Marchi commerciali, echi di programmi tv, aspetti marginali e raccapriccianti di storia contemporanea.

Nel seguente articolo farò delle considerazioni narratologiche e retoriche su Porn Food, ultimo romanzo di Andrea Campucci, uscito quest’anno per i tipi di Leone Editore. Invece di raccontare distesamente la trama, mi limiterò a chiamare in causa gli snodi narrativi laddove funzionali al discorso. Non riassumerò dunque Porn Food affinché voi lo compriate, ma metterò lo strumento critico in reazione psicofisica con quest’opera che merita senz’altro attenzione.

Campucci non è certo un novizio. Al suo sesto romanzo sfoggia una prosa di alta caratura, prosciugata da qualsiasi tic dilettantistico. La mano è ferma, il fraseggio pieno e ostinato, la voce impostata su una prima persona omonima all’autore (“Andrea” il nome del narratore protagonista), segno che Campucci non cerca l’estraniazione e la distanza dal suo mondo narrativo. Ciononostante, di elementi che rimandano alla separazione, all’inconciliabilità e alla scissione, Porn Food è pieno. Prima di arrivare a trattarne qualcuno, vorrei soffermarmi ancora sull’aspetto retorico, perché è stato il primo elemento a colpire la mia attenzione fin dalle righe iniziali. Si tratta di una lingua tirata come un tamburo, sapiente e nervosa, ineccepibile. La pagina è a saturazione totale: la voce narrante schizza come uno yo-yo tra marchi commerciali, echi di programmi tv, aspetti marginali e raccapriccianti di storia contemporanea – usati spesso, questi ultimi, per veicolare gli squarci psichici aggressivi del protagonista (in tal modo ho scoperto cosa sia l’Unità 731, che nella mia ignoranza non conoscevo).

 

Il romanzo inizia fulmineamente, col protagonista sul punto di iniziare a masturbarsi: Quel giorno di fine marzo mi svegliai con l’idea di farmi una sega. Non riuscendoci, si alza, guarda la televisione, si veste e va a uccidere un uomo in ospedale: L’idea era raggiungere l’ambulatorio in via D’Annunzio e piantare una pallottola nel cranio del primo imbecille che mi fossi trovato fra i piedi. “L’idea” è il comune denominatore della masturbazione e dell’omicidio: ciò che non si risolve sul piano dell’intimità deve essere estroflesso: la mancata eiaculazione si fa sparo. Il protagonista è dunque un io fortemente pulsionale in cui si addensano tragicamente eros e thanatos; è l’eroe di un universo libidico in cui all’interazione è sostituita l’interattività: col suo smatphone-scettro può modificare l’ambiente circostante ordinando roba su ebay, può entrare nell’intimità della gente usando Facebook, tendere all’onniscienza seguendo dirette streaming… nessuna legge “paterna” lo dissuade dall’assecondare il lacaniano godimento della Cosa, al contrario, persino l’omicidio sembra rientrare in questa sfilata di possibili ‘depotenziati’ e ridotti alla dimensione di un clic. In tal senso, la scena iniziale di Porn Food fa collassare il clic informatico su quello dell’arma da fuoco: per il narratore l’aver ucciso è un po’ come quando, da piccoli, capita di voler schiacciare uno scarafaggio in giardino per capire com’è fatto dentro. Non tanto un atto di crudeltà, e nemmeno il frutto di una ponderazione filosofica dostoevskiana, bensì una mancanza di gerarchia dei valori che sfocia nella sperimentazione spicciola. Il romanzo di Campucci, infatti, non è interessato all’elaborazione del senso di colpa, il quale non solo è assente, ma è sostituito da qualcosa di totalmente opposto:

No, in quello che avevo fatto non c’era proprio niente di male. Ripensandoci, mi parve più che normale essere arrivato a tanto.

 

Porn Food 4

Vita e Morte, Gustav Klimt, 1910

 

A cosa è interessato, invece, Campucci? Bella domanda, alla quale non è facile rispondere. Se le sequenze conclusive del romanzo getteranno una nuova luce sul protagonista-omicida, dando il la a chiavi di lettura che lasciamo al lettore interessato, è innegabile che la narrazione avanzi per mezzo di una serrata critica ai costumi. L’espressione risulta tuttavia ambigua, perché l’atto di separare, di “criticare” (etim. krino), non sussiste: in Porn Food non emerge mai un controcanto, un antidoto, né sul piano morale né tramite le infinite possibilità conoscitive della letteratura. Campucci sceglie di mandare la sua macchina romanzesca a tutta velocità verso il finale, quindi vuole la catastrofe, da intendersi in senso strettamente etimologico, cioè il capovolgimento degli eventi. Per questo Porn food – come del resto tutti i libri – dev’essere letto fino all’ultima riga per poter riflettere in maniera sensata sul coacervo bulimico che mette in mostra. Dunque, se di critica ai costumi si tratta, è una critica che esibisce il sintomo per farlo deflagrare.

