Ecco la seconda menzione d'onore del nostro concorso letterario Trenta racconti italiani: Lo stupro più grande della storia di Francesco Amoruso.

Avevo un piede in una scatola di sigarette, l’altro era pronto ad appoggiarsi a terra e davanti a me c’era un giardino; un giardino strano, a dire il vero, tutto particolare: ciocche e bucce di palazzi, grattacieli e chiese spuntavano da terra come altissimi fili d’erba che correvano fino al cielo come a volergli stuzzicare, tutto in una volta, il volto.

Le cupole erano fiori dai petali dormienti in un bocciolo e in attesa di fiorire, di aprirsi, di svegliarsi. Di fianco, il mare drenava la stupida terra. Ferma, vittima e in balia delle onde, mi è sembrata veramente stupida. Diamine, fa qualcosa! Non stare lì ferma, credo di aver pensato. Non ricordo. Non so come, soprattutto perché, ma ero una briciola. Una piccola briciola alta non più di 4 centimetri. Ora che ti scrivo mi fa proprio strano pensare che fossi una briciola, però quando lo ero, non mi sembrava affatto male l’idea di esserlo. Ero una bella e piccola briciola di pane pensante.

Ho scansato un mozzicone di sigaretta, un tozzo di pane piovano, un po’ di cenere e poi ho raggiunto una macchia di muschio arrampicante, appiccicosa e vecchia di non so quanto tempo.

Alla faccia! Parlo e penso, e cammino pure!

Il cielo sembrava che stesse per rasserenarsi, perché, vedi, le nuvole si muovevano come una porta sull’uscio che piano piano si spalanca: stava entrando il sole. “Buongiorno mio re, bentornato!”.

Un’altra nuvola, quella un po’ più lontana dal sole e che aveva la forma di un coniglio marzolino, saltellava come a volersi fare spazio tra le rondini. Sciò, sciò, fate largo, vado di fretta.

Alle mie spalle una Certosa e un castello. Un castello davvero bello, grande così.

D’un tratto, un piccione grosso, grasso e puzzolente ha iniziato a grugare nelle mie vicinanze. Più si avvicinava e più era grande. Ho avuto davvero paura che mi prendesse veramente per una mollica e così, prima che mi vedesse, ho cercato riparo dietro ad una gomma appallottolata sul davanzale e appena due volte più grande di me. Muovendomi, ebbi il tempo di dare un’altra occhiata al panorama. Vidi una stazione, dei grattacieli, bottiglie sparse e una vena grossa così fatta di palazzi e

madonnelle. Per lo stupore, uscii fuori dal nascondiglio di chewing-gum.

Il piccione mi vide e mi fece: “Gru, grugru, grugrugrugru…”.

Sì, hai capito proprio bene: mi ha detto proprio che non dovevo spaventarmi, che non avrei dovuto avere paura di essere mangiata. Non so spiegarti perché riuscissi a capire il piccionese, tuttavia lo capivo e anche piuttosto bene. Comunque gli ho detto: “Sicuro? Non mi mangerai?”.

E lui – questa devi proprio sentirla – mi ha detto: “Ma figurati se mi metto a mangiare una mollica e poi, se proprio vuoi che ti tranquillizzi, ho appena mangiato…”.

Certo, così non ha acquistato per niente la mia fiducia e, infatti, a testa alta, ho risposto: “Potrebbe tornarti la fame e in quel momento che ne sarà di me?”.

“Uff”, ha grugato, scandendo il capo avanti e indietro come sono soliti fare i piccioni. “Se non ti fidi di me, ti perderai uno …”. Neanche il tempo di concludere la frase e un grosso scarafaggio si è posato sul becco del pennuto, interrompendolo. Da lì mi ha fissato, mi ha sorriso come possono sorridere gli scarafaggi, poi è saltato giù e, muovendo le antennine come due mani che si sfregano, si è avvicinato a me. “Ciao”, ha esclamato, l’insettaccio. Incredibile, capisco anche lo scarafaggese.

Ho poi notato che l’amico dalle piume raggrinzite non mi è sembrato infastidito dal nuovo arrivato e, anzi, sembrava quasi guardarlo con rispetto.

