Luciano Bianciardi fu traduttore, giornalista, ma soprattutto scrittore.

Una mattina di fine giugno del 1954 Luciano Bianciardi arriva alla stazione di Milano Centrale da Grosseto. Milano in quel periodo è un cantiere a cielo aperto frutto del boom economico, versione nostrana del sogno americano. In quella città diventerà giornalista, scrittore e traduttore. Ma non solo. Bianciardi in quella città diverrà un profeta e un bugiardo: nei suoi libri verrà svelato cosa accadrà dei decenni successivi al boom economico, smascherando le promesse da marinaio che il progresso post-bellico aveva fatto a milioni di italiani. Luciano Bianciardi fiuta la grande menzogna, la stana e la rivela irridendola nei suoi libri. Ma con se stesso e con i suoi cari non si comporta in maniera altrettanto sincera e premurosa.

 

Bianciardi fino ad allora è vissuto in Maremma ed ha girato l’Italia solo per combattere una guerra di cui si sarebbe francamente infischiato. Dopo l’8 settembre inizia a fare da traduttore per le truppe americane che risalivano l’Italia: prendere così tanta dimestichezza con l’inglese sarà ciò che gli darà da mangiare  una volta conclusasi la guerra. Tornato in Toscana, nel 1948, si laurea in Filosofia e sposa Adria, una ragazza umile, buona ed eccessivamente diversa da lui: un matrimonio frettoloso e mal assortito da cui nasceranno due figli. Inizia a lavorare come insegnante d’inglese alle scuole medie, poi diventa direttore della biblioteca cittadina e segretario del cineclub; in seguito inizia a collaborare, come pubblicista, sia con la stampa locale che con importanti riviste nazionali.

 

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Luciano Bianciardi a Milano

 

Nel 1953, durante una riunione a Roma della federazione dei circoli del cinema, conosce Maria, giovane intraprendente e rivoluzionaria: se ne innamora subito e perdutamente ed inizia una pericolosa relazione extra coniugale che lo porterà a scindersi tra Roma e Grosseto. Come spesso accade nei momenti di massima indecisione arriva un imprevisto: Giangiacomo Feltrinelli, giovane, stravagante ed inquieto imprenditore, con la passione per l’editoria e per la lotta armata, sta dando vita ad una “iniziativa cultural-editorial-politica” che necessita di menti brillanti e  che diverrà, in seguito, la casa editrice che oggi conosciamo. Luciano Bianciardi dapprima collabora, poco e male, con una rivista chiamata Cinema Nuovo, poi gli vengono affidate delle traduzioni di libri dall’inglese. Nel frattempo vive in una pensione con alcuni fotografi, allora squattrinati, tra cui Mario Dondero; Bianciardi pone il suo baricentro in Zona Brera, più precisamente al Bar Giamaica, dove si serve grappa gialla che aiuta a non pensare, se non al “neocristianesimo a sfondo disattivistico e copulatorio”, nuova religione, di cui egli è il primo adepto.

 

Convince Maria a seguirlo, trascinandola consenziente a Milano, in un clima surreale in cui Bianciardi fa finta di non accorgersi che potrebbe perdere in un solo momento lavoro, famiglia e salute. Quel momento arriva nel 1956, annus horribilis: al Bar Giamaica si fanno sempre le ore piccole e Luciano Bianciardi arriva in ufficio al mattino in ritardo e con i postumi tipici delle brutte sbronze, condizioni poco consone all’iniziativa cultural-editorial-politica voluta da Feltrinelli, che gli dà il ben servito, chiedendogli gentilmente di continuare a tradurre per lui, ma da casa. In realtà lo sta licenziando ed entrambi lo sanno.

 

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Il bar Giamaica in uno scatto datato 1953-54

 

Come se non bastasse una mattina di gennaio del 1956 Adria, la signora Bianciardi, arriva con i due figli al seguito alla stazione di Milano Centrale da Grosseto, con quello stesso treno che il marito aveva preso un anno e mezzo prima. Si presenta nella stanza dove Luciano e Maria dormono, anche se il sole è già alto: le grida della moglie mettono in fuga l’amante, che si rifugia nella stanza del fotografo Dondero. Luciano implora un perdono che non arriverà mai: troppe bugie, troppo grandi, raccontate troppo a lungo. Luciano e Maria, legati da un amore ormai alla luce del sole, sebbene illegittimo, cambiano alloggio. Pagano l’affitto traducendo “a cottimo”: lui traduce e le detta, lei scrive a macchina; bevono, traducono e fanno all’amore. Maria resta incinta e ad Agosto 1958 nasce Marcello Jatosti, ché allora i figli illegittimi non si meritavano il cognome del padre.

 

Luciano Bianciardi in quegli anni scrive i primi due libri di quella che venne definita, non da lui, la sua trilogia: Il lavoro culturale, nel 1957, e L’integrazione, nel 1959. I libri non vendono quanto Luciano vorrebbe, né quanto dovrebbero. Parlano della beffa del progresso, della delusione per un presente che s’era millantato grandioso ed invece è solo smog, cemento armato, sfruttamento dei lavoratori d’ogni tipo e indifferenza per il prossimo. Inoltre parlano della provincia, oasi di serenità, che Bianciardi guarda con la nostalgia rassegnata di chi sa che non ci tornerà più. Bianciardi scrive ognuno dei suoi libri in pochi giorni, di getto, per dar sfogo al suo malessere sempre più palpabile. Questo fa sì che la sua attività di traduttore non venga ostacolata ed è così nel 1960 si trova a tradurre il Tropico del cancro ed il Tropico del capricorno.

