L’opera di Tolkien è stata spesso frutto di letture critiche parziali, volte anche a tirare per la giacchetta il Professore verso schieramenti politici o ideologici che non solo non gli appartenevano, ma che una lettura davvero critica e attenta della sua opera è in grado di far riconoscere come del tutto alieni alle sue posizioni. In particolare le figure eroiche del legendarium tolkieniano sono state tacciate di una fondamentale piattezza, monodimensionalità, fino a essere ritenute veicolo di ideali arcaici e legati agli aspetti più oscuri e guerrafondai della mitologica nordica. La verità si trova ovviamente ben più in profondità, talvolta addirittura all’opposto di queste critiche: e per una volta può essere interessante un confronto che non vada unicamente nelle direzioni più usualmente percorse, quindi verso Nord, ma che guardando anche al Mediterraneo instauri un dialogo con le istanze della letteratura greca.

 

Se davvero si vuole comprendere l’opera del Professore nel suo spettro multicolore di motivazioni, ispirazioni e di risultati, non si può prescindere da un approccio che vada ad approfondire la genesi dell’unità eroe, così fondamentale quanto peculiare e originale, a dispetto delle banalizzazioni: per farlo, dobbiamo pensare a quale fosse la professione dell’autore, ovvero l’insegnante di Anglosassone prima, e di Lingua e Letteratura Inglese poi. Come fa notare Thomas Shippey – forse il maggior critico della poetica di Tolkien – nel suo Heroes and Heroism (saggio pubblicato nella raccolta Roots and Branches), John Ronald Reuel Tolkien passava enormi quantità di tempo lavorando, e la critica ha spesso sottostimato questo aspetto: e proprio dal rapporto tra il Professore e i testi antichi, con cui sempre si confrontava, nasce il fondamentale nucleo eroico che diverrà poi il seme del suo immaginario, il soffio vitale in grado di dar vita agli eroi delle pagine del Silmarillion, del Signore degli Anelli, de Lo Hobbit e della sterminata galassia di racconti che costituiscono l’imprescindibile background storico delle loro gesta.

 

Tolkien 1

Targa commemorativa della Battaglia di Maldon. Fonte: Wikipedia

 

For his ofermode

In particolare è con lo studio del poema La Battaglia di Maldon che si possono compiere i primi passi di questo articolato cammino. Il testo, giunto a noi non nella sua interezza ma solamente in 325 versi, è il resoconto di un evento storico realmente avvenuto: nel 991 d.C. gli anglosassoni si trovavano a difendere la propria terra dagli invasori vichinghi, e proprio a Maldon si combatté una battaglia che si sarebbe rivelata decisiva per le sorti della guerra. A comandare le schiere inglesi c’era il Conte Beorhtnoth, mentre gli invasori erano guidati da un certo Olaf (per alcuni, Re Olaf Tryggvason). A separare i due eserciti, un lembo di terra sulle acque del fiume Blackwater, nell’Essex. Olaf propone una sorta di resa ai sassoni, che – in cambio di oro ed armature – avrebbero avuto salva la vita. Ma Beorhtnoth rifiuta, ed incita gli uomini alla battaglia: nonostante i vichinghi fossero ben più numerosi, la conformazione del campo di battaglia era favorevole agli inglesi. Infatti, in una situazione che fa pensare alla Battaglia delle Termopili, gli invasori dovendo passare sulla strettoia potevano essere decimati dai soldati in difesa. A questo punto, vistosi in difficoltà, il Re vichingo propone a Beorhtnoth una sorta di gentlemen agreement: chiede di poter attraversare il fiume, in modo da combattere alla pari. E la decisione presa dal comandante sassone è destinata a far discutere storici e critici letterari, poiché il testo riporta che:

“il Conte, mosso dall’orgoglio, concesse fin troppo terreno a quel popolo odioso”

(La Battaglia di Maldon, trad. di Roberto Rosselli, Edizioni dell’Orso 2009)

Nel testo originale l’espressione impiegata per motivare il gesto del Conte è “for his ofermode“, dove ofermode è tradotto tradizionalmente con temerarietà, audacia, o orgoglio come nella traduzione appena riportata: Tolkien invece sosteneva che era determinante l’accezione negativa del gesto, e preferì quindi tradurre con overmasting pride: così facendo, opera un sostanziale ribaltamento del significato del testo, e in italiano il passo viene reso in questo modo:

