e la paziente

Ci ritrovavamo ogni lunedì pomeriggio, io, Malcom ed Henry, intorno alle cinque, nella sala d’attesa dello studio dentistico di Henry. Il posto era molto piacevole, luci soffuse, camino acceso, due poltrone, un divanetto in pelle e quadri alle pareti ritraenti battute di caccia alla volpe. Lì, per puro caso, circa trent’anni prima ci eravamo conosciuti e da allora, oltre a viaggi, uscite serali e bevute pomeridiane, lì, tutti i lunedì ci rincontravamo. Lo studio era aperto dalle sei alle sette del pomeriggio e solo per le emergenze: difatti in quella giornata non veniva accettato alcun appuntamento dalla dolce e attempata segretaria Mary Gold, alla quale era inoltre fatto rigoroso divieto di presentarsi. In genere in quell’ora non veniva nessuno e così noi potevamo tranquillamente continuare con le nostre faccende. Henry non beveva mai nulla se non dopo le sette. Stabilimmo questa regola dopo uno spiacevole evento: sicuramente spiacevole per tutti noi ma soprattutto per il paziente. Andò così…

 

… Henry alle sette meno dieci di quel lontano lunedì, ormai stanco di vederci sorseggiare il suo pregiato whisky, non volle essere da meno, e, nel giro di dieci minuti, trangugiò più whisky di quanto avevamo fatto noi nelle due ore precedenti.

Alle sette spaccate entrò nello studio – la porta rimaneva sempre aperta durante quell’ora – una graziosa quanto disperata ragazza con un fazzoletto insanguinato sulla bocca. Passò davanti alla sala d’aspetto, ci guardò, poi volse lo sguardo verso Henry e implorando disse: “ii aiupi va pego vottor Vavesky”.

Malcom guardò Henry e gli disse: “Credo ce l’abbia con te”.

Henry, come un pupazzo che esce dalla scatola, si drizzò in piedi, la guardò, e poi con un gesto elegante della mano la invitò ad accomodarsi in sala operatoria annuendo con la testa.

Diventò paonazzo. Era imbarazzato o forse totalmente nel terrore. Poggiò il bicchiere, mi guardò serio e disse: ”Vai tu, di Malcom non mi fido”. Mi tremarono le gambe e non potei che declinare l’offerta: “Henry, ti assicuro che non saprei da dove iniziare, non posso pensarci io, è il tuo mestiere e sono certo che ce la puoi fare anche da ubriaco”.

“Va bene” disse, “ce la posso fare” e poi svenne. Non era la prima volta che capitava e pertanto non fummo troppo sorpresi e sapevamo che nel giro di dieci minuti, massimo venti, sarebbe rinvenuto.

L’unica cosa che mi restava da fare, per salvare la carriera del mio amico, fu quella di indossare il camice bianco togliendoglielo di dosso e affrontare la questione, sperando che nel frattempo Malcom fosse riuscito a rianimare Henry.

 

Uscii dalla sala d’attesa e mi diressi, trafelato, verso la sala operatoria dove la paziente intanto si era sdraiata sul lettino.

“Buonasera, sono l’assistente del dottor Travesky, con chi ho il piacere di parlare e cosa posso fare per lei?”.

“Bono Bilby, e bono cavuta su uoo spioolo. Uardi uì” disse spalancando la bocca con grande sofferenza.

Per poco non svenni, il canino, o forse era un incisivo, era piegato verso l’interno e un vistoso taglio percorreva la gengiva laterale superiore.

“Bene Bilby, la situazione è alquanto complessa, dovrò consultarmi con il dottor Travesky, mi aspetti qui”.

Corsi nella sala d’attesa e trovai Malcom con la pipa in bocca che, comodamente seduto in poltrona, si versava almeno tre dita di whisky nel bicchiere. Henry era sdraiato esattamente dove lo avevo lasciato e se non fosse stato per quella respirazione rumorosa che lo contraddistingueva avrei pensato fosse morto.

“Malcom! Perché diavolo non l’hai rimesso in piedi? Di là c’è un caso a dir poco disperato, mi serve Henry sveglio! Ora!”.

“Già… Ho tentato, ma credo che sia entrato in stato di shock. Non credo però che sia grave. Vedrai che tra un quarto d’ora si risveglia e tra un paio d’ore starà benissimo”.

“Malcom, non abbiamo un paio d’ore!”.

“Sì che ce l’abbiamo…”.

“Sì, noi sì! Ma Bilby no!”.

“Chi è Bilby?”

“Malcom, io adesso mi sfilo questo camice e a Bilby ci pensi tu” me lo sfilai e glielo consegnai.

Malcom con calma ieratica se lo infilò e andò da Bilby. Lo raggiunsi e rimasi nascosto ad osservare quanto accadeva.

“Buona sera Bilby, come va?”.

“hi è Bilby e hi è vei?”.

“Certo Bilby, sono lieto di sentire che stai bene. Il mio nome è Malcom e sono l’assistente del dottor Travescky: apra la bocca e faccia vedere”

“ E valto avvivdente vove è”.

