La quarta parte del racconto La puttana dagli occhi tristi: Tokyo e gli strani abitanti che la popolano.

L’unica cosa che mi ricordo di quel momento, dopo aver visto tutto buio, è sopratutto una sensazione tattile, la testa immersa in una fanghiglia grumosa, qualcosa di simile al liquido amniotico, qualcosa che attutì suoni e rumori esterni: mi sentii come un feto protetto dal resto del mondo.
Iniziai ad ansimare, non riuscivo a respirare regolarmente, aprii gli occhi, cercai di mettere a fuoco fino a vedere distintamente che mi ritrovavo in una pozza di sangue.
“Signore…signore. Si sente bene?” continuava una voce maschile alla mia destra.
“Cosa è successo?” chiesi alzando lentamente la testa nella direzione da cui pensavo provenisse la voce.
“Probabilmente si è rotto il naso” mi disse guardandomi dritto in faccia.
“Oh cazzo!” esclamai toccandomi il naso e iniziando ad urlare dal dolore.
“Capelli neri aiutami ad alzare il cliente” disse ad una ragazza fuori dal mio campo visivo.
In quel momento, non so se mi sconvolse di più il fatto che chiamasse realmente le ragazze meno popolari del locale per il colore dei capelli, o quel “cliente” pronunciato con tanta enfasi. Allo Yume non c’era rispetto per l’essere umano, per loro ero solamente una carta di credito da strusciare il più possibile.
Non appena la donna mi cinse per sorreggermi cercai i suoi occhi, ma distolse lo sguardo così velocemente che non riuscii nemmeno a capire quale fosse il colore.
Un impercettibile sorriso aleggiava sulle sue labbra, quasi ad accennare le emozioni piuttosto che renderle esplicite; per questo mi apparve come la Dama con l’ermellino, intenta a guardare chissà cosa con una delicatezza desueta.
“Stavo cercando una ragazza” dissi all’uomo quasi farfugliando.
“Qui allo Yume…chi non la cerca?”.
“Sì, ma quella ragazza aveva bisogno di aiuto…” risposi senza energia.
Faticavo a respirare, per questo decisi di non sprecare più parole con quell’individuo abbietto. Lentamente la memoria a breve termine iniziò a tornare. Mi ricordai le urla di una ragazza, i colpi che le venivano inferti riecheggiare per il corridoio, e un un uomo dalla mano pesante trattarla come una pezza da piedi. Girando la testa verso la donna alla mia sinistra notai dei lividi sul collo, lo sguardo sempre pronto ad evitare il mio e quella camminata quasi aristocratica. Una grazia fuori dal comune la contraddistingueva, quasi come se fosse venuta sulla Terra da un pianeta senza nome, come un angelo caduto, destinato all’inferno del nostro mondo.
Ad un certo punto intravidi una specie di infermeria ma iniziarono a mancarmi le forze, cercai di tenere gli occhi aperti, ma fu tutto inutile.
“Sei una stupida. Hai fatto cascare il nostro cliente”.
Riaprii gli occhi risvegliato da quelle urla e, finalmente, riuscii a mettere a fuoco la situazione nonostante la grossa sbronza. Era lui l’uomo dalla mano pesante, era quella la voce che avevo sentito da lontano, ma ancora non riuscivo a ricordare come fossi finito in terra in un lago di sangue. Che l’uomo mi avesse tirato un pugno per poi venirmi a soccorrere? No, sarebbe stata troppo assurda come cosa anche per un posto come lo Yume.
“Non riesci mai a soddisfare i clienti. Mai uno che abbia parlato bene di te. Non parli mai. Non gli dai mai soddisfazione. La gente paga per passare del tempo con te. Dal primo giorno in cui il padrone ti portò qui capii che non saresti stata buona a nulla. Come si fa a scegliere il nero come colore di capelli? Tutti in Giappone hanno i capelli neri”.
“La smetta. Non mi sembra il caso di infierire così. È stata colpa mia, sono andato giù a peso morto. Mi scuso vivamente”.
“Si figuri, lei non deve scusarsi, è questa ragazza che mi fa impazzire. Prego, entri in infermeria” disse con tono ossequioso.
“Proprio una bella infermeria” esclamai sedendomi sopra un lettino.
“Noi teniamo molto ai nostri clienti…e anche alle ragazze”.
Non sembrò molto convinto riguardo alle ragazze, lo disse quasi per farmi piacere, per esibire un’umanità che non gli apparteneva.
“Con questo starà meglio” mi disse passandomi un antidolorifico.
Lo buttai giù come si ingoia un boccone amaro, un boccone offerto da quell’uomo che trattava le donne come carne da macello, come strumenti utili solo a guadagnar soldi.
“Come sono finito K.O?”.
“Non se lo ricorda? Stava correndo lungo il corridoio urlando parole di una lingua incomprensibile fino a quando…è inciampato ed ha sbattuto il naso dritto in terra”.
“Alcool del cazzo” esclamai.
La ragazza girellava per la stanza canticchiando un motivetto sotto voce. In quel momento aveva l’aria di una bambina, come se le urla e le botte non l’avessero toccata minimamente.
“Se vuole le chiamo un taxi, o un’ambulanza…come meglio crede”.
“Preferisco un taxi, ma ora vorrei rilassarmi un po’ con una ragazza”.
“Certamente. Conosce le nostre tariffe?” domandò con aria mefistofelica.
“Qualcuna…ma ho questo” risposi dandogli il biglietto omaggio.
“Oooooh, bastava dirlo. Quale ragazza vuole?”.
“Lei” risposi indicando la ragazza nella stanza.
“Capelli neri? Ma è sicuro?” mi chiese con stupore.
“Certo”.
“Porta il signore nella stanza” ordinò l’uomo.
La ragazza mi prese per mano ma, a differenza di Misako, non mi trascinò con forza, anzi, la sua sembrava piuttosto la stretta di mano di una madre a un figlio mentre attraversa la strada.
Arrivati in una piccola camera ci sdraiammo sul letto.
Iniziai a guardarla negli occhi intensamente, per vederne finalmente il colore. Lei prese un taccuino segnando “1000 yen al minuto”.
Non mi demoralizzai e continuai a guardarla. Improvvisamente fui svegliato dal mio torpore esistenziale. Erano degli occhi così tristi che se strizzati avrebbero rilasciato tutta la malinconia di questo mondo.
 

Continua…