“Allora il conte nel suo orgoglio smisurato concesse in effetti troppo terreno al nemico, come non avrebbe dovuto fare”

(Prefazione a Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorththelm, J.R.R. Tolkien, a cura di Wu Ming 4, Bompiani 2010)

La traduzione del Professore non deve essere vista per forza come quella filologicamente più corretta – lo stesso Shippey ritiene che il collega abbia volutamente calcato un po’ la mano – ma rappresenta un punto di svolta fondamentale nel nostro percorso di comprensione. Infatti, la rilettura di Tolkien rappresenta un fondamentale giudizio etico sulla scelta di un capo, scelta che più che eroica viene definita cavalleresca: le motivazioni personali di Beorhtnoth prendono il sopravvento sul bene del popolo che era chiamato a difendere, e diventano il movente per un gesto strategicamente, storicamente ed umanamente scorretto. Il comportamento di Beorhtnoth, così simbolicamente legato all’ideale eroico nordico-cavalleresco, viene stigmatizzato da Tolkien, anche se sarebbe parziale non evidenziare come egli non rigetti in toto i valori trasmessi dal poema: anzi, i versi 312-313 racchiudono il nucleo di quella che viene chiamata la Teoria del coraggio, e sono altrettanto importanti dei versi 89-90, dove emergeva l’ofermode del Conte:

“L’animo sia tanto più fermo, il cuore più audace, il coraggio tanto maggiore, quanto più diminuiscono le nostre forze.”

 (La Battaglia di Maldon, trad. di Roberto Rosselli, Edizioni dell’Orso 2009)

Queste parole vengono pronunciate da un subalterno di Beorhtnoth che, sopravvissutogli, non vacilla e incita i compagni ad una strenua difesa, pur avendo chiaro che la morte sia oramai certa. Sono versi il cui messaggio riecheggia nelle opere di Tolkien, specchio di un eroismo “inversamente proporzionale” alle probabilità di successo così caratteristico della missione di Frodo, o della Caduta di Gondolin. Non aveva quindi rifiutato tout-court i valori cavallereschi ed eroici della tradizione anglosassone, ma più profondamente ne evidenziava una crisi, un punto di rottura identificabile proprio nel gesto del Conte. È evidente come la visione critica che Tolkien riserva al canone nordico, la sua profonda messa in discussione, poco si sposino con le letture a cui mi riferivo nei primi paragrafi: piuttosto, è stato da altri correttamente osservato come il gesto che il Professore compie nei riguardi de La Battaglia di Maldon rappresenti una sorta di parricidio. Un parricidio dell’autore moderno rivolto ai modelli passati, da cui non può prescindere ma su cui riflette criticamente. I valori eroici cavallereschi vengono messi in discussione, la visione idealizzata della bella morte viene soppiantata in favore di una Teoria del coraggio edulcorata e portata sotto la luce del buon senso, del bene comune. 

 

Tolkien 2

L’assedio di Gondolin, illustrazione di John Howe

 

Il parricidio è completo con il testo che Tolkien compone in una sorta di risposta a La Battaglia di Maldon, ovvero Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm: l’Autore immagina un dialogo tra due personaggi, Totta e Tida, impegnati nel trasportare dal campo di battaglia il corpo del defunto Beorhtnoth. Totta è un ragazzo, aspirante menestrello che sembra parlare ripetendo i versi dei poemi epici, venerando acriticamente le gesta dei caduti in battaglia e di conseguenza i valori cavallereschi; Tida invece è un vecchio agricoltore che, avendo combattuto in gioventù, incarna una visione disincantata della guerra, dando voce al pensiero di Tolkien. È infatti con le sue parole che viene ratificato il parricidio, quando egli dà a Totta la propria versione degli eventi di Maldon:

“Ahimè, la colpa fu del signore nostro,
o così almeno si diceva a Maldon.
Troppo orgoglioso, troppo generoso.
L’orgoglio l’ha ingannato, e il suo dominio
più non esiste, lode al suo valore!
Che i Normanni guadassero ha lasciato,
tant’era vago di fornire materia ai menestrelli
per le loro belle poesie.
Inutilmente nobile, il suo errore.
Archi ben tesi all’imbocco del ponte:
con pochi i molti avrebbero volto in fuga!
Be’, ha sfidato la sorte ed è caduto.”

(Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorththelm, J.R.R. Tolkien, a cura di Wu Ming 4, Bompiani 2010)

L’eroe è morto, e risulta utile solamente per poterci poggiare la testa per dormire un po’, come il vecchio suggerisce a Totta che cerca un cuscino per riposare, mentre il carro trasporta il corpo del Conte caduto.

 

L’errore  di Beorhtnoth è criticato da Tolkien con parole prese a prestito dal Beowulf, opera che egli stesso definiva come l’esempio degli eccessi di un capo: “Per volontà d’uno solo, molti devono sopportare sventure”. E questa sorta di eroe dismesso diventa la premessa per la nascita di un nuovo modello eroico: come ha fatto con Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm, Tolkien sfrutta l’invenzione letteraria per mettere in discussione il passato e plasmare il presente, e gli eroi con cui popola la Terra di Mezzo sono la risposta a un quesito che doveva averlo attanagliato per anni, e che Shippey descrive così: “Era possibile creare un’immagine alternativa e cristianizzata dello stile eroico?”[1].  La risposta di Tolkien trova espressione nelle figure di Aragorn, Théoden, Éomer… per arrivare fino agli Hobbit e Sam Gamgee.

 

La risposta letteraria del Professore, che è stata troppo spesso giudicata puro escapismo (nel senso di tentativo di estraniamento dalla realtà tramite la fuga nella fantasia), incarna invece le inquietudini e i tormenti che solamente il Novecento dei totalitarismi poteva motivare. Per Tolkien l’esaltazione acritica del cosiddetto spirito nordico poteva condurre a rischi immediati, già riscontrabili durante gli anni in cui egli scriveva nel delirio nazista: e nelle sue parole non sfugge un personalissimo rancore per quello che accadeva in Germania.

“Comunque in questa guerra io ho un bruciante risentimento privato, che mi renderebbe a quarantanove anni un soldato migliore di quanto non fossi a ventidue, contro quel dannato piccolo ignorante di Adolf Hitler […]. Sta rovinando, pervertendo, distruggendo, e rendendo per sempre maledetto quel nobile spirito nordico, supremo contributo all’Europa, che io ho sempre amato, e cercato di presentare in giusta luce.”

(La realtà in trasparenza, lettere di J.R.R. Tolkien, trad. C. De Grandis, Bombiani 2001)

Il nuovo modello eroico messo in piedi dal Professore è quindi figlio tanto dei modelli passati – accuratamente lavati da quelli che Tolkien riteneva a buon diritto aspetti negativi e potenzialmente pericolosi – quanto del proprio tempo, e trae impeto dalla sua esperienza personale: nella vita di trincea della Prima Guerra Mondiale, infatti, Tolkien aveva potuto cogliere l’insensatezza e l’atrocità della guerra. Del tutto anacronistica con la più tradizionale ispirazione nordica era anche l’idea che fosse giusto disobbedire agli ordini, qualora fossero dettati dalla follia o dalla malvagità: la disobbedienza di Pipino a Minas Tirith o di Éomer è un valore tutto moderno, e che alzando un poco lo sguardo rimanda oggi proprio alle sciagure del nazismo. Soprattutto se pensiamo agli interrogatori del processo di Norimberga, quando l’insindacabilità di un ordine superiore diventava motivazione per inenarrabili atrocità.

 

