzione superflua e la ricostruzione di un camino, che destabilizza i rapporti di convivenza civile in quella casa in rotta di collisione; emerge una duplice intesa che si scontra con lo scrittore solo in trincea: un muro ampio come l’abisso di qualche faglia non ancora conosciuta, che conduce quasi alla catastrofe, il rapporto di coppia tra Joyce e John rasenta il collasso con alti accenti di seccato umorismo: «sembravano due idioti. Joyce con un martello, papà invece brandendo un palanchino, stavano eliminando la vernice dai mattoni». Nel momento in cui ogni cosa precipita e implode, succede che ciò che era full of life, si svuota di quella vita che conteneva e tutto sarà diverso, ma in un modo migliore.

 

«C’erano stelle nei suoi capelli, stelle nei suoi occhi che, bagnati di pianto fino a un minuto prima, brillavano ora di felicità piena».

 

Torna la pace. Fine.

 

La confraternita dell’uva

John Fante ha avuto sempre uno stretto rapporto con sua madre, lo si evince soprattutto nelle Lettere, dalle quali emerge un affettuosità profonda nei confronti di quella donna che «amava svenire. Lo faceva con grande maestria» e «amava anche morire. Una volta o due l’anno, in special modo a Natale, arrivarono i telegrammi annunciando che la mamma stava di nuovo morendo. […] Moriva per un paio d’ore, […] Poi improvvisamente si sentiva meglio, si levava dal letto di morte, e preparava per cena una enorme quantità di ravioli». Tuttavia, è la figura paterna quella a cui lo scrittore è particolarmente legato e in modo molto profondo, non a caso l’opera omnia dell’italoamericano è tutta impostata sul rapporto burrascoso col muratore di Torricella Peligna, emigrato, ubriacone, adultero, ma sempre suo padre.

 

«I miei migliori sforzi in tutti i libri che ho scritto sono stati diretti verso mio padre, i suoi problemi, i suoi fallimenti e i suoi successi. La sua morte tre anni fa ha lasciato una profonda ferita nel cuore che non scomparirà mai. Lui è nei miei pensieri tutto il tempo, e voglio scrivere un libro sui suoi ultimi giorni».

 

Ne La confraternita dell’uva si chiudono i conti. Nick muore, ma lo fa in modo drammatico, rocambolesco, al limite dell’eccesso così come ha vissuto. Coerente fino alla fine, senza lasciare il briciolo di alcuna disambiguazione. Nick Molise, il Peter Molise di Un anno terribile, lo Svevo Bandini di Aspetta primavera Bandini è sempre stata la stessa persona, se non di nome, di fatto. Se fosse rimasto in Abruzzo l’avrebbero chiamato semplicemente Nicola.

 

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Fante ha sempre avuto uno stretto rapporto con la madre

 

Ma la verità è che era stufo di starsene a morire in mezzo a quelle fredde montagne dove ancora oggi resiste alle intemperie la casa che lasciò svuotata di memorie e caricata di tempo, a Torricella Peligna: resta l’anima di pietra fragile nella sua grandezza e miracolata nello stare ancora in piedi, medio-grande con un tetto ancora, finestre al cielo e porta assente. Erbacce intorno. Nonostante fosse un gran lavoratore, una persona umile, estremamente testarda, malinconica e gentile, il padre di John Fante aveva un vizio, veramente più di uno, era un uomo dalle passioni smodate e amava le donne e il vino. Quando finiva di costruire le sue case, i suoi camini, le mura e i tetti sotto un cielo a stelle e strisce, si dirigeva all’Abruzzi Café «dove giocava a peppa e a pinnacolo, beveva troppo e fumava troppo» perché «è meglio morire di bevute che morire di sete».

 

Alla fine Nick muore di emorragia cerebrale, una cosa rapida e indolore, non avrebbe potuto desiderare morte migliore. Nella realtà «morì tranquillamente, probabilmente di noia, mentre faceva un pisolino sul dondolo sotto il fico nel giardino dietro casa».

 

«Era un montanaro venuto dall’Abruzzo, un nasone dalle mani grosse, basso (uno e sessanta), largo come una porta, nato in una parte d’Italia in cui la miseria era spettacolare quanto i ghiacciai circostanti e dove qualunque bambino che fosse riuscito a sopravvivere per i primi cinque anni ne avrebbe campati ottantacinque. […] Non gli piaceva quasi niente, in modo particolare sua moglie, i suoi figli, i vicini, la chiesa, il prete, la città, lo stato, il suo paese e il paese dal quale era emigrato. Né gli importava un fico secco del mondo intero, né del cielo né delle stelle o dell’universo, né del paradiso né dell’inferno».

 

In questo libro si ride e si piange e Nick Fante, alla fine, resta dentro al cuore.

«Un po’ si vince, un po’ si perde», dirà ad un certo punto lo scapestrato padre: la vita è proprio questa, qualche gioia in mezzo alle ferite. Onore alla filosofia del muratore.

 

Aspetta primavera, Bandini

«Giornate infinite, giornate tristi», il mantra che muove quest’opera.