 

Per riprendere le considerazioni di retorica, tra le righe di Campucci ho intravisto la volontà di stare nello scatologico con eleganza, e nell’amorale con indifferenza. Questa tensione di opposti si percepisce drizzando le orecchie su alcuni passaggi. Quanto più la materia trattata si abbassa, diventa truce e cinica, tanto più le figure dell’ironia si affollano. Si tratta di un aspetto ravvisabile in generale in tutta l’opera: un gusto smodato per l’iperbole colta-pop e la comparazione inusuale. Per il primo caso possiamo citare un passaggio come questo, tra i tanti:

E lì, tra i commenti barocchi e inutilmente lirici di amici o familiari, mi ero divertito ad aggiungere certi miei punti di vista, che prevedevano immagini di scontri tra sandinisti e contras nel Nicaragua degli anni Ottanta, fotografie di teschi umani reperite in Cambogia ai tempi del genocidio degli khmer rossi o filmati di repertorio sul disastro del Vajont.

È come se il narratore “spurgasse” fuori questi frammenti, e lo fa procedendo nell’enumerazione, artificio ben noto alla scuola postmoderna. Per il secondo caso, ovvero la tendenza a una comparazione eccentrica, mi sono segnato questo passaggio – del tutto secondario e marginale ai fini della trama – in cui ho ammirato la verve retorica di Campucci:

«Allora come sta? Ce la fa a reggersi in piedi?» chiese il produttore a Nicola. La sua risposta avrebbe fatto saltare il monocolo a un gentiluomo, ma a saltare furono i nervi dell’impresario, quando si sentì dire che per quel giorno neanche una bolla papale avrebbe rimesso in arnese il vecchio Brando.

Nella stessa arcata frastica compaiono una comparazione ironica (il monocolo) e un’iperbole (la bolla papale), entrambe elaboratissime. La lingua del narratore ha di questi eccessi che scemano leggermente verso il finale, forse in concomitanza dell’incredibile rivelazione che il lettore si troverà sotto gli occhi. Detto in formula, se gli eccessi rientrano in un quadro estetico funzionale all’economia del racconto, allora una lingua dopata, ‘idroponica’, è perfettamente congeniale agli scopi dell’autore.

 

Porn Food 3

Andrea Campucci, l’autore di Porn Food

 

In questo doping generalizzato del testo ci sono degli elementi “rigidi” – i marchi commerciali – che Campucci rifiuta ostinatamente di fondere in un blocco estetico unico. La lezione principale – per fare un discorso di intertestualità – mi sembra riconducibile a quella dell’Ellis di American Psycho, molto meno a David Foster Wallace, per il quale l’universo del marchio è una contingenza da sforzare e da cui far riemergere l’umano. In Porn Food l’umano non riemerge se non – come abbiamo detto – nella forma della catastrofe psichica dolorosa, della peripèteia beffarda che non lascia scampo. Non c’è quella tensione umanistica, intesa come “pietas” nei confronti dei personaggi, che siamo abituati a trovare nell’americano del Midwest. In un certo senso, la diversità tra il black humour che troviamo in Campucci e quello che troviamo in Wallace assomiglia alla distanza che corre tra Aristofane e Plauto: se il commediografo latino muove al riso mostrando un padrone che bastona a sangue un servo, così Campucci ipnotizza il lettore scoperchiando il fondo omicida del suo protagonista alter ego: paraplegiche cinesi costrette a praticare fellatio, macabri pacchi postali inviati a estranei e conoscenti per terrorizzarli, improvvise ideazioni di torture come metodo di “decompressione” di un io dalla tensione libidica fortissima. Quel che muove al riso è la grottesca sopraffazione che il più feroce compie sul più inerme; è la gratuità dell’atto che suscita il ghigno. Stiamo partendo per la tangente: non è questo il luogo per una comparazione Wallace-Campucci, ma volendo chiosare il discorso ci basti dire che, per quanto Infinite Jest abbondi di devianza e turpitudine, nell’autore di Porn Food c’è un gusto del carnevalesco che rimane vieppiù estraneo a Wallace. Mi riferisco alla succitata rappresentazione del dominio sull’altro, sia in termini prettamente fisici (omicidio), sia estetici (il possesso di oggetti raffinati) sia culturali (l’io colto nichilista che sbeffeggia i semplici). Come dicevamo, è verso Ellis che questo modus scribendi spinge il talentuoso Campucci. L’uso dei marchi commerciali, dunque, rappresenta l’elemento rigido che resta “fuor di retorica”. Se Wallace ne usa a bizzeffe per rappresentare quell’“acqua” in cui nuotano gli umani, in Campucci i marchi assumono la funzione di proporre identità, appartenenza e, non da ultimo, potenza. Il marchio ha funzione attiva nella psiche del personaggio, non è solo un dato ambientale come per le zebre la savana o per gli uccelli il cielo. La scena della vestizione pre-omicida, ad esempio, fa pensare all’assunzione di una seconda pelle prima di uscire di casa ed entrare nell’elemento pubblico:

Senza fare una piega, indossai un paio di pantaloni Dockers in cotone elasticizzato, una cintura Bugatti, le mie stringate in pelle Nero Giardini, una camicia slim Antony Morato e una giacca monopetto grigia in lana Lagerfeld.