Ma il “nuovo eroe” non rimpiazza completamente il vecchio, e nell’epica tolkieniana gli elementi più crudi, o comunque legati ad un’etica discutibile, restano peculiari di alcune figure eroiche in continuo dialogo con la propria metà oscura: raramente infatti l’eroe in Tolkien è piatta espressione del più puro eroismo senza macchia. Sottile diviene in questi casi la linea che li separa dall’essere dei villain, figure marcatamente malvagie. È il caso di Fëanor, o per molti aspetti di Túrin Turambar: in essi riluce la similitudine che Tolkien stesso ha coniato per descrivere lo spirito eroico nordico. Riteneva che esso non si presentasse mai allo stato puro, come un metallo elementale e prezioso in sé stesso, ma che fosse piuttosto una lega di oro e di un metallo meno nobile: la parte più nobile era quella che conferiva all’eroe lo spirito per dimostrare coraggio anche nelle situazioni di più grave pericolo, fino a mettere a rischio la propria vita; quello meno nobile era il “buon nome personale”, l’agire per la fama e l’orgoglio, dando quindi sfogo a motivazioni marcatamente personali, fino ad egoistiche. Parafrasando le parole di Tolkien, il rischio era costituito dal dilatarsi di questo elemento, che conduce dall’agire eroico all’eccesso cavalleresco, andando non solo a trascendere la necessità e il dovere, ma addirittura interferendo con essi.

 

Tolkien 3

Túrin durante la caduta di Nargothrond, illustrazione di Ted Nasmith

 

Il pensiero corre quindi alle azioni di Fëanor, tanto gravi da divenire il motore fondamentale del Quenta Silmaril: il principe elfico infatti, dopo aver dato vita a quelle pietre tanto preziose da aver incantato persino gli dèi chiamate Silmaril, se ne affeziona con una smania così grande da condurlo a una sorta di cieca follia. Così, quando gli vengono rubate da Morgoth, Fëanor e i suoi figli si legano ad un giuramento funesto che li porterà a muovere guerra verso chiunque si interponga tra essi e le preziose pietre, amici o nemici che siano: la motivazione personale, l’ofermode, diventa il movente dell’azione.

 

Il dialogo tra luce ed oscurità, Bene e Male, è parte integrante della poetica di Tolkien, essenza degli eroi quanto di figure comprimarie come Gollum: da Boromir a Galadriel, fino allo stesso Frodo con la sua finale caduta in tentazione, determinanti sono gli esempi di personalità tutt’altro che piatte o monodimensionali. Esse sono piuttosto in continua oscillazione tra le complessità dei due diversi poli, caratteristica che dà loro una profondità difficilmente riscontrabile in grandissima parte del fantasy successivo, quasi sempre figlio dell’emulazione più o meno superficiale dell’opera di Tolkien. Per trovarla è più facile tornare indietro, alla tradizione classica.

 

For his hybris

Se nella mitologia nordica – e nello specifico in Maldon – era con l’ofermode che spiegavamo gli eccessi di questi eroi chiaroscurali, l’espressione che ricorre nella letteratura classica è ὕβϱις (hybris): questo monomero fondamentale della costruzione epica greca è tradotto solitamente con tracotanza, e ci racconta lo stesso eccesso di orgoglio che Tolkien deprecava nella sua traduzione di ofermode. E l’esempio più immediato è la vicenda di Achille: sono le sue proprie motivazioni a convincerlo a negarsi al campo di battaglia, quando Agamennone gli sottrae la schiava Briseide. Al contempo, pensando agli eccessi di un capo, è altrettanto importante ricordare le responsabilità di Agamennone: da una parte poiché rifiuta di consegnare Criseide al padre Crise, scatenando l’ira di Apollo e la peste nel campo acheo, dall’altra perché rifiuta di restituire Briseide ad Achille, conscio delle conseguenze delle proprie scelte. Così Achille, per eccesso di orgoglio lascia la battaglia, causando con la sua ira gli ormai noti “infiniti lutti” agli Achei: e quando viene ucciso Patroclo è di nuovo una motivazione tutta personale ed egoistica a riportarlo in battaglia, con la cieca furia che sempre caratterizza l’eroe antico. Così l’Iliade diventa il poema di un’assenza così ingombrante come la figura stessa di Achille, e allo stesso modo il Silmarillion – e la Prima Era in generale – vedono l’ombra di Fëanor e dei Silmaril allungarsi su tutta la narrazione. La hybris di Achille si manifesta come lo scontro tra l’individualismo di un aristocratico orgoglioso e l’arroganza del potere, come fa quella di Fëanor, nella cui vicenda il potere costituito è rappresentato dal più moderato consiglio degli altri principi elfici e dall’autorità divina, i Valar.