(John Fante, Aspetta primavera, Bandini)

 

Ancora la neve, inizia così quella che è la prima opera di John Fante, con un uomo nella tempesta con le scarpe sfondate: suo padre, un muratore abruzzese, Svevo Bandini.

Era giunto in America con la speranza di un dolce tepore come l’abbraccio di una bella donna, e invece ritrova la neve. Da Torricella Peligna al Colorado, un continente diverso, e il clima lo stesso; ha ragione il vecchio Bandini a prendersela un po’ con tutto e tutti, con Dio, con la vita, con la miseria, ha ragione a bere vino e imprecare, anche se invano.

 

Nella prefazione un vecchio Fante in una scrittura vibrante di commozione e carica di memorie passate avverte il lettore che «tutta la gente della mia vita di scrittore, tutti i miei personaggi si ritrovano in questa mia prima opera. Di me non c’è più niente, solo il ricordo di vecchie camere da letto, e il ciabattare di mia madre verso la cucina». Probabilmente, gli anni che erano passati dall’uscita del romanzo, gravavano eccessivi sulla memoria dello scrittore, che percepiva il divario come dilatato, molto più ampio di quello era stato, come se questa fosse «una storia circondata da un alone di sogno».

 

È un romanzo scritto in terza persona, e presumibilmente anche per questo motivo John Fante lo sente altro, lontano. L’italoamericano ha sempre rifuggito la terza persona: Chiedi alla polvere, La confraternita dell’uva, La strada per Los Angeles, Sogni di Bunker Hill, Full of Life, Un anno terribile, sono tutti in prima persona, e quasi sempre Fante apre da protagonista la scena. In questo caso la storia comincia con un personaggio che non è nessuno degli alter ego dello scrittore.

 

Qui nella neve arranca Svevo Bandini, il capofamiglia, Nick Fante, e come in un sistema vorticoso, tutto, a partire dai fiocchi di neve, dipende e ruota attorno a lui, gli altri sono protagonisti secondari, se non sbiadite comparse. L’ombra del muratore, la sua incolmabile assenza che ferma una famiglia nell’attesa di un ritorno che si fa sempre meno credibile.

 

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Aspetta primavera,Bandini è il primo libro di Fante in terza persona

 

Giorni infausti, giorni freddi, nevica e Bandini è perduto, da qualche parte, «niente Bandini, niente soldi, niente cibo». Tornerà a casa, dopo dieci giorni, la Vigilia di Natale: il peccato dell’uomo e la redenzione di quella notte santa. La colpa e il perdono, menzogne, sfrontate falsità. Per essere Svevo Bandini ci vuole troppo coraggio, un ardimento degno di pochi squinternati. Un romanzo familiare che sta in piedi grazie alla competente narrazione di quello che per una volta non ne è protagonista, ma che racconta, con sdegno, ironia e amore, suo padre.

 

Chiamateli come volete: Bandini e Molise sono solo alternative in mezzo alla polvere di un nome che emerge dalle crepe dell’asfalto ferito, quel nome è John Fante. Scegliere proprio lui in mezzo alle tante possibilità che la letteratura mondiale ogni giorno propone, per una ragione: ha vissuto per raccontare sé stesso, ma ha raccontato tramite il suo genio, le scissioni, i dolori, il pianto, le piccole gioie terrene, le speranze, di tutta l’umanità: lo ha fatto tramite una letteratura che non è stata strumentalizzata, per cui è in grado non tanto di fornire risposte o spiegazioni, quanto di aprirci strade migliori, nuove possibilità.

 

È una difficile impresa raccontare una storia – la storia di un’esistenza romanzata ad altissimo contenuto autobiografico – che sia allo stesso tempo disincantata e profonda; lo scrittore di Denver ci è riuscito, per il solo fatto di averci creduto, per il solo fatto di aver capito che «la vita è un palcoscenico. E qua è un dramma».

 

Grande per aver trovato una degna soluzione: la scrittura. Immenso per essere stato capace di comprendere, convivere, riplasmare la drammaticità della vita, per concludere, infine, «mi sentivo come una frenesia: un delirio d’impossibile felicità».

 

«Be’, sono senza rimpianti, come avrebbe detto Čhecov»

John Fante muore al Motion Picture Hospital di Los Angeles nel 1983, l’8 maggio; era nato l’8 aprile 1909 a Denver, Colorado, da italiani emigrati, il padre era abruzzese, di Torricella Peligna, la madre, Maria Capoluongo, di origini lucane, ma nata a Chicago.

Il successo che ha sempre sperato in vita, è stato tardivo, ma intenso. Oggi se ne vedono gli strascichi come bagliori acuti e meravigliosi.

 

In una lettera del 1940, indirizzata ad un certo Keith Baker, scriveva:

 

«questo mondo è un mondo buono, mi rifiuto di lasciarmi andare alla depressione. Amo tutto: il bene e il male, la morte e la vita, la malattia e la salute, l’inizio e la fine, la primavera e l’inverno».

 

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