Siamo rimasti a fissarci. Come una barca sul mare arrabbiato, ho mosso la testa a destra e poi a sinistra, guardando prima il bacherozzo e poi il piccione. Nessuno dei tre parlava e – a dire il vero – mi girava anche un po’ la testa, perché il pennuto continuava a muoversi avanti e indietro senza fermarsi un secondo. Se ci penso, mi viene la nausea.

“Beh, che si fa?” dissi, lievitando il petto all’infuori.

C’è stato un attimo d’imbarazzo, quando ecco che è stata la blatta a richiamare la mia attenzione, tossendo con assoluta eleganza nella zampetta chiusa a pugno.

“Cough, cough…. Lasci che mi presenti. Mi chiamo Chiarobello e lui, invece, è il mio fedele assistente Indiciotto. Siamo qui per servirla”, e così dicendo si è prostrato in avanti con un sontuoso inchino regale, a cui ha fatto seguito quello di Indiciotto che, con l’ala destra all’indietro e quella sinistra stesa sul petto ricurvo in giù, è rimasto fermo a fissarmi per un bel po’ di secondi, in attesa che Chiarobello gli desse ordini di rilassarsi. Dio mio, era buffissimo in quell’imitazione di buffa alterigia, tutto impettito, giuro, ma mi trattenni dal ridere… d’altronde, briciola com’ero, piccola, indifesa, senza scorza, non sarebbe stato saggio inimicarmi proprio il piccione.

“A cosa devo tutta questa riverenza?” Ho sbriciolato con timore, mentre con la coda dell’occhio, il piccione, ancora pietrificato in quella scomoda posizione, ha continuato a spostare lo sguardo da me a Chiarobello, aspettando che quest’ultimo gli lanciasse finalmente un segno di intesa per metter fine alle riverenze. “Siamo qui perché lei che ci ha chiamato”.

Fece un sorriso e, con un semplice movimento delle antenne, finalmente, invitò Indiciotto al riposo.

Non ci stavo capendo niente. Li ho chiamati io? E perché? Posti i miei dubbi ai due interlocutori, Chiarobello, a quanto pare l’addetto-informazioni, mi chiarì le idee.

“Sì, vede, lei qui decide tutto… qui tutto può… per questo comunica perfino con noi umili animali…” Indiciotto faceva sì con la testa, ma io ancora non riuscivo a capire.

“Ma quindi……?”.

“Già. Cosa altrimenti…?” Disse lo scarafaggio, gettandosi a piedi uniti in una risata burlona e grassa. Indiciotto lo seguì con un tuffo a bomba.

Ridevano, ridevano, ridevano… stavano prendendomi per il culo ed io stavo per arrabbiarmi…

“Basta!” … tacquero all’istante, proprio come se io, con uno scettro di lievito e farina tra le mani, avessi avuto potere su di loro. Rimasero fissi a guardarmi. Iniziai finalmente a capire.

“Sta iniziando a capire, a quanto vedo”, indovinò il grugatore.

Già, iniziavo a capire, ma “Capire cosa”? buttai lì.

“Che ha potere su di noi e su tutto ciò che ha intorno. Può fare quello che vuole. Qui tutto è per lei”.

“Mmm…”.

“Non l’abbiamo ancora convinta?”.

“Cos’è che non va?”, gorgheggiarono, insieme, in un’unica intonazione, le due bestiole querule.

“Parli pur…”.

“Silenzio”, urlai.

“…” ; “…”

Silenzio… silenzio… rimasero in silenzio, di nuovo, così come avevo ordinato. Cazzo, funziona!

Abracadabra e… silenzio… abracadabra e… Iniziai ad andare avanti e indietro, su e giù. Rimuginavo.

Ad ogni passo un pensiero… ad ogni pensiero un passo… ad ogni passo un dubbio… dubbi su dubbi, passi su passi, costruivo la mia piramide… Indiciotto e Chiarobello erano lì, fermi, come disegni cuciti su cel animation, ma senza loop. Due fumetti senza nuvolette. Anche il sole, intorno a loro, era fermo. Mi voltati a fissare spaccaNapoli, quella fessura lunga come quella del popò di Polifemo.

“Ho un desiderio”, ho annunciato.