La psiche del protagonista è un tutt’uno con gli oggetti, si sostanzia e si bea nel possesso di questi. Non ci vengono mai descritti i suoi lineamenti, la sua fisicità emerge dalla messe dei marchi/significanti. Ma la trattazione del marchio commerciale ha conseguenze anche sul piano naturalistico, portando a risultati interessanti (e qui è ravvisabile la somiglianza con certi passaggi wallaciani). Ad esempio, quando il protagonista si trova a girovagare per la discarica – luogo al quale approda dopo l’omicidio – il suo occhio si sofferma sull’ambiente e ha modo di coglierne i dettagli:

Poco più avanti, due grossi uccelli incatramati si stavano passando, da becco a becco, dei frammenti verdastri, probabilmente i resti di componenti Nvidia Fx 370 dual dvi pci Express a 6,4 giga/s di memoria. In basso, scaglie provenienti da una scheda madre Gateway Intel 815 formavano una specie di giaciglio protetto da pezzetti di memorie ram Kingston da quattro giga, otto chip e da cavetti Garmin usb. Facendo attenzione ai gabbiani al lavoro, vidi all’interno del nido tre mostriciattoli senza piume con il becco spalancato e gli occhietti impauriti.

Benché il protagonista sia un tutt’uno con l’universo del marchio, quest’ultimo è irrimediabilmente scisso dalla natura, cosa che traspare con forza dal dettato. In parole povere, Andrea personaggio fa parte di un mondo che non fa più parte del mondo naturale. Ciò che mi ha dato da pensare, durante la lettura, è l’irrudicibilità di queste componenti lessicali-commerciali, il loro galleggiare nel magma narrativo senza sciogliersi in metafora. Dimentichiamo Wallace, che adotta il marchio per le ragioni già ricordate (la zebra, la savana, gli uccelli), e consideriamo che la penna di Campucci è capacissima di metaforizzare gli oggetti per dar loro carattere, restando su esempi naturalistici:

Le geometrie dei vigneti e dei filari di ulivi, che s’arrampicavano sulle collinette intorno ai binari, erano appena sgualcite da quel tempaccio e, visto dall’interno del treno, il paesaggio somigliava a una trapunta affogata in una vasca d’acqua sudicia. Oppure, poco più avanti: La pioggia si era fatta violenta e il cielo era imbrattato di nuvole sporche e rissose.

Dunque, abbiamo un panorama avvicinato a una trapunta bagnata, nuvole che richiamo lo scontro fisico… piccoli esempi per dimostrare come la lingua dell’autore sia capacissima di trasformare l’evidente in qualcos’altro, ciò che si vede in ciò che è sotto traccia. Tuttavia, quando il narratore osserva il panorama della discarica, la lingua subisce un violento “collasso denotativo” – lo subisce, in realtà, ogni qual volta vengono fuori i marchi – è come se rifiutasse con tutta se stessa di amalgamare l’artefatto tecnologico in un blocco unico. In tal senso, Porn Food esibisce senza dubbio l’insanabile spaccatura avvenuta tra l’equilibrio naturale e l’umanità con le sue protesi.

 

Porn Food 1

Bret Easton Ellis

 

Non è casuale che questa evidenza si palesi nella scena della discarica, e non è casuale neppure il fatto che Campucci scelga tale scenario come ambientazione del romanzo. Dopo la separazione dal consorzio umano determinata dall’omicidio, il protagonista incappa nel luogo-emblema della separazione: così come il cimitero e l’ospedale, anche la discarica incarna un profondo discrimine, è “stazione di confine” tra funzionalità e inutilità, forma e amorfo, dicibile e indicibile. Abbiamo accennato a un lato carnevalesco che emerge da quest’opera, e in effetti lo scenario della discarica ben incarna quella “natura ambivalente” che Bachtin, nel quarto capitolo del saggio su Fedor Dostoevskij, riconosce alle manifestazioni del carnevale:

Tutte le immagini del carnevale sono uniche e duplici al tempo stesso, esse uniscono in sé ambedue i poli dell’avvicendamento e della crisi: nascita e morte (l’immagine della morte pregna di vita), la benedizione e la maledizione, […], la lode e l’ingiuria, la gioventù e la vecchiaia, l’alto e il basso, il volto e il deretano, la stoltezza e la saggezza (Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Einaudi, p. 164).

