Quando l'intrattenimento diventa fiero escapismo, come vivere l'imprescindibile confine tra realtà e 'stanza'?

Tra le mani tengo “La stanza profonda”, l’ultimo libro di Vanni Santoni. In meno di tre mesi dall’uscita ha raccolto quasi centocinquanta tra recensioni e interviste, è andato in ristampa dopo nemmeno due settimane (attualmente è alla terza edizione), e dopo un mese è stato candidato al Premio Strega. Basta pompini, dicci di che parla. Con calma, amici, ci arriviamo. Siamo qui proprio per parlarne, anche a costo di risultare ripetitivi, ché in centocinquanta variazioni sul tema forse si è già detto tutto (e forse no).

 

Tra le mani tengo La stanza profonda, l’ho appena finito e non so bene dove riporlo – nella mia libreria c’è una stratificazione geologica di metodi ordinatori, alfabetico editoriale tematico e poi bo’, a caso, ignobile pigrizia e montarozzi disordinati. In questo caso vorrei sforzarmi e riporlo in un posto sensato, perché se lo merita. Ma dove? Guardo la libreria e continuo a chiedermelo. Se la buona letteratura non dà risposte ma piuttosto crea domande, quella che mi sto ponendo rivela già qualcosa. E dunque: dove?

 

Forse accanto all’unico regalo di Natale che non butterò mai, i manuali della edizione 3.5 di “Dungeons & Dragons”. Alla fine il libro parla di questo: giochi di ruolo. Una attesissima “rivincita dei nerd”.

 

O forse sarebbe meglio valorizzarne l’anima saggistica e metterlo accanto all’Homo Ludens di Huizinga, dato che il libro non solo “parla di” ma si allarga nell’apologia di un certo tipo di ludere, giocare.

 

La stanza profonda 1

Huizinga, non dar retta all’accademia mainstream: sei sempre nel cuore

 

 

O forse lo incastro qui: fra le pagine-ossidiana di Ligotti e l’appassionata lettera d’amore che un giovane Houellebecq scriveva a H.P. Lovecraft in tempi non ancora sospetti. La stanza profonda come ultimo rifugio, il punto di incontro fra una cospirazione cui non si può scappare e quell’atteggiamento – l’unico possibile, l’unico onesto – che H.P.L. suggerisce ai posteri dalle pagine della sua biografia, e che Houllebecq riassume con gelo chirurgico in: contro il mondo, contro la vita.

 

Forse, forse, forse…

 

*

 

Se fino ad ora l’ho chiamato “il libro” (non “il romanzo” né “il saggio”) è perché La stanza profonda è prima di tutto ibridazione – se non vero e proprio (ma avrà senso dire ‘vero e proprio’?) oggetto narrativo non identificato, di quelli cari al New Italian Epic.

 

Saggio nel make-up, nel condimento: una costellazione di note a piè di pagina e citazioni erudite, colpi di pennello da storico più che da romanziere per aprire il mondo dei GdR anche a chi ne sia totalmente estraneo. Esemplari, in questo senso, la nota che rievoca i giochi di ruolo più paradigmatici usciti negli ultimi quarant’anni e la chiusa del libro, nella quale si dipana un fil rouge che parte dai Wargames di Gary Gygax e arriva fino a World of Warcraft.

 

La stanza profonda 2

Gary Gygax, dungeon master

 

Saggio nell’abbigliamento ma romanzo nelle ossa. Affronta la provincia, prima di tutto – il Valdarno toscano, “borghi  e capannoni, pievi e cimiteri e balze, tra cittadine sempre più disadorne e una vegetazione dal vigore che non ricordavi”, bella e malinconica e condannata al disfacimento. Si parte dall’oggi, con un (ex?) game-master quarantenne che riscopre la cantina in cui ha giocato di ruolo per vent’anni, e suo malgrado finisce scarrozzato sul treno dei ricordi.

