William Faulkner riscrive la storia della letteratura con il suo Urlo e il furore.

 

“Life.. is a tale told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing”

William Shakespeare, Machbet.

 

L’urlo e il furore (1929), capolavoro di William Faulkner, è la storia dei Compson, una famiglia del profondo Sud degli Stati Uniti nell’anno della Grande Depressione. È il tragico affresco della decadenza della “grande” famiglia americana, ritratta in tutto il suo misero squallore.

 

La suddivisione del romanzo in quattro parti permette a William Faulkner di narrare gli eventi facendo ricorso alla tecnica dello stream of consciousness (marchio dei migliori romanzi faulkneriani), dedicando le prime tre alle voci di Benjy, Quentin e Jason (tre dei quattro fratelli Compson; la quarta, Caddy, pur protagonista della scena, non avrà propria voce in capitolo, risultando così delineata solamente attraverso le voci dei fratelli). La quarta ed ultima parte invece sarà descritta in terza persona e vi avrà un ruolo preponderante Dilsey, la cuoca nera al servizio della famiglia Compson (che oltre ai quattro figli consta anche del padre Jason Compson III, della madre Caroline e della figlia di Caddy anche lei di nome Quentin).

 

Come se non bastasse l’utilizzazione di più voci narranti, l’autore inserisce ulteriori elementi di complessità nel romanzo quali la continua alternanza del discorso diretto con quello indiretto e i continui salti temporali. A proposito di alinearità temporale i quattro capitoli descrivono quattro diverse giornate: Sette aprile 1928, Due giugno 1910, Sei aprile 1928, Otto aprile 1928.

 

William Faulkner 1

William Faulkner con la sua amata pipa

 

La prima voce è quella di Benjy, il figlio trentatreenne scemo che come tale vede le cose con occhi distorti, leggendo il mondo attraverso esperienze sensoriali.

 

“Caddy mi teneva tra le braccia e io sentivo il rumore di tutti noi, e del buio, e di una cosa che aveva il suo odore. E poi vidi le finestre, dove gli alberi bisbigliavano. Poi il buio prese a muoversi in forme lucenti e silenziose, come fa sempre, anche quando Caddy dice che ho dormito.”

 

La seconda parte si svolge diciotto anni prima e ci è narrata dalla voce di Quentin, il fratello partito di casa per andare a studiare al college. È qui che William Faulkner condensa gran parte del senso della sua intera poetica regalandoci forse i momenti più alti della sua intera produzione letteraria. L’insensatezza della vita, la caducità del tempo, la torbidità dei rapporti familiari (distorti e malati), l’impossibilità di riscattarsi da un destino drammatico.

 

“Se di là ci fosse almeno un inferno: la pura fiamma noi due più che morti. Allora tu avrai soltanto me allora solo me allora noi due tra l’esecrazione e l’orrore oltre la pura fiamma.

 

Questo il disperato appello di Quentin, perversamente innamorato della sorella.

 

La terza (dedicata al figlio Jason) e la quarta (come detto in terza persona) contribuiranno a fare maggiore luce sull’intera vicenda e sui suoi effettivi contorni. Forse alla fine del viaggio si potrà anche scorgere un bagliore di luce. Ma al di là dei singoli eventi narrati da William Faulkner ciò che risalta maggiormente è il quadro, globale e disperato, di un’intera umanità che ha irrimediabilmente smarrito il senso ultimo della vita. E alla maniera di Schopenhauer oscilla incessantemente tra il dolore e la noia. O se preferite tra l’urlo e il furore.

 

“Quando l’ombra del telaio si disegnò sulle tendine era tra le sette e le otto del mattino, e fui di nuovo dentro il tempo, sentendo il ticchettio dell’orologio. Era quello del nonno e quando me lo diede il babbo disse: Quentin, eccoti il mausoleo di ogni speranza e desiderio; è molto probabile, purtroppo, che te ne serva anche tu per ottenere il reducto absurdum di ogni umana esperienza, che non farà per i tuoi bisogni individuali più di quanto fece per i suoi o per quelli di suo padre. Non te lo do perché tu possa ricordarti del tempo, ma perché ogni tanto tu possa dimenticarlo per un attimo e non sprecare tutto il tuo fiato nel tentativo di vincerlo. Perché, disse, le battaglie non si vincono mai. Non si combattono nemmeno. L’uomo scopre, sul campo, solo la sua follia e disperazione, e la vittoria è un’illusione dei filosofi e degli stolti”.