 

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Luciano Bianciardi ha tradotto Tropico del cancro ed il Tropico del capricorno

 

L’autore di quei libri, Henry Miller, è screanzato, voluttuoso ed irriverente; inoltre non disdegna gli alcolici, i bordelli e il ridicolizzare i ben pensanti. Luciano Bianciardi ne resta ammaliato perché traduce qualcosa che avrebbe potuto scrivere lui, scritto come avrebbe voluto scriverlo lui. Tradurre i Tropici gli dà la spinta di cui aveva bisogno per completare la sua non-trilogia: nel 1962 Luciano Bianciardi decide di mettere al bando le perifrasi, e di raccontare lo scempio edulcorato che vede in prima persona singolare. È così che nasce La vita agra, autobiografia spietata di un traduttore che ride cinicamente dello squallido miracolo italiano.

 

Il libro non piace a Maria che non si ritrova nei panni di Anna, compagna del protagonista, ma entusiasma critica e pubblico. Indro Montanelli s’accorge di quanto è affilata la penna di Bianciardi e gli offre di collaborare col Corriere della Sera. Lui, travagliato, rifiuta: pensa che il giornale più letto d’Italia non sia adatto ad uno come lui, anarchico in quello che dice, sconclusionato in quello che fa.

 

“Anziché mandarmi via a calci in culo, mi invitano a casa loro”

 

La vita agra spopola nella Milano dei salotti borghesi e del Campari nel vermouth. Luciano Bianciardi ha scritto un libro in cui ha irriso gli stessi che ora lo invitano alle feste e lui non se ne perde una, ma quest’ennesima contraddizione lo getta nell’afflizione e nello sconforto. Si sente incompreso e vittima di un sistema che ha capito quando ormai era troppo tardi: ‘on n’échappepas à la machine’ dirà Deleuze una dozzina di anni dopo, cercando di spiegare come dalla macchina sociale non scappa nemmeno colui che di mestiere fa il sabotatore della macchina sociale stessa.

 

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Dalla macchina sociale non scappa nemmeno colui che di mestiere fa il sabotatore della macchina sociale stessa

 

Luciano beve sempre di più e dorme sempre di meno. La vita mondana milanese, fasulla ed ingannevole, lo sta logorando nel corpo e nell’anima. Maria lo capisce e decide di portarselo via da Milano, a Rapallo. In Liguria lavora e scrive a ritmi fiacchi e nemmeno i viaggi (prima negli Stati Uniti, poi in Israele) sembrano dargli vigore: al vedere nuove città gli viene inspiegabilmente in mente Grosseto, quella città dove due bambini sono ormai cresciuti senza aver mai visto il padre. Il senso di colpa, finora latente, per averli abbandonati fa breccia nella sua fragilità e Luciano inizia a sentirsi inadeguato, oltre che a Milano e a Rapallo, anche a Grosseto, quell’oasi di provincia tant’osannata nei suoi libri.

 

“Io non capisco tanta gente che sgobba per farsi la casa bella nella città dove lavora, e quando se l’è fatta sgobba ancora per comprarsi l’automobile e andare via dalla casa bella”

 

La depressione e l’alcolismo di Luciano prendono una brutta piega e Maria decide di riportarlo a Milano, visto che il soggiorno a Rapallo sembra addirittura aver peggiorato le cose. Lei però non ci sta a veder morire l’uomo che ama, così decide di andarsene lontano, a Parigi, risparmiando perlomeno a loro figlio lo scempio di un padre cirrotico. Rimasto solo viene accudito dallo scrittore Giovanni Arpino a cui confessa:

 

“Sto crepando, ma ci metto troppo. Morire è difficilissimo”.

 

Il 14 novembre 1971 Luciano Bianciardi muore, e finisce la sua breve vita agra.

 

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Luciano Bianciardi è morto il 14 novembre 1971

 

Questa storia triste non sarebbe mai emersa dall’oblio se dopo vent’anni Pino Corrias non l’avesse raccontata in un saggio dal titolo Vita agra di un anarchico (Baldini & Castoldi edizioni, 1993): i libri di Bianciardi ricominciarono a vendere copie e vennero ristampati dalla Feltrinelli, casa editrice nata dall’“iniziativa cultural-editorial-politica” a cui lo stesso Luciano Bianciardi aveva lavorato e da cui venne allontanato.

 

A leggere oggi Il lavoro culturale, L’integrazione e La vita agra ci si trova una lungimiranza inquietante, premonitrice, dell’autore. Un autore che mise in luce in tempi non sospetti i problemi che affliggono la società d’oggi, ma che riuscì a riderne, o quanto meno a sogghignarne. E si ha la tentazione di chiedersi come possa non aver fatto successo uno così. La risposta ce la dà Bianciardi in una lettera che scrisse ad un amico, cinque anni prima di morire:

 

“Per me successo è solo il participio passato del verbo succedere”.

 

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