 

Porta con sé i lettori, indietro fino all’infanzia, e nel risalire verso il presente racconta il progressivo svuotamento subito dal paese – uno sfondo su cui raccontare la storia di sei amici che nel profondo di una cantina (una delle stanze profonde del libro, non l’unica) immaginano mondi.

 

Gira tutto intorno a questi fantomatici “giochi di ruolo”, e spiegare cosa siano non è un compito facile, giacché un gioco di ruolo è molte cose. È il manuale che espone le regole del gioco, certo; ed è anche i giocatori, ché quelle regole sono but words on paper senza qualcuno che vi si adegui (l’oggetto definito dal soggetto, ed è subito corto-circuito); e ovviamente è il game-master, colui che si fa garante delle regole e che guida i giocatori nella narrazione – sottoponendosi egli stesso alle regole, la principale delle quali è incarnata dal dado, alla cui volontà imperscrutabile non ci si può opporre ma solo (nei rispettivi ruoli di arbitro e giocatori) adeguare. E poi è tutte queste cose insieme, intorno a un tavolo dentro a una stanza, e le ore che seguono nelle quali trasformarle in esperienza. Giochi di ruolo: conoscenza esoterica che non può essere “detta” ma solo “esperita”, una premessa-paradosso in cui Santoni non resta intrappolato (e ci mancherebbe, altrimenti come lo scriveva il libro?)

 

La stanza profonda 3

L’autore di La stanza profonda (dungeon master pure lui)

 

In fondo è tutto qui: sei amici, dentro a una stanza e intorno a un tavolo, che scelgono di sottomettersi a una duplice autorità (game master e regole) e nell’interazione reciproca  sviluppano una realtà “di fantasia”. Immaginano lande post-apocalittiche e terre di fiaba, rielaborano miti, creano mondi. E in quei mondi si muovono vestendo panni altrui – personaggi, maschere create ad hoc. Per il narratore arrivare al gruppo non sarà facile: servirà un’infanzia di tentativi a vuoto, bullismo da scuole medie e delusioni precoci. Difficile trovare anime affini nel grigiore della provincia. Ma alla fine le porte della Stanza si spalancheranno.

 

La stanza profonda 4

Proprio come si sono spalancate per Abed, di Community (avrei potuto metterci The Big Bang Theory, però ecco, anche no)

 

Così, intanto che fuori scompaiono il senso e le ragioni, la stanza profonda accoglie i protagonisti e si fa costante spaziale lungo l’asse di un tempo lungo; da quel Panopticon i sei osservano un mondo che ignora Dungeons & Dragons e impazzisce per le carte Magic, per poi riscoprire i giochi di ruolo solo quando può inzupparli nel dramma.

 

Loriano, coetaneo dei protagonisti morto suicida, assurge agli onori della cronaca quando si scopre che “giocava di ruolo”: ed ecco che il suicidio diventa assai gustoso se lo spettro di quella roba strana, sospetta, che viene dall’America, incombe fra i possibili motivi. Ma nonostante gli attacchi subiti il GdR resiste (grazie anche alle appassionate difese dei nostri), prosegue lungo la strada che lo porterà a conquistarsi un ruolo egemone nell’immaginario contemporaneo – milioni di videogiocatori i cui natali affondano in quel “facciamo che” costruito intorno a un tavolo. E anche se i sei amici se ne accorgono a fatica (guardar la storia è voltarsi), le riflessioni costruite dal narratore nel ricordo consegnano al lettore questa consapevolezza.

 

È un mito delle origini e ha un sotto-testo molto preciso: la superiorità del padre fondatore. L’esperienza videoludica non crea alcunché poiché è passiva, quasi esclusivamente individuale, fruizione di sogni altrui. Il party è invece comunità, organismo pluricellulare capace di generare nuovi spazi in cui muoversi secondo un principio di assoluta libertà (dadi permettendo).

