Debenedetti scandaglia molecola per molecola i costitutivi dell'elemento umano del romanzo, da quello tradizionale alla modernità del Nouveau Roman.

Precursore di un’interpretazione multidisciplinare del testo, stimato critico e professore universitario – l’allievo Walter Pedullà ne offre un commosso ritratto tra le cattedre dell’Università di Messina  – nonché amico sincero degli artisti di punta dell’Italia del primo Novecento, Giacomo Debenedetti ha contribuito come pochi altri a svecchiare le pratiche di studio della critica letteraria italiana in una fase in cui era ancora sterilmente incatenata ad un conservatorismo cieco ai nuovi approcci di ricerca.

 

Con interventi scritti, lezioni pubbliche e consigli amorevolmente rivolti a studenti entusiasti, Debenedetti ha saputo rinnovare l’atteggiamento metodologico che un ricercatore coscienzioso ed ambizioso è tenuto ad assumere nella verifica sperimentale di un’ipotesi.

 

Sembra ormai maturo il tempo per allestire un esperimento tutto debenedettiano con il quale testare la validità delle procedure d’analisi strenuamente patrocinate dal critico biellese. Adoperando quest’ultime come espedienti esegetici per il più completo testamento spirituale del Debenedetti saggista, il brillante saggio-conversazione Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo (1967), si potranno pertanto tributare i giusti meriti alla memoria del «primo critico letterario italiano», come lo definì un altro gigante del secolo passato quale fu Gianfranco Contini.

 

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Giacomo Debenedetti

 

Giacomo Debenedetti matura l’eventualità di redazione del saggio nel 1965 a conclusione di una tavola rotonda indetta dalla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia che apparve agli occhi del critico una sintesi controllata dei rivolgimenti culturali di quegli anni. A quel tempo eravamo nel pieno della rivoluzione letteraria europea che sconvolse fortemente gli assetti del romanzo tradizionale. A guidarla fu il movimento delle neoavanguardie, molto più politicizzate rispetto alle avanguardie storiche di primo Novecento, che fecero del discorso letterario un’arma poco convenzionale per lo scontro politico. Il farraginoso sconvolgimento culturale è complicato ulteriormente dal contatto delle neoavanguardie con lo strutturalismo francese che incoraggiava un’azione da esercitarsi soprattutto sulle strutture formali del testo, comportando conseguenze notevoli anche a livello contenutistico.

 

La risultante di un simile macchinoso processo di aggregazione è la nascita di nuovi gruppi e movimenti di intellettuali, come quello raccoltosi intorno alla rivista Tel Quel nella Francia degli anni ’60, che avrà come traduzione espressiva il Nouveau Roman giocato tutto sull’écoleduregard: l’autore comunica ciò che vuole narrare non più attraverso un normale dispiegarsi dei fatti regolato da princìpi ben collaudati, ma si serve di un occhio neutro – non naturalistico – che osserva le cose quali si determinano. Tale condotta letteraria è assunta poiché lo scrittore ha la consapevolezza di non aver più nulla da dire in quanto completamente ammutolito dal neocapitalismo dilagante che ha inaugurato, accanto ad un falso equanime benessere, asperità di omologazione e un appiattimento del discorso culturale.

 

E la letteratura risponde mettendo in scena l’annichilimento dell’individuo. Una scelta così epocale non sarà circoscritta alla sola area francese. Districandosi tra complesse turbolenze nazionali, a Monaco di Baviera vede la luce il Gruppo 47, il cui maggior esponente sarà il futuro premio Nobel per la letteratura Günter Grass. Il vessillo del blocco tedesco è il neo-sperimentalismo mirante alla dissolvenza o alla modifica profonda della natura delle strutture narrative in nome di un disordine sincretico considerato come risposta diretta al falso ordine capitalistico.

 

Infine, nella Palermo di metà anni ’60, si formalizzerà il Gruppo 63, forse il più politicizzato di tutti. Tra i suoi interpreti, da Balestrini a Sanguineti o Eco, serpeggia fin da subito l’intenzione di promuovere un’azione sulla letteratura che corrisponda ad un’azione sulla storia. Deponendo volontariamente richiami frammentari, Balestrini dichiara che compito della letteratura è sventrare il linguaggio, alludendo allo sventramento della storia, del consumismo.