 

C’è eroismo nella spasmodica volontà di possesso dei Silmaril? La risposta che emerge dal testo sembrerebbe negativa, ma non è possibile esimersi dal notare come un certo fascino eroico soggiaccia nella figura di Fëanor, nella sua dedizione disperata e tragica.

 

E sono proprio riconducibili alla tragedia greca le figure di questi eroi con cui Tolkien popola la Prima Era della Terra di Mezzo: ancor più che per Fëanor, il paragone è immediato pensando a Túrin. La sua tragedia è un tripudio di rimandi a quella di Edipo, basti pensare al rapporto incestuoso che Túrin ha con la sorella, relazione che – una volta manifestatasi per quello che è – lo spinge al suicidio sulla propria spada piantata nel terreno, come fa Aiace nella tragedia sofoclea. Aiace che, nella tragedia, è sconvolto da una cieca follia simile a quella di Fëanor, poiché dopo la morte di Achille – che incarna la figura dell’eroe per antonomasia – si vede negare le armi del glorioso eroe, assegnate invece a Ulisse: è un evento che esce dalla narrazione per sconfinare nel giudizio etico di un mondo eroico che ripudia i vecchi modelli, trasformandosi in qualcosa di nuovo. Aiace infatti rappresenta l’eroe erculeo, forte quanto incapace di calarsi nella vita sociale della pòlis al di fuori dell’etica guerriera; al contrario Ulisse è l’archetipo dell’eroe-uomo moderno. In lui vivono i valori non soltanto della patria e della pòlis, ma anche della famiglia, della parola, e – in generale – del lògos. Siamo quindi di fronte ad un altro parricidio, con cui la civiltà greca “seppellisce i propri eroi, e passa oltre”, citando le parole di Wu Ming 4 in Eroe Imperfetto (Bompiani, 2010).

 

Aiace e Túrin, come ultimi esponenti di una razza guerriera ormai estinta, trovano la morte gettandosi sulla propria spada: il parricidio di un modello eroico non più di riferimento è compiuto, e il divenire delle opere di Tolkien è specchio di questo cambiamento. Infatti, se nei racconti non solo ambientati nelle epoche più remote, ma anche effettivamente concepiti dal Professore durante la giovinezza, vivono soprattutto eroi con i connotati di Fëanor, dei suoi figli e di Túrin – oltre a numerose altre figure legate allo spirito nordico – è nel Signore degli Anelli e ne Lo Hobbit che trovano spazio gli eroi nuovi.

 

Questo lavoro critico sui modelli eroici consente infatti a Tolkien di dare vita a figure come Aragorn e Faramir, in cui da una parte osserviamo elementi tipici della Teoria del coraggio, per l’autore essenza cristallina di quanto di buono c’era da assorbire dallo spirito nordico, dall’altra è evidente come ne rigettino altri: non c’è nelle loro azioni la ricerca della gloria per appagare un aristocratico orgoglio, così importante se pensiamo a Beorhtnoth o ad Achille che  – usando le parole di Pietro Citati – “ama il suo onore come un figlio”[2]. La differenza tra gli eroi della Terza Era e quelli della Prima si può proprio paragonare a quanto avviene nei poemi omerici, dove la natura semidivina di Achille lascia il posto all’umanità di Ulisse: il primo sembra rifiutare la propria natura umana, e la sua ira – vero protagonista del poema, similmente ai Silmaril per le vicende della Prima Era – trascende i sentimenti umani, ne viola i limiti. Come nota Citati, “il sacro lo avvolge di catastrofe”[3]: la sua inflessibilità e la sua ira, sorta di residuo divino, sono elementi ascrivibili anche a Fëanor, così vicino in quanto elfo Noldor all’essenza divina.  Aragorn invece – seppur con una discendenza remotamente semidivina – è simbolo delle incertezze dell’uomo moderno, e il cammino che compie da ramingo a Re lo avvicina all’esperienza di Ulisse: il lungo e periglioso ritorno a Itaca vedrà l’eroe ammantarsi di anonimato, fingersi Nessuno, fino all’arrivo a casa travestito da mendicante. Per entrambi suonano di nuovo calzanti le parole di Pietro Citati, per cui “forse qualsiasi sovranità deve essere umiliata, vilipesa, oscurata, prima di tornare a risplendere sopra il mondo”[4].