 

La stanza profonda 5

Videogiochi: condannati a scontare la finitezza delle scelte

 

E dunque si gioca, e la storia (fuori e dentro la stanza) prosegue. Flash di vita distribuiti lungo tutto un ventennio, fino ad arrivare al viaggio in America che sa di chiusura del cerchio. Dopo un omaggio commosso a Gary Gygax, creatore e padre spirituale di D&D, il libro torna così a un presente in cui il protagonista si concede alla nostalgia e decide che c’è da giocare tutti insieme un’ultima volta – o forse sei, o dieci, ma comunque c’è da giocare tutti insieme almeno un’ultima volta. E quindi eccoli riuniti: Leia, Tiziano, il Bollo, Paride, Silli, nella stanza in cui non entravano da anni, a costruire di nuovo un mondo che faccia da contrappunto a quello di fuori. Il quale non ci sta, e molto irrispettosamente decide (non invitato) di venire a bussare.

 

*

 

Di più, quanto alla trama, non si può dire: nel libro si annidano abbastanza colpi di scena da far dell’anticipazione un delitto. E in fondo va bene così perché questo libro, lo si è detto, non è né saggio né romanzo – è sicuramente buona letteratura, se letteratura è quella roba composta di “dominio tecnico superiore e […] un’ardita fedeltà ad antiche, estreme, ambizioni”. Quanto al dominio tecnico valga l’esempio della scelta stilistica più coraggiosa del libro, il quale fino alla fine si rivolge al lettore usando la seconda persona singolare, quel medesimo “tu” che il game-master rivolge ai giocatori.

 

L’ambizione echeggia quella di Muro di casse, altro libro del medesimo autore, che racconta il fenomeno dei rave cercando di superare lo stigma appiccicatogli dalla divulgazione mediatica e metterne in luce la natura eversiva, complessa, produttiva di azione. Con il mondo dei free party il GdR condivide almeno lo stigma: entrambi guardati dall’alto verso il basso, l’uno per le troppe droghe l’altro per l’eccessiva natura “fantastica” dei contenuti, i quali dimostrerebbero che il GdR alla fine non è altro che una patetica fuga dalla realtà.

 

La stanza profonda 6

Uscire? E perché mai dovrei averne bisogno? Io ho Dungeons & Dragons

 

Escapismo: marchio di vergogna che dall’alba dei tempi viene assegnato a tutto ciò che non abbia a che fare con il reale. Carico di una duplice connotazione negativa: la prima, più evidente, è negli occhi di chi guarda. La seconda sta nel cuore di chi viene accusato, e si radica in una concezione dell’accusa ben precisa: l’escapismo come strumento del potere, atto a veicolarne l’intento narcotizzante. Nella “Macchina del Tempo” di H.G. Wells, l’escapismo è la valvola di sfogo che i Morlock offrono agli Eloi allo scopo di sopprimerne qualsivoglia attitudine rivoluzionaria o distruttiva. Bestiali e involuti padroni del mondo nell’anno 802.701, i Morlock trattano i bellissimi Eloi come si tratterebbero delle vacche succulente ma disgraziatamente coscienti di sé: li distraggono, e tra uno svago e l’altro se li mangiano.

 

A nessuno piacciono i Morlock, ma essere un Eloi fa proprio schifo. Dunque il libro rifiuta questa concezione e porta avanti una tesi inversa, atta a dimostrare che i GdR sono (o almeno erano) non fuga ma vera e propria controcultura: un atto di resistenza al mondo. “Esperienza comune regolata da norme condivise” e dunque rito più che semplice gioco.

 

La stanza profonda 7

I Morlock!