“Sì… già lo conosciamo…”

“Ma com…ah, sì, è vero… qui tutto è per me… mmm… allora tu, sì, dico a te, muoviamoci”.

“Si accomodi pure…”. Salii sul dorso di Indiciotto.

Chiesi allo scarafaggio di venire con noi e lui accettò con piacere, non avrebbe potuto altrimenti.

L’uccello prese la rincorsa, spiccò il volo, tirò su le zampe e insieme partimmo alla volta del cielo.

Volò alto, altissimo, più in alto di un aereo ed era perfino meglio.

Prendere un aereo è come prendere per il sedere la morte, affidando il tuo destino nelle mani del pilota, del suo vice, della scienza e, magari, perché no, fare il tifo per quest’ultima affinché vinca sulla forza di gravità: avere fede è una grande cosa, per chi ce l’ha. E comunque volare con Indiciotto fu di una sicurezza garantita. Indiciotto airline, per servirla. Giù in picchiata e poi di nuovo su: sopra di noi il cielo, color eternità, di sotto lo sterminato mare.

In gamba il nostro Indiciotto, per essere un piccione!

Poi scendemmo giù, verso la terraferma, ma sempre in volo: volevo vedere Napoli, da vicino e dall’alto, impunibile, indifesa, puttana, tutta per me.

Chiarobello iniziò a parlarmi di re, vescovi e nobili potenti, mi indicò castelli e monumenti. Io invece avevo un’altra curiosità: conoscere il cielo col filtro della gente; volevo vedere l’oro della città stendersi tra suole, reggiseni, mutande, ventiquattrore e zaini.

Improvvisammo un pic-nic sul dorso del pennuto. Lo scarafaggio aveva portato con sé, nascosto alla mia vista non so come – ma forse anche questo fu frutto di un mio recondito desiderio – un cesto pieno di leccornie: fette biscottate, miele, marmellata di fichi e tè, tutto poggiato su di una splendida tovaglia a quadri rossi; ogni cosa era tremendamente in miniatura. Parlavamo, osservavamo la città con simpatia e, intanto, gettavamo un po’ di briciole al povero Indiciotto che volava per noi. Il sole era tutto nostro e Napoli splendeva come un’ampolla di rugiada rumorosa. Poi, Indiciotto fece una curva intorno ad una nuvola, ma troppo precipitosamente ché rischiammo di cadere: con una mano trattenni un paio di tazze, prima che precipitassero giù, con l’altra mi afferrai forte alle piume di Indiciotto che gridò dal dolore; gli chiesi scusa, si limitò a rispondere con un sorriso. Alla fine, non cademmo, anzi ridemmo, pieni di vita, pieni di cibo. Chiarobello disse qualcosa su quella curva un po’ naif. Indiciotto rispose a tono, “Chiarobello, lei è un cacasotto”.

Ridemmo di nuovo.

Poi, d’improvviso, come uno schiaffo in mezzo al viso dato da un amico, mentre stai sganasciandoti di risate, in buona compagnia, quando meno te l’aspetti, ecco che calò il buio. Il sole si fece scuro, privo di luce, inutile. Il cielo divenne nero, assente, divorò la città.

L’uccello sbandò di nuovo, ma questa volta nessuno rise. Iniziò a planare su di un lato, seguendo la scia di un coltello di vento improvviso. La tovaglia precipitò giù. Riuscii, come prima, ad afferrare qualcosa, ma stavolta salvai soltanto due tazzine. Il resto cadde insieme alla tovaglia.

Che succede? Indiciotto e Chiarobello tacevano.

Ci fu un’esplosione, poi un fischio assordante. È la guerra, pensai. Guardai il Vesuvio, e capii: cacava lava, affetto da dissenteria cosmica. Poi, la terra si aprì e dal sottosuolo sbucarono degli esseri neri, come ragni giganti. Avevano gli occhi rossi, come fuoco, impugnavano dei forconi di ferro lucido e arrugginito, ma forse non era ferro, forse non era arrugginito. Lanciavano grida, agghiaccianti, stridule, come un trapano nel muro, come le unghie spinte sulla lavagna. Strillavano in lingue diverse, alcune incomprensibili. Uno disse qualcosa in spagnolo, ma non ricordo cosa, mentre inseguiva le persone come un torero codardo ed eccitato dal sangue e dalla preda già sopraffatta. Ebbi un brivido… Era l’apocalisse e Napoli colava a picco. Correva dietro al terremoto, all’apocalisse stessa, all’eruzione senza nemmeno provare a fermarsi… e nessuno piangeva, non c’era disperazione, non c’era spazio nemmeno alla rassegnazione. Napoli correva, cadeva, bruciava, senza obiettare, si lasciava sculacciare senza neppure gemere di eccitazione: lo stupro più grande della storia.