 

Giacomo Debenedetti inspira a pieni polmoni gli effluvi emanati da tali intenti di mutazione storico-culturale e, metabolizzate le innovazioni, espira con ritmo cadenzato nella composizione del suo saggio.

 

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Giacomo Debenedetti (al centro) con Giacinto Spagnoletti, Niccolò Gallo, Emilio Cecchi e Geno Pampaloni

 

C’è stato un momento nel percorso di formazione della letteratura d’Occidente, neanche troppo distante dai giorni d’oggi, nel quale sembrava che alcuni dei presupposti che rendevano meritevole il fare letteratura fossero destinati alla dissolvenza. Si tratta di due facoltà interdipendenti che avvalorano il processo letterario: la rappresentatività universale, ossia la possibilità di immedesimazione che la narrazione concede al lettore, e la sua compromissione emotiva, conseguenza di tale rispecchiamento identitario, riassunta nell’eventualità di farlo emozionare, con i personaggi, alla lettura delle loro vicende. Privando la letteratura delle suddette facoltà, si sarebbe corso il rischio di un appiattimento di forma e contenuto, sfiorando una preoccupante neutralità, un «grado zero» parafrasando il miglior Barthes de Le degrézéro de l’écriture (1953).

 

Seppur tutto ciò sia stato scongiurato, il pericolo riscontrato ha scosso i teorici della letteratura al punto da spingerli alla formulazione di nuove prospettive di ricerca che indagassero ancor più in profondità i meccanismi di funzionamento letterari nella speranza di prevenire futuri attacchi alla canonicità narrativa. Tra i lungimiranti tecnocrati della critica nostrana si registra anche Giacomo Debenedetti. Come se stesse dirigendo una solenne tragicommedia, coinvolgendo atipici attori letterari quali il personaggio-uomo e il personaggio-particella, Debenedetti riesce a dimostrare che la letteratura aveva ancora molto da dire.

 

Una mutazione sociale e una nuova percezione psichica sono i sintagmi di un’operazione il cui prodotto è la perdita della compattezza dell’identità dell’individuo, che non si riconosce più unitario ma si scopre risultante di un assemblaggio che non controlla. L’inconscio si mette a disturbare l’Io conscio, a farsi sentire come l’Altro dentro l’Io, rendendo l’uomo malato. E un uomo malato nel produrre una qualsiasi forma d’arte non può esimersi dal generarla essa stessa malata o, con una proiezione ottimistica, limitarsi alla rappresentazione dei sintomi del suo malessere. La narrativa tanto scandagliata da Debenedetti, la casa dell’aberrante personaggio-particella, è proprio quella tinteggiata con vernice evanescente che lascia intravedere i movimenti interni di chi abita lo stabile, i movimenti dell’Altro dentro l’Io.

 

La scoperta della dualità tra Io e Altro entro la personalità apparentemente unitaria dell’uomo è toccata alla psichiatria. L’arte, la letteratura arriveranno con netto margine di ritardo poiché il prodotto artistico era ancora vincolato alla mnesi platonica.

 

Il più ovvio e appariscente segnale della presenza di un personaggio nuovo, di un quasi anti-personaggio, è la deturpazione estetica e caratteriale dei protagonisti del romanzo tradizionale. La fantasia di Giacomo Debenedetti è tanto lodevole quanto esplicativa nel parlare di un’«invasione vittoriosa dei brutti». La presenza di una bruttezza priva di sbocchi catartici è un criterio inconfutabile di diversificazione tra una narrativa prettamente naturalistica e tutto quello che ad essa segue. Possono così comprendersi, contestualizzandole nell’ambito loro più congeniale, frasi altrimenti ambigue come le battute che aprono il pirandelliano Quaderni di Serafino Gubbio operatore (1916) che appaiono come un monito nel ricordarci che «C’è un oltre in tutto». È proprio l’Oltre, accezione dal contorno decisamente più futuristico rispetto al collaudato Altro, che operando dall’interno corrode i lineamenti esterni dell’uomo e della sua controfigura letteraria.