 

Come Huizinga considera il gioco un fenomeno culturalmente e antropologicamente fondativo, così Santoni considera il gioco di ruolo un atto eversivo e controculturale – espressione di un bisogno rituale in una società che ha dimenticato il Sacro. Chiamiamolo pure gioco se vogliamo, ma in ogni caso è “a somma zero”: ben diverso da quello disgiuntivo dell’agone, della gara, radicato nella distinzione fra chi vince e chi perde. Dal GdR scompare ogni scopo ultimo, compreso quello della vittoria (unica traccia di utilitarismo che ancora permane nelle forme ludiche più integrate). In assenza di vinti e vincitori, lo stigma diventa così “la punizione per chi sceglie di chiamarsi fuori da un sistema in cui i più fighi o i più bravi negli sport, ovvero nelle prove di una società basata sulla sopraffazione, vengono premiati e gli altri messi da parte”.

 

Nella mancanza di utilitarismo il GdR è certamente “simile al teatro”, sebbene questa definizione calzi forse più per un’esperienza performativa quale è il gioco di ruolo dal vivo (e su quest’ultimo si perdona a denti stretti il punto di vista un po’ talebano e sbrigativo del libro – orecchie a punta ed elfi nei boschi, e sebbene negli anni ’90 non ci fosse altro è pur vero che gli anni ’90 sono finiti e anche il LARP ha cambiato faccia, ma non usciamo dal seminato). In ogni caso il GdR “non è una roba in cui ti vesti da elfo”. Diverso, certamente, diverso da tutto: il primo, Adamo degli spazi virtuali sovrapposti a quelli reali. Necessario come è necessaria ogni forma di immaginazione.

 

La stanza profonda 8

Esiste persino un manifesto LARP ispirato ai canoni del New Italian Epic (googlare Chaos League per maggiori informazioni)

 

Alle logiche competitive e verticalizzanti di una “società che premia solo la competizione” (dove i vincitori sottraggono un qualche utile ai vinti) il giocatore di ruolo risponde con un’esperienza orizzontale e partecipativa, produttiva di un senso che fuori non c’è (più?). Giocando di ruolo si resiste al mondo esterno poiché se ne rifiutano i ritmi, il verticalismo e le fondazioni mercantili – gli si dimostra che “ci si può divertire, anzi avere un’esperienza esaltante, attraverso la cooperazione, senza pagare nessuno e senza sottoporsi a nessuna autorità se non a quella di regole scelte assieme”.

 

E dunque la stanza profonda non sarebbe semplice escapismo bensì fucina della rivoluzione, se non già laboratorio entro cui sperimentare nuove strutture e nuove logiche. Spazio rivoluzionario, T.A.Z.

 

La stanza profonda sarebbe tutto questo; se solo non fosse che…

 

*

 

Controcultura e sottocultura: dove tracciare la linea? Se la differenza sta nel rapporto con i valori culturali dominanti, è facile considerare sottocultura un movimento che, seppur peculiare, non rivendichi mai la propria opposizione – che resti chiuso in sé stesso, senza alcuna dialettica con chi si fa espressione dei valori dominanti.

 

Ed ecco farsi strada una considerazione amara: al netto del potenziale, delle braci sotto la cenere, fra la realtà e la stanza profonda resta una cesura profonda e ineliminabile. Mentre i protagonisti del libro immaginano mondi, quello vero va in putrescenza; la scoperta della decomposizione si accompagna a stupore, all’incapacità di darle un senso – al desiderio di alzare il dito medio e tornare giù, nella stanza. Ma martedì prossimo si gioca?. Quello che manca è una soluzione, il potenziale della stanza resta inespresso: le buone pratiche non escono mai dal cerchio e la fucina della rivoluzione pare non produrre nulla.

 

La stanza profonda 9

Un tipico esempio di giocatore di ruolo? Probabilmente no

 

Certo esiste un impatto sulla persona, ma manca la capacità di uscire dalla sfera individuale e traslare “lassù” il senso prodotto “laggiù”, creare un fenomeno ampio e coerente che trasformi la sottocultura in vera controcultura. La cesura fra la stanza e il mondo si specchia d’altronde in quella fra ciascuna delle mille e più stanze profonde, le “centinaia di milioni di campagne svoltesi in stanze come questa” che tutte insieme fanno la storia del GdR ma che si possono accorpare solo a parole – in realtà universi autonomi, reciproci sconosciuti.