“Sei la città degli inganni e dei nascondigli… brucia, brucia, brucia… porca puttana, brucia…”, gridò una bestia grossa, grigia e che odorava di carta bruciata. Era circondato da altre sette, otto o nove creature simili.

“Sì, brucia, brucia… che dalla cera passiamo al frustino…”.

Non ci avevano ancora visti, o forse non eravamo ancora di loro interesse.

Il fuoco zampillava da ogni parte, come starnuti continui della terra, degli alberi, delle nuvole, del demonio. Chiarobello imprecò, ma non ricordo bene cosa disse. Mi strinse la mano, mentre il piccione cercò riparo su di un ramo, ma fu tutto inutile: dalle foglie uscì come una scaglia di resina infuocata che gli bruciò le zampe. Pianse. Pianse, come quando si desidera la morte. Come quando la morte è l’unica soluzione, ma ami la vita. Fu costretto a riprendere quota nel cielo, ma era troppo stanco per continuare a volare.

“Resisti, ti prego…”, urlai con quanto fiato avevo in pancia.

Non rispose, ma gemendo, agitò le ali, provando a opporsi al vento che continuava a reciderci il fiato con folate d’aria che si facevano via via sempre più gelide. Indiciotto sembrò poter tener testa alle intemperie ma poi iniziò a piovere e la pioggia era rossa, come vino, e sottile e pungente, come tanti aghi di ghiaccio che si conficcavano addosso, fin dentro la pelle, fin sotto la pelle.

I palazzi precipitavano nel vuoto, portandosi dietro tetti, antenne, mugolii, le anime, le grida.

Riuscimmo, non so come, ad arrivare a piazza Municipio. Indiciotto ansimava, Chiarobello piangeva, il Maschio Angioino non c’era. Era stato succhiato dalla terra, spinto giù da un mulinello di terra, merda e lava.

Il mare imbastì una lotta contro tutto e tutti, o almeno ci provò: si alzò in cielo, alto, forte, come a voler trascinare giù ognuno di quei demoni; ruggiva e, come un pugile già sconfitto, nero come un livido, ma con l’orgoglio ancora integro, si scaraventò sulla terra con tutto il suo corpo. Ma bastò l’urlo di una bestia per impaurirlo, per evaporarlo. Un grido e poi pfff, vapore.

Poi ci videro. Uno di loro ci puntò contro il forcone, urlai e pregai.

“Madonnina mia bella, vergine Maria, aiutaci tu”.

Dal forcone partì qualcosa, un raggio, un fulmine, una fiamma, non ricordo. Chiarobello mi spinse via, nel tentativo di salvarmi, ma fu tutto inutile: sotto di me c’era il vuoto, l’eternità, il fuoco, e mentre sprofondavo vidi quel nonsocosa cogliere in pieno i miei amici. Fine. Epurati. Scomparsi.

Morti. Come se non fossero mai esistiti. Di nuovo, piansi, mentre anche le nuvole andavano sciogliendosi. Ricordo solo una voce, forse quella di Chiarobello prima di…, sì prima di…, insomma, una voce, un consiglio, l’ultimo tentativo di salvarmi!”.

“Svegliati…” Svegliarmi?

“Svegliati, tesoro mio…”. Tremavo. Tremava il corpo, tremava il mondo, tremavano gli occhi dietro al tremolio delle lacrime. “Tesoro, svegliati! Svegliarsi è la soluzione! Stai facendo soltanto un incubo”.

 

Parole di

Francesco Amoruso

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Se il nostro concorso letterario ti appassiona leggi anche la prima menzione d’onore, Il Sosia di Andrea Anforini.