La terza parte del racconto La puttana dagli occhi tristi. Tokyo e gli strani abitanti che la popolano.

Alzandomi da quel letto provai una sensazione di vuoto. Come poteva la gente provare sollievo da tutto ciò? Non riuscivo a credere a tutta quella speculazione, a quel degrado, ma soprattutto non riuscivo a credere che anche io fossi finito in quel carcere di solitudine.
Uscendo dalla stanza cercai di orientarmi lungo il corridoio principale per trovare l’uscita, ma non so come incappai nel bar.
“Mi dia da bere” ordinai al barista.
“Cosa le servo?”.
“Un whisky”.
“Yamazaki?”.
“Yama che?”.
“È il miglior whisky al mondo”.
“Povero scemo”.
“Come scusi?”.
“Lo proverò”.
Iniziai a bere quel whisky in maniera smodata, ma dovetti fermarmi…probabilmente stavo bevendo il miglior whisky di tutta la mia vita.
“Come può essere così buono?” chiesi al barista.
“È Yamazaki”.
“Ma…ma è giapponese. Con tutto il rispetto”.
“Ma è il numero uno”.
“Mi dia l’intera bottiglia”.
“Sicuro?”.
“Come un fucile a salve”.
“Se lo dice lei”.
Quel whisky era l’unica cosa davvero positiva del Soineya per questo decisi che avrei dovuto abusarne, per cercare di colmare il vuoto esistenziale presente in quella casa degli orrori.
Tra un bicchiere e l’altro vedevo passare gente di ogni tipo, ma quello che mi colpì maggiormente fu un ragazzino che avrà avuto sì e no vent’anni. Che ci faceva in un posto del genere? E io, che ci facevo ancora seduto su quel bancone? Mi sentivo intrappolato in quel posto, come in fondo a delle sabbie mobili da cui non riuscire ad emergere. In realtà non volevo andarmene perché a casa ci sarebbe stato solo il silenzio, rotto di tanto in tanto dal rumore della tivù.
Da ragazzo facevo sempre lo spaccone, mi piaceva stare da solo, sarei stato ore ed ore nella mia cameretta a leggere romanzi di avventura, fantasticavo di essere un pirata, di scoprire nuovi mondi, ma ormai da anni, quell’energia era stata spazzata via insieme ai miei sogni.
Ripensai a mia moglie, e alla prima volta che la vidi sorridere in un bar a Montmartre, a quei momenti di leggerezza, alle baguette che avevano lo stesso profumo del futuro, soffici e croccanti come gli abbracci al primo mattino. Ripensai a tutto questo e piansi, ma piansi dentro, le lacrime me le avevano portate via da anni.
Dopo metà bottiglia cominciai ad essere ubriaco, ma non mi scoraggiai e continuai a bere come un ossesso.
Ad un certo punto mi sembrò di vedere Umbe, un mio vecchio amico con cui potevo stare a parlare per ore, lo rincorsi e lo afferrai per il bavero della giacca.
“Umbe, Umbe, che ci fai qui? Il romanzo come procede? Hai trovato un editore? Il romanzo? Firenze com’è? Sempre la solita merda? Che ci fai qui? Che ci fai…” iniziai a urlare colto da un impeto di delirio.
“Ma chi è lei? Come si permette. Qualcuno butti fuori questo pazzo” urlò l’uomo con gli occhiali.
“Shhh…faccia silenzio, è che…è che l’avevo scambiata per qualcuno, sa, ha gli occhiali…”.
“Lei è pazzo”.
“Forse sì, ma chi non lo è?”.
“Provo pena per lei”.
“Anche io”.
“Anche lei cosa?”.
“Provo pena per me stesso, ma anche per lei. Guardi che faccia che ha” gli dissi strizzandogli una guancia.
Iniziai a correre cercando di seminare il finto Umbe, quando a un certo momento sentii un tonfo sordo provenire da lontano.
“Sei una stupida. Sei la nostra rovina. Mai una parola, niente di niente, impara da Misako, lei sì che sa come si fa questo lavoro. Sempre con quel taccuino per segnare le spese, i clienti vogliono sentire la tua voce del cazzo quando sganciano soldi. Se almeno la sapessi usare questa bocca di merda potresti fare pompini invece che startene lì senza proferire parola” urlava un uomo alternando parole a schiaffi.
Aumentai il passo nonostante la grossa sbronza, svoltai un angolo e vidi un uomo picchiare una donna senza alcun rispetto umano.
“Che cazzo fai stronzo!? Lasciala stare” urlai serrando il pugno.
E poi il buio.