 

Indugiando su osservazioni sociologiche e psichiche Debenedetti vuol far notare come si cominci a sviluppare un andamento della coscienza umana che non corre più squisitamente su carreggiate orizzontali ma che sempre di più predilige un dilatarsi verticale. D’altronde, proprio nel romanzo novecentesco è imprescindibile l’esigenza di epifanizzare un Oltre.

 

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Giacomo Debenedetti al Premio Viareggio del 1948

 

Giacomo Debenedetti non nutre alcun dubbio nel tributare a Joyce e Proust – se è accennato l’«esplodere verso» di Sartre, stupisce il silenzio sul Dostoevskij delle Memorie dal sottosuolo (1864), comunque citato in più occasioni nel postumo Il romanzo del Novecento (1971-72) – il merito di aver agevolato lo schiudersi in senso verticalistico del romanzo novecentesco in Europa. I due erano così immersi in una poetica di cambiamento da teorizzare una struttura del romanzo basata su un disoccultamento di un mondo nascosto. La si qualifichi «epifania» joyciana o «intermittenza del cuore» proustiana, finalmente l’autore vede oltre il fenomenico e cerca di imprimere su carta un’improvvisa manifestazione spirituale degna di essere ricordata (un parallelo poetico saranno Le occasioni montaliane del 1939). Pertanto, lo schiudersi dell’orologio della dogana di Dublino nell’Ulisse o la madelaine della Recherche che inzuppata rievoca rimembranze fanciullesche, non sono trascurabili eventi contenutistici, giacché la muta presenza di una dimensione in attesa di svelamento – postulato della poetica delle epifanie/intermittenze del cuore – è proprio la matrice inaugurale del romanzo Novecentesco.

 

Mentre un romanziere del XIX secolo inseriva un oggetto nel tessuto connettivo del testo solamente se questo contribuiva funzionalmente alla costruzione della vicenda narrata, da Joyce e Proust in poi vi è un ribaltarsi dei meccanismi di selezione degli agenti da rappresentare. Anche gli oggetti che parlano un idioma che non si connette con la ricorrente lingua d’uso in superficie del romanzo troveranno spazio narrativo. Anzi, proprio le entità insignificanti saranno le prime e spesso uniche a manifestarsi nella loro chiarezza intima – la claritas o quidditas evocata da Debenedetti – perché epifanizzandosi eserciteranno l’unica forma d’attrattiva possibile che la loro marginale inutilità non avrebbe esternato. A risentirne comprensibilmente è l’architettura narrativa, ma soprattutto chi la vive dal didentro.

 

Chi la vive è proprio il personaggio-uomo di matrice debenedettiana, del quale ora è necessario fare la conoscenza. Se l’incontro avvenisse in momenti difformi coinvolgendo persone diverse, nell’istante in cui si sarebbe costretti a tirar le somme non ci si metterebbe d’accordo nel tracciare un identikit unico dell’osservato speciale, dato che ogni proposta avanzata sarà di per sé validissima. Ognuno vedrebbe nel volto di quel personaggio dei tratti già incontrati e reali: il Don Abondio di Manzoni, il Mastro Don Gesualdo di Verga, il Papà Goriot di Balzac o un’altra miriade di persone. Discernerne il viso tra molti dipenderà totalmente dal rapporto avuto con loro, dall’aver letto il romanzo delle loro gesta. L’identificazione è possibile poiché i personaggi sono custodi di un’infinitesimale parte della vita di noi lettori. L’avergli donato un pezzetto di noi stessi ci consente il diritto di vivere accanto, o in sostituzione, le vicende dell’intreccio narrativo che sperimentano.

 

Il personaggio-uomo è allora il personaggio che con i suoi lineamenti riproduce alcuni aspetti dell’essere uomo e che riuscirà a coinvolgere in ciò che rappresenta chiunque gli si accosti. Lukács, critico marxista contemporaneo di Debenedetti, lo avrebbe definito «tipico» elogiandone l’abilità di incarnare delle caratteristiche più o meno eterne dell’umanità. Inoltre, nell’adempiere ad un’onorevole funzione mitopoietica, il suo ricordo non si esaurirà con la fine della narrazione, ma accompagnerà il lettore per tutto l’arco della vita. Potrà persino rimanere sopito per anni sotto una coltre di disordinati pensieri, ma nel momento di richiesta si materializzerà prontamente come tramite di paragone di una data condizione umana.