 

Jacopo Nacci ha scritto che la chiusa del libro è afflitta da un “ineludibile, malinconico nichilismo”: poiché non c’è modo di portare in superficie quel che si crea, la scelta è fra perpetrare il rito fino alla morte (farne uno strumento di sopravvivenza contro il peso inevitabile del mondo) e anticipare la morte stessa (come fa Loriano). Ma se il ponte col reale manca, sorge la domanda: il GdR, che pure si fa rito nell’essenza, come si distingue dall’escapismo nella funzione? Quelle del funzionalismo sono lenti bieche (e a sentire Huizinga rigettate dal gioco in radice), ma la domanda viene a galla da sola.

 

La risposta potrebbe essere quella dell’immediatismo politico (agire qui ed ora per quel che si può avere qui ed ora), la stessa avanzata in Muro di casse e che qui, più che esplicita, sembra nascondersi timidamente fra le righe (a tirarla brutalmente fuori ci pensano recensioni e interviste). Ma è sufficiente?

 

La stanza profonda 10

Di cosa parliamo quando parliamo di immediatismo (principalmente)

 

Forse. O forse c’è una strada diversa: abbracciare l’ombra e ingigantirla oltremisura – valorizzare quella traccia nera che l’autore pare rinnegare quando si definisce “ottimista, e anche un filo calvinista”, e auspica uno sbocco nel reale “ancora lì latente”, che “aspetta di esplodere davvero secondo modalità che ancora non vediamo”. Forse uno sbocco c’è. Forse non piacerà.

 

*

 

Proviamo allora ad allargare lo sguardo. Immaginiamo per un attimo che la stanza profonda non sia semplice resistenza alle logiche d’utile e di mercato, all’assenza di senso che si incardina nelle sovrastrutture socio-economiche. Immaginiamo che il rifiuto possa esprimersi in maniera molto più violenta e ampia.

 

Immaginiamo un no urlato in faccia alla vita. Alla vita punto e basta, giacché il senso che “là fuori” si avverte come mancante non è solo mancante: è proprio impossibile. Lo si produce dentro perché fuori non è mai esistito, né mai esistere potrà. Schierarsi con Paride, che “questo ostinarsi a dare più peso alle cose reali rispetto a quelle immaginarie” proprio non lo capisce – informe consapevolezza del fatto che tutto questo entusiasmo per il reale non sia poi granché giustificato.

 

La stanza profonda 11

Diglielo un po’, Rust

 

È una cognizione di cui abbiamo imparato a vergognarci, che non si accorda al Programma – il cui leitmotiv Hegeliano dipinge una realtà dove alle cose, in fondo, tocca adeguarsi. Meno chiacchere e più olio di gomito, Paperino. Guai a mettere in dubbio il precetto fondamentale! Si rischierebbe d’essere risucchiati dalle pagine di quel Ligotti citato all’inizio. Il quale, nella sua “Cospirazione contro la razza umana”, costruisce con piglio da filosofo un’architettura da incubo il cui cuore pulsante è una verità semplice: being alive is (not) all right. L’ansia di esserci, nel reale, di uscire dalla stanza profonda con qualcosa di utile, si disintegra di fronte alle pagine dell’americano – il quale comunque sta in buona compagnia. Da Schopenhauer a Cioran a quello Zapffe cui Ligotti dedica il libro, tutti concordi nel dire che in questo affare della vita e della coscienza e della riproduzione ci sia qualcosa che proprio non funziona (a là Manuel Micaletto).

 

Indossati gli spectacles di Faliol l’ombra scura si mostra in tutta la sua terrificante bellezza: l’atto di creazione del personaggio non è altro che un tentativo di ribellarsi alla condanna deterministica. Un secondo “io” da dominare, scevro almeno lui delle contaminazioni che fuori dalla stanza ci trasformano in burattini (cultura, genitori, biologia, l’oscura Volontà di Schopenhauer) – non tanto rielaborazione dell’identità quanto riappropriazione del concetto di sé.