 

Tolkien 4

Minas Tirith, illustrazione di John Howe

 

La diversa natura del Silmarillion e dei racconti coevi rispetto a Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit è ben evidenziata da Thomas Honegger nel suo saggio We don’t need another hero: nella storia di Aragorn e degli Hobbit è sempre visibile il big picture, ovvero l’inquadramento generale delle fatiche degli eroi che – sebbene portati al limite della speranza e chiamati a vivere all’estremo la Teoria del coraggio – possono contare non solo sulla finale eucatastrofe (termine con cui Tolkien definì la catarsi del lieto fine, tramite il suffisso “eu-” significante “bene”,”buono”), ma anche sulla parvenza di coerenza provvidenziale che caratterizza le loro avventure. Al contrario Túrin vive la propria tragedia personale senza quest’ottica consolatoria, lasciando il lettore disturbato e, al limite, testimone di quella drammatica catarsi tragica che – guarda caso – era elemento fondante della tragedia greca.

 

Honegger ci dà inoltre l’opportunità di confrontare l’essenziale oscurità dell’eroe Túrin con la figura di Ulisse: entrambi giungono a casa dopo anni, sebbene in fasi diverse della propria storia personale, trovandola vessata da ospiti sgraditi. Entrambi vengono riconosciuti da un vecchio servitore, ma sono proprio queste similitudini a far emergere con più veemenza le differenze tra i due episodi: se Ulisse riesce dopo aver ucciso i proci a riconquistare il potere, Túrin pur versando discrete quantità di sangue fallisce. Addirittura riesce a peggiorare la situazione di chi dovrà rimanere, come emerge dalle parole di Lady Aerin e Asgon, che giudicano negativamente le sue gesta impetuose e lo pregano di non ritornare se non quando sarà in grado di portare forze sufficienti a liberarli effettivamente dal giogo degli aguzzini. Come Beorhtnoth, ha agito senza considerare le conseguenze per il proprio popolo, e infatti il critico Richard West osserva come le vicende di Túrin rappresentino un modo per Tolkien di analizzare le origini, le forme e alla fine le conseguenze dell’ofermode.

 

Nelle vicende della Terza Era raccontate nel Signore degli Anelli, l’ofermode fine a sé stesso smette di caratterizzare le azioni dei protagonisti: tutt’al più è riscontrabile in quelle di personaggi secondari, ammantate di un giudizio fondamentalmente negativo. Pensiamo a Denethor che, quando la speranza per Gondor vacilla, si allontana dai valori della Teoria del coraggio e, rinnegandoli, smette di lottare contro il Male.

 

L’eroe borghese

Ma la massima espressione della trasformazione eroica è rappresentata ovviamente dagli Hobbit: in essi è del tutto assente la tentazione data dall’orgoglio, ed è il rifiuto stesso di esso a fornire le premesse per l’eucatrastofe, la buona riuscita dell’impresa. Come osserva Emilia Lodigiani “più che l’astratto richiamo del male, gli Hobbit sentono il concreto richiamo della vita”[5]. Il loro essere umani, nel senso non troppo letterale del termine, fa pensare di nuovo alla figura di Ulisse: egli rifiuta il talamo dell’amore eterno di Calipso preferendo quello di Penelope, e brama il ritorno a casa alla stessa maniera degli Hobbit. Per i mezzuomini la ricerca della fama per un cavalleresco ideale eroico è lontana tanto quanto il desiderio di potere: proprio questa caratteristica li rende più resistenti di Uomini, Elfi e Stregoni alla malia e ai pericoli dell’Anello. Di nuovo è evidente come Tolkien si allontani dal canone, è moderna e figlia del XX secolo l’idea che il Male possa essere sconfitto solamente grazie alla rinuncia del potere, che la salvezza sia da ricercare nelle mani dei più piccoli e apparentemente deboli abitanti della Terra di Mezzo.

 

Già nelle premesse alle vicende dell’Anello, ovvero ne Lo Hobbit, abbiamo modo di incontrare nelle parole che Thorin rivolge a Bilbo un bel ritratto della vincente essenza hobbit:

“In te c’è più di quanto tu creda, figlio delle miti terre d’Occidente. Ci sono coraggio e saggezza, mischiati in giusta misura. Se fossero più numerosi tra noi coloro che preferiscono il mangiare, il ridere e il cantare all’accumulare oro, questo mondo sarebbe più lieto.”