“Ma sì, non si preoccupi, il dente è qui. Apra bene la bocca”.

La ragazza eseguì l’ordine.

“Mmm, perfetto, Bilby, stia serena, non è nulla. Ritorni domani, adesso è tutto troppo infiammato per poter intervenire”.

Malcom a volte aveva delle trovate geniali, del tutto inaspettate.

La ragazza iniziò a piangere e con voce implorante disse a Malcom “Io non mi iamo Bilby ma B I L B Y, va pego, mi dia uahlosa pev il doholove, non vehsisto”.

“Ma certo Bilby, aspetti che le cerco qualcosa”.

Vidi Malcom rovistare alle spalle di Bilby nell’armadietto dei medicinali. Ebbi un presentimento, ma non lo ascoltai, anche se avevo capito che qualcosa stava per andare nel verso sbagliato.

 

Malcom prese una boccetta in vetro, non riuscii a leggere di cosa si trattasse, aprì il tappo e rovescio un po’ del contenuto su di un batuffolo di ovatta. Bilby era sdraiata e guardava verso l’alto accecata dalla lampada. Malcom teneva in una mano il batuffolo di cotone e con l’altra il flacone. Quello che c’era scritto doveva essere molto piccolo perché Malcom lo avvicinò agli occhi. Stava sudando copiosamente mentre Bilby continuava a lamentarsi. Il gesto fu istintivo, prese il batuffolo imbevuto e se lo passò sulla fronte per asciugarsi. Vidi il batuffolo gocciolare copiosamente. Quanto accadde dopo ancora oggi stento a crederlo. Malcom, come una furia impazzita iniziò a stropicciarsi gli occhi, il flacone ancora aperto riversava il suo liquido in ogni luogo. Bilby nei suoi lamenti si accorse che stava accadendo qualcosa di strano. Malcom per manifestare calma nella sua momentanea cecità, con aplomb si mise a sedere sulla faccia di Bilby che era sdraiata sul lettino. Io entrai alla svelta, spostai il sedere di Malcom dalla faccia di Bilby ma incautamente il liquido colpì dapprima me e poi la sventurata paziente.

 

Era tutto buio, poi, a fatica, aprii gli occhi. Ero sdraiato sul divanetto della sala d’aspetto e accanto a me c’erano due gambe. Mi alzai di scatto. Quelle gambe appartenevano a Malcom che serenamente dormiva. Ho sempre ritenuto disdicevole e che qualcuno continuasse a dormire dopo il mio risveglio, pertanto, gli diedi uno strattone e lo svegliai. Sembrava che avesse partecipato ad un furioso incontro di boxe. Aveva gli occhi tumefatti ma, da come mi guardava e dalla sua espressione capii che ci vedeva ancora alla perfezione.

Restammo in silenzio per qualche minuto, poi udimmo la voce di Bilby nel corridoio.

“Avvivedevci vottor Vavesky, grafie di tutto e ringrafi anche i suoi avvisdenti”.

“Arrivederci Silvy, ci rivediamo la settimana prossima per togliere i punti”.

Guardai l’orologio, erano passate circa due ore. Henry si affacciò nello studio, ci osservò, si mise a sedere e si versò da bere. Poi si accese la pipa e ci raccontò quanto era accaduto.

Si era svegliato da solo nella sala d’attesa e nello studio regnava il più profondo silenzio. Si mise a sedere e all’improvviso si ricordò di quanto era accaduto. Indubbiamente era ancora sbronzo ma stava sicuramente meglio. Non vedendo noi, ne sentendo alcun rumore pensò che in qualche modo l’emergenza doveva essere stata affrontata dai suoi premurosi amici. Andò al bagno, bevve un po’ d’acqua e si sciacquò il viso. Regnava il buio e la quiete; poi, si accorse che le luci della sala operatoria erano accese. Attraversò il corridoio per andarle a spegnere ma quando arrivò sulla porta quello che vide fu raccapricciante. La disposizione degli oggetti e degli esseri viventi sfidava ogni legge naturale. Nemmeno Dalì sarebbe riuscito a dare vita ad una composizione siffatta.

 

Silvy – e non Bilby – era su lettino. Con la faccia stritolata tra questo ed il sedere di Malcom che gli dormiva supino sopra. Io ero in terra prono, il mio braccio piegato all’indietro e all’insù, incastrato sotto la guancia di Silvy. Nell’altra mano tenevo la bottiglietta. La lampada proiettava il potente fascio luminoso sugl’occhi chiusi di Silvy. Ogni ferro era in terra, e per qualche strana ragione una pinza era conficcata nel polpaccio di Malcom.

Avevamo tutti assunto cloroformio, per fortuna, in modeste quantità. Ad Henry toccò un lavoro duro e complicato ma quando la paziente si svegliò, tutto era sistemato, anche la sua bocca. Chi ebbe la peggio furono il mio braccio ed il polpaccio di Malcom. Quella sera fu imposta la regola: Henry non avrebbe più potuto bere prima delle sette.