 

La plotiniana realtà di secondo livello forse non è più vera come vorrebbe Leia ma sicuramente su di essa possiamo esercitare una qualche forma di dominio – c’è il dado, certo, ma possiamo vederlo, e quanto al resto dello spettacolo siamo noi a comandare le marionette.  Nel mondo della stanza profonda c’è un ordine, una razionalità evidente – c’è un controllo e quel controllo, per dio, è nelle nostre mani.  Non è l’annullamento dell’Io auspicato da Ligotti, ma in fondo, se l’obiettivo è antinatalista, va bene uguale. I personaggi di fantasia non si riproducono al di fuori del cloud. E anche fosse una menzogna, anche fosse che un burattino mosso da un burattino non è altro che un frattale dentro cui perdersi per ignorare il marionettista in cima alla catena, poco importa: sopravvivere è mentire.

 

La stanza profonda 12

Thomas Ligotti, qui rappresentato mentre dissolve il proprio Io in una galassia a spirale

 

Isolamento (esclusione dal pensiero di quel che avvicina alla verità), distrazione (inclusione nel pensiero di quel che allontana dalla verità), sublimazione (esperienza estetica del terrore rielaborato in forme accessibili). Tre delle strategie che secondo Zapffe la coscienza utilizza per minimizzare il paradosso dell’essere. Il GdR ispirato alle opere di Lovecraft (Call of Cthulhu) fa scopa con tutte e tre.

 

Non è allora Tiziano “la cosa più eroica che sia mai passata nella stanza”, giocatore dedicato e latitante ricercato dalle forze dell’ordine. L’eroe tragico è Loriano: frequentatore occasionale, distratto, che un giorno decide di impiccarsi alla finestra e così attira sul GdR le attenzioni vampiriche dei media. Loriano che esplora la stanza profonda con un piede sempre fuori, e stando così – mezzo e mezzo – fa da ponte a una realtà insettiforme, bestia paziente e molesta che gli striscia su per la gamba e gli sussurra all’orecchio. È un messaggio da blatta, tutto frinire e stridii. Alle orecchie di Loriano suona tipo: goditi pure la tua stanzetta, piccino, tanto prima o poi dovrai comunque uscirne.

La stanza profonda 13

“Ciao”

 

Se tutto questo è vero – se fuori dalla Stanza ci aspetta una realtà dal guscio lucido di scarafaggio – allora fanculo alla funzione politica del GdR, puntiamo in alto e diamogliene una esistenziale: la stanza profonda come il bunker in cui ritirarci, dove rinunciare alle spinte riproduttive e finalmente estinguerci. L’ultimo definitivo dito medio alzato contro l’insetto sordido che ci fa la posta fuori.

 

D’altronde lo stesso concetto di immediatismo partorito da Hakim Bey (padre spirituale delle T.A.Z.) si basa sulle premesse di un “anarchismo ontologico” in virtù del quale nulla, della vita, possa strutturarsi in alcun modo – e dunque l’unico modo per vivere sia tramite un flusso di singole esperienze non mediate e allacciate in una continuità puramente temporale. Ma se è vero che la vita è caos (strisciante), scegliere di tuffarcisi dentro non è per forza l’unica opzione. Si può anche anche dire: no, grazie, io non me la bevo.

 

Diciamolo con Ernst Bloch: l’utopia (il “buon posto” che linguisticamente equivale al “nessun posto”) è dietro l’angolo, e la raggiungeremo riprendendo in mano le redini del nostro escapismo, un “immaturo ma onesto sostituto della rivoluzione”. Un’utopia forse drastica, ma risolutiva del paradosso di fondo (rifiutare la vita è giusto ma morire lo è un po’ meno, giacché la morte fa altrettanto schifo e dunque la vita è più che altro un vicolo cieco). Rebus sic stantibus, scaviamoci una buca e arrediamola al meglio.