 

Ma i supporter del nostro personaggio-uomo faranno bene a prepararsi al peggio, tuona preventivamente Debenedetti. Il passo verso il personaggio-particella non è distante dal compiersi poiché i narratori novecenteschi «hanno rotto il giogo del racconto consequenziale azionato dagli ingranaggi di causa ed effetto». Qui inizia il mirabolante parallelismo tra la letteratura e la fisica subatomica che innerva il cuore del saggio debenedettiano. Allusa è l’opposizione tra la teoria della relatività di Einstein e il principio di indeterminazione di Heisenberg.

 

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Venezia 1948 – Da sinistra: Alberto Rossi, Renata Debenedetti, Carlo Bo, Giacomo Debenedetti

 

Se per il fisico di Ulma esisteva la possibilità di determinare in modo inequivocabile il funzionamento delle particelle atomiche, per Heisenberg nella fisica delle particelle la presenza dell’osservatore modifica inevitabilmente il quadro in cui l’esperimento avviene inficiando perciò la possibilità di eseguirlo con procedure perfettamente attendibili. Dal meccanicismo della fisica tradizionale, per il quale ad una causa corrispondeva sempre lo stesso noto effetto, si giunge così al probabilismo della meccanica quantistica: è probabile che un determinato esperimento conduca ad un diretto risultato, ma non è certo che ciò avvenga.

 

Il punto d’attrito tra questa episteme e il discorso letterario è decretato quando il probabilismo arriva ad influenzare la progettualità romanzesca. Giacomo Debenedetti intravede nuovamente nella narrativa di Joyce e Proust materiali consoni ad autenticare le sue ipotesi. Come il fisico teorico ignora il momento in cui esploderà il nucleo di un atomo ma è consapevole della possibilità che ciò possa accadere, ugualmente Proust o Joyce non conoscono l’esatto momento in cui avverranno le aperture di un mondo archetipico, ma entrambi sono fiduciosi che in un dato istante scatterà la memoria involontaria. I romanzi che accolgono tali presupposti sono del tutto nuovi perché un romanzo tradizionale è come la fisica ortodossa che procede per cause ed effetti. Qui invece si ha tra le mani una forma di anti-romanzo.

 

Converrà riferirci a questo prodotto col nome più confacente con il quale era solito presentarsi a schiere di lettori dai gusti progressisti e poco avvezzi al consueto. È il Nouveau Roman sotto la cui egida si rinnegano il personaggio e le vicende tradizionali e ci si concentra sull’emergere della realtà percepita adottando le regole teoriche codificate dall’écoleduregard. Il Nouveau Roman si rifiuta di occuparsi dell’inconscio che serbava tacitamente gli «atomi figurali» che, adottando le linee interpretative di Auerbach, rendevano un personaggio narrativo portatore sano di una condizione universale. Al contrario, si assiste ora alla nascita del «gemello malefico» del personaggio-uomo, che per un tratto lo rimpiazzerà con la pretesa di scalzarlo nell’apprezzamento tra il pubblico leggente. Per una finta omologia chimica al suo parente prossimo, Debenedetti lo battezza appunto «personaggio-particella».

 

Debenedetti ricama i lineamenti del personaggio-particella invertendo la polarità di quelli del personaggio-uomo. Suo primo attributo è il rimanere categoricamente escluso da ogni scambio intersoggettivo, come risulta dai suoi dialoghi falotici, fatti di battute talmente stereotipate da sembrar essere riciclate da un pessimo manuale di conversazione. Il personaggio-particella vive la sua esistenza quasi senza accorgersene, in una forma di robotizzazione dell’essere che implementa esponenzialmente un disaggio non metabolizzato e che lo induce a suggerire una condizione di malessere che intimamente non sta realmente provando. Il mancato combaciare tra il reale status emotivo e quello di facciata ha come conseguenza la famosa incomunicabilità del personaggio-particella di cui sopra. Gli atti che compie sono insignificanti, non trasmettono alcun tipo di senso. Pertanto, inversamente al personaggio-uomo, il personaggio-particella durerà quanto la lettura del romanzo: oltre quel limite di tempo «egli cessa, non solo di agire, ma di esistere». Ricorrendo ad una heideggeriana e sempre valida definizione esistenzialista, lo si potrebbe additare come essere «inautentico».

