L'ultima parte del racconto La puttana dagli occhi tristi. Tokyo, i Soineya, club dove si dorme insieme e un protagonista sconsolato.

“Come ti chiami?” le chiesi continuandola a guardare nei suoi occhi tristi.

“…”.
“Di poche parole, eh!?”.
“…”.
“Da quanto lavori allo Yume?”.
“…” grattandosi una spalla.
“Di cosa hai paura? Io non posso farti del male…”.
“…”.
“Sono diverso dai depravati che sei solita vedere. Dammi un po’ di soddisfazione”.
“…”.
“Come mai ti fai maltrattare in quel modo? Potresti avere il mondo ai tuoi piedi…sei di una bellezza imbarazzante per il genere umano…e di donne ne ho viste, sai!?”.
“…” accennando un mezzo sorriso.
Ormai ero quasi sobrio, e più scendeva la sbronza più aumentava il desiderio di conoscere quella ragazza misteriosa. Volevo sapere tutto di lei e per la prima volta, dopo anni, iniziai di nuovo a provare interesse per qualcosa di reale e tangibile, qualcosa di sano fatto di carne e sentimenti.
“Dato che non vuoi parlare, allora inizio io. Ti avverto, so essere logorroico”.
“…”.
“Vivo a Tokyo da circa un anno. Non ho amici, né una donna, né un cane. Sono scappato da Parigi, da tutta quell’ipocrisia, dagli sguardi della gente, ma soprattutto sono scappato da lei…”.
“…”.
“Facevo il regista…parlo al passato perché quello è un mondo che non mi appartiene più. Un mondo che non potrò mai riacciuffare. Ho sbagliato il secondo film, e nel cinema chi sbaglia paga. Mi hanno definito pretenzioso e barocco. Ma io mi chiedo: come si può classificare un essere umano con due sole parole? Ci vorrebbero centinaia di pagine per descrivere bene una persona, ed io sono stato liquidato con due brevi parole scritte da un critico illustre. Ho fatto perdere diversi soldi al mio produttore…e ne ho persi anche io. Sono stato due anni senza lavorare consumando soldi e amore”.
“…”.
“Il mio matrimonio si è disintegrato così velocemente da non lasciarmi nemmeno il tempo di accorgermene, di poter far qualcosa per salvare quel faro di luce in mezzo al grigiore del quotidiano. Mia moglie era perfetta, ma non perfetta nel senso assoluto del termine…era perfetta per me. Ti è mai capitato di trovare una persona che ti abbia arricchito anche con un semplice sbadiglio?”.
“…”.
“Non so neanche se mi stai ascoltando o se stai pensando ai fatti tuoi. La tua parcella è più alta di quella di uno psicologo, ma loro almeno mi ascoltano…o comunque ci provano”.
“…”.
“Ho fatto in modo che mi lasciasse, ma questo lei non lo saprà mai. Ero entrato in un vortice di depressione, uno di quelli in cui l’unico spiraglio di luce al mattino è sapere che la notte arriverà presto per potersi tuffare di nuovo nel mondo dei sogni, o nel mondo del non male, come lo chiamavo anni fa”.
“…”.
“Dopo il primo anno di depressione ho iniziato a trattarla male. L’ho tradita sotto i suoi occhi…l’ho perfino picchiata. Avevo perso lucidità, ma non potevo tirarla dentro a quello che mi stava accadendo. Mi sono bucato qualche volta. Eroina, conosci!? Quella merda ti uccide. Ma non faceva per me”.
“…”.
“E poi lei se ne andò. Restai a Parigi da solo. In una città che non mi rappresentava per niente, in una città in cui ero andato per fare cinema, una città che mi aveva fatto conoscere l’amore per la vita, ma che un attimo dopo se l’era ripreso insieme a quei barlumi di felicità che avevo assaporato forse troppo avidamente”.
“…”.
Tirare fuori quei ricordi fu come tirare via un dente e inevitabilmente venne fuori tutto il dolore che si annidava come una carie dentro il mio cuore. Iniziai a piangere. Cercai di trattenermi…ma fu come il pianto per il primo amore, per il primo lutto importante, un pianto incontrollabile a cui non ero più abituato. Avrei voluto avere degli occhiali da sole per poter coprire quell’imbarazzo esistenziale, ma in quella stanza c’eravamo solo io e lei, vestiti ma nudi allo stesso tempo, spogli di tutte le paure, dei dubbi, delle insoddisfazioni ma anche dei nostri nomi. Quella stanza era un microcosmo composto da quattro muri, da un letto e da due corpi. Corpi apparentemente senz’anima, vite senza logica. Due puntini nello spazio, che per un momento si trovano e si toccano, si intersecano in un valzer lunare, ma che poi sono destinati a perdersi e a continuare il proprio cammino terreno, in un mondo che li respinge e li divora rendendoli fragili come foglie.
Sentii una mano posarsi sulla mia guancia destra. Alzando la testa notai che la ragazza stava sorridendo. Il suo viso mi apparve come un prato fiorito. I suoi occhi mi calmarono e mi sembrò che stessero ridendo per la prima volta dopo tanti anni.
“Mi chiamo Asuka e…”.

FINE