 

Rigettare tutto, allora, a cominciare dal pietismo paternalista di chi offre (qual grazia! quale onore!) marginali riserve alla svalutazione di un’esperienza estetica escapista. Indulgenze non richieste che muovono dalle premesse sbagliate. Non cerchiamo un’oasi in cui annacquare l’esistenza, dove risciacquarla con cinquemila anni di esperienze mediate. Diluire la vita è ben poca cosa, bisogna annichilirla.

 

La stanza profonda 14

Mi piace pensare che Howard sarebbe d’accordo

 

In marcia dunque: verso la salvezza, compartecipi di un enorme rito collettivo a base di dadi, patatine e penombra; liberi finalmente da quel pudore sordido e contraddittorio che incensa l’esperienza letteraria ma si arresta a un passo dalle sue naturali conseguenze – leggere va bene ma cascare nel libro no, giammai, il libro prima o poi va chiuso e la Storia Infinita è aberrazione. E invece no: precipitare, precipitare!

 

*

 

Non scalpitate, amici del crocefisso: nonostante le mie boutade è un’utopia  ancora remota. Immediatismo a parte, ad oggi entrare nella stanza significa doverne prima o poi uscire; significa in ultima analisi costruirsi strumenti temporanei per sopravvivere al Nulla – e forse prima o poi portarli anche fuori, ma quando e come chissà. Barricamenti momentanei, meritevoli e potenzialmente produttivi di senso ma comunque sempre a rischio di sterilità. E questo perché, sia per rifiutare l’insensatezza della vita sia per creare un senso politico esteso, c’è bisogno di consapevolezza (collettiva e non già individuale). C’è bisogno della creazione di una comunità allargata, di una coscienza di classe dei giocatori di ruolo. Rivoluzionaria o nichilista che sia, ma vera.

 

Fra le due ipotesi restano comunque importanti differenze. Innanzitutto la schiera dei pessimisti avrebbe un compito assai arduo: riappropriarsi dell’escapismo, trasformarlo da palliativo gradito al potere (e inscritto nei meccanismi di funzionamento del potere) in arma di rifiuto assoluto e totale, dalla potenza virtualmente nucleare. Compito arduo e anche un po’ ingrato – ma che nel GdR trova un amico prezioso, ché se l’escapismo videoludico costa milioni e quindi del potere ha bisogno, l’immaginazione è gratis. Restano vari ostacoli di contorno (il principale dei quali è la tensione fra rifiutare tutto e mantenere in piedi quel catorcio biologico del corpo, che comunque bontà sua fa da casa alla coscienza con cui immaginare).

 

La stanza profonda 15

VR Addiction: brutto da fuori, meraviglioso da dentro, e probabilmente costosissimo

 

Secondariamente, laddove l’opzione “ottimista” troverebbe di certo molti seguaci ma ancora nessuna effettiva praticabilità (come esprimere il potenziale politico del GdR?), quella “pessimista”, seppur dal contenuto assai più semplice (chiudersi la porta alle spalle e aspettare), è destinata a solleticare la fantasia morbosa di pochi depressi – gente che non vorreste avere alle vostre feste e di cui non pubblichereste mai le opinioni.

 

Sia come sia, se si scegliesse la seconda possibilità è certo che il no alla vita andrebbe urlato con la stessa violenza con cui si calerebbe il maglio, uniti e compatti sotto la stessa sventolante bandiera. Mano nella mano verso l’estinzione, chiusi giù in cantina mentre il mondo imputridisce. Accettando che il mondo (povero lui) non sa proprio fare altro.

 

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Ripongo il libro. D’altronde, fra il nero della Cospirazione di Ligotti e il blu scuro del saggio di Houellebecq, il rosso carminio della Stanza profonda fa proprio pendant.

 

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