 

Con il personaggio-particella è allora in atto un processo parodico del personaggio tradizionale. La parodia è un’operazione fondamentale per la critica letteraria del Novecento – Bachtin ne ha scritto pagine memorabili su Rabelais – poiché il capovolgimento parodico segna l’atto conclusivo del ciclo vitale di un mito o di un genere letterario. In tal caso, però, Debenedetti puntualizza che la parodia è «involontaria e inconsapevole». Per cui, se il Nouveau Roman parodiando il romanzo tradizionale ne avrebbe dovuto segnare la fine, non vi riesce perché presiede una parodia non voluta.

 

L’ignara, non istintiva e inefficiente parodia del romanzo tradizionale è al contrario un pauroso segnale d’allarme preannunciato da un perentorio avvertimento: non resta più molto da vivere al personaggio-particella. Si vedano su tutte le «distrazioni» volute da Robbe-Grillet, stabilmente posto allo zenit tra i congressisti dell’écoleduregard. Costui inserisce nei suoi testi delle parabole donatrici di senso a personaggi e oggetti. Fin qui, il personaggio-particella non aveva ancora rischiato così tanto la propria incolumità. Donare un senso alle sue azioni e ai suoi crucci significa attingere al grande lavatoio delle virtù umane, l’accesso al quale non era sbarrato solamente a chi stilava le vicissitudini del personaggio-uomo.

 

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Giacomo Debenedetti e Alberto Mondadori in una foto del 1963

 

Nella casistica dei romanzieri italiani è Moravia ad infliggere il colpo mortale al personaggio-particella. Secondo Giacomo Debenedetti il Moravia degli anni ’60 dimostra che gli espedienti di produzione dell’anti-romanzo, se portati ad un ragionevole grado di funzionalità, rivelano un risultato antitetico a quello di partenza, traducendo il prodotto originato in un romanzo tradizionale. Moravia prende come cavia il personaggio-particella e vi inocula in dosi pressoché mortifere dei vizi umani: l’apatia nel Dino de La Noia (1960) o la disattenzione nel Merighi de L’attenzione (1965). L’identificazione dell’appestato con la peste sembra totale, senonché è lasciata in loro una miracolosa possibilità: non solo i personaggi vengono nuovamente dotati di un carattere umano, ma sdoppiandosi senza però scindersi, riescono a vedere dal di fuori, descrivendola, la loro malattia. Esprimere lucidamente il male che hanno dentro è il suggellare la riacquisita identità di personaggi tradizionali, poiché la struttura compositiva del personaggio-particella impediva tassativamente il possesso di un’autocoscienza. La possibilità di sdoppiare il proprio Io, di guardarsi e analizzarsi, è forse il primo attributo di legittimazione dell’appartenenza alla delegazione del personaggio-uomo dall’Achille omerico in poi.

 

L’associare una qualità propria del personaggio tradizionale al personaggio-particella, autorizza a decretarlo deceduto, se non nel fisico, certamente nella padronanza delle competenze cerebrali.

 

Tutto si risolve con una risanata fiducia nella consapevolezza che, accanto ad un’arcadia dell’anti-personaggio, neanche un reiterato ricorso alla più classica damnatio memoriae potrà arrugginire il ricordo di un umanissimo e universalistico argonauta letterario come quel personaggio-uomo che ci è accanto fin dalla nascita della scrittura. Giacomo Debenedetti «intende dimostrare che non si fa narrativa con personaggi privi di spessore psicologico» e per quanto possano essere rivoluzionari i progetti letterari, nessuno potrà realizzarsi con l’esclusione dell’uomo, inevitabile abitante del romanzo. «E allora, a chi votarsi se non al vecchio, ma ancora vegeto, solerte, servizievole personaggio-uomo?»

 

* Tutte le foto sono tratte dal testo: Giacomo Debenedetti, Cesare Garboli (a cura di), Milano, Il Saggiatore, 1968.

 

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