(Lo Hobbit annotato, J.R.R. Tolkien, trad. Caterina Ciuferri, Bompiani 2012)

 

Tolkien 5

Bilbo e i Nani, illustrazione di John Howe

 

E proprio quel “giusta misura” marca la distanza dall’etimologia di ofermode, che rimanda all’esagerazione, al fuori misura, alla hybris. L’Hobbit vive in una realtà diversa da quella eroica, nella Contea il “buon nome personale” non è un premio ottenuto grazie a pericolose gesta, anzi queste diventano ironicamente motivo di vergogna: alla fine de Lo Hobbit, dove più marcatamente è presente lo stile ironico atto a smontare quello eroico che caratterizzava eventi come La Battaglia dei Cinque Eserciti, Bilbo si rende conto che la sua reputazione è rovinata per sempre. Perché una volta tornato a Casa Baggins, non sono solo i cucchiaini – sottrattigli in sua assenza – a mancare all’appello:

“A conti fatti, Bilbo  scoprì di aver perso più dei cucchiaini: aveva perso la reputazione. È vero che in seguito sarebbe rimasto sempre amico degli elfi, e avrebbe avuto l’onore di ricevere la visita dei nani, maghi e simili ogni volta che passassero da quelle parti; ma non era più rispettabile. Di fatto, veniva considerato dagli hobbit del circondario come uno ‘stravagante’, ad accezione dei suoi nipotini di parte Tuc, ma neanche loro venivano incoraggiati in quell’amicizia dai più anziani”

(Lo Hobbit annotato, J.R.R. Tolkien, trad. Caterina Ciuferri, Bompiani 2012)

Se nell’epica greca era l’aidòs, la vergogna, a motivare le azioni dell’eroe alla costante ricerca di fama e gloria eterna, qui siamo di fronte a un altro ribaltamento: nella Contea le imprese di Bilbo sono valse solamente a procurargli infamia, in una sorta di aidòs al contrario. È l’esito più rappresentativo dell’essere eroe borghese da parte dell’Hobbit, ed è Thomas Shippey  a farci notare come Tolkien abbia giocato – come suo solito – con parole ed etimologie: Bilbo è un perfetto borghese (bourgeois), e Gandalf lo trasforma in un burglar[6], uno scassinatore, così come viene presentato ai Nani dallo stregone.

 

La finale eucatastrofe del Signore degli Anelli è il risultato della rinuncia al potere, la sommatoria delle gesta di eroi che hanno saputo rifiutarlo per opporsi al Male: ma come osserva lo stesso Tolkien, Frodo come eroe fallisce[7]. Alla fine cede alle lusinghe dell’Anello e solamente l’intervento di Gollum – in una negazione del concetto di male assoluto nonché conferma del benevolo contesto provvidenziale – consentirà la sconfitta di Sauron. La summa dei valori hobbit sopravvive nella figura di Sam: Frodo non troverà pace nella Contea e dovrà salpare per le Terre Immortali, sarà invece l’umile giardiniere che, trovandosi finalmente a godere della bucolica pace della Contea, avrà il privilegio di chiudere il romanzo.

“Egli trasse un profondo respiro. ‘Sono tornato’, disse.”

(Il Signore degli Anelli, J.R.R. Tolkien, trad. di V. Alliata di Villafranca, Bompiani 2004)

 

Note:

[1] (Tolkien e il Ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm nella raccolta Roots and Branches, Thomas Shippey, ed. Thomas Honegger 2007, traduzione Roberto Arduini)

[2] La Mente Colorata, Pietro Citati, Mondadori, 2002

[3] ibidem

[4] ibidem

[5] Invito alla lettura di Tolkien, Emilia Lodigiani, Mursia 1990

[6] J.R.R. Tolkien: la via per la Terra di Mezzo, Thomas Shippey, trad. di Roberto Arduini et al., Marietti 2005

[7] La Realtà in Trasparenza, lettere di J.R.R. Tolkien, trad. di C. De Grandis, Bompiani 2001 (lettera num. 246)

 

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