Perché questo collegamento? Se pensiamo all’Andrea personaggio bardato Lagerfeld e Nero Giardini, intento a brandire smartphone e Luger Parabellum, vediamo senz’altro un’entità per la quale l’oggetto rappresenta il surrogato della vita. Nel suo viaggio, tuttavia, approda a un luogo in cui tutto ciò che per lui è fonte di vita subisce deformazione e si appresta a essere distrutto: la discarica. Dunque, quest’ultima è la soglia (per citare un’altra espressione bachtiniana) oltre la quale gli opposti non possono che fondersi, entrare nel caos e nella catastrofe. Il senso del carnevalesco, inteso come coincidenza di alto e basso, lo vediamo anche nella lingua di Campucci: l’ambizione, pienamente soddisfatta, di tenere insieme l’orribile materia trattata con uno stile alto, la riflessione filosofica e la gag demenziale, la citazione colta con quella pop.

 

La scelta della discarica come scenario dell’azione mi ha colpito particolarmente. Scegliere un luogo simile per drammatizzare la deriva esistenziale e la resa dei conti del personaggio porta con sé una densità di significati. Come racconta l’Antico Testamento (secondo libro dei Re, Cronache, Geremia), le radici della discarica di Gerusalemme affonderebbero nel culto del Moloch: se in un primo momento vi venivano bruciati bambini in onore del dio, in seguito, quando questo culto fu bandito, la geenna fu adibita al rogo dei rifiuti. Nel Nuovo Testamento, il toponimo passa a indicare l’inferno:

Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna. (Matteo 5, 22).  

La nostra cultura moderna addensa sulla discarica questi significati e li confonde: è il luogo in cui la società del consumo paga il suo debito al Moloch-Cosmo, in cui riemerge prepotente la Necessità. È anche il luogo dell’appianamento, caratteristica che la avvicina alla lettura del luogo infernale offerta da Bachtin:

Ancor più interessante è la conseguente carnevalizzazione dell’inferno. L’inferno livella i rappresentanti di tutte le posizioni terrene: in esso imperatore e schiavo, ricco e povero, ecc., sono messi sullo stesso piano, con pari diritti, ed entrano in contatto familiare; la morte toglie la corona a tutti coloro che sono incoronati nella vita.

 

Porn Food 5

Il Moloch di Metropolis di Fritz Lang, 1927

 

Campucci ha il talento di suggerire questa chiave di lettura senza renderla evidente, malgrado l’esplicito riferimento pornografico del titolo. Del resto, il suo universo si sostanzia di personaggi bizzarri e spassosi che riescono a “decomprimere”, o forse a deviare, la terribile tensione che esploderà tra le ultime pagine. Ecco uno dei tanti pregi di questo autore che si sta confrontando col ventre molle e con gli incubi del nostro presente: riuscire a rendere divertente ciò che è crudele e brutale. Azzeccatissima, in tal senso, la citazione del marchese De Sade posta in esergo al romanzo. In effetti, oltre a Ellis, forse è quest’ultimo il riferimento più importante di Campucci. Leggo dalla Nuova Justine:

Solo gli sciocchi si scandalizzano; la vera virtù né si spaventa né si allarma alla descrizione del vizio, vi trova una ragione in più per percorrere il santo cammino che si è imposta.

Questo atteggiamento imperioso e totalizzante mi sembra ravvisabile anche nel lavoro di Campucci, e forse è quel che l’autore si aspetta dai lettori. C’è un’altra citazione sadiana che è d’obbligo riportare per dare un’idea del mondo in cui vive il protagonista di Porn Food. Quando Juliette, la sorella viziosa della pudica Justine, rimprovera quest’ultima per la sua eccessiva sensibilità, possiamo leggere:

…[le disse che] niente deve affliggerci a questo mondo; che era possibile trovare in noi stessi sensazioni fisiche di eccitante voluttà da soffocare ogni malessere morale che potrebbe dolorosamente colpirci; che era essenziale mettere in pratica tale procedimento, tanto più che la vera saggezza consiste nel raddoppiare la somma dei piaceri infinitamente più che nel moltiplicare  quella delle pene; che tutto, in una parola, doveva essere fatto per soffocare in noi quella perfida sensibilità dalla quale solo gli altri traggono profitto mentre a noi apporta solo dolori.

Mi pare che Campucci faccia tesoro di questo massimalismo e lo declini alla società dei consumi in cui si muove Andrea personaggio. La stessa prosa si caratterizza per un rifiuto del carico sentimentale (ad esempio, come già visto, l’assenza di senso di colpa) e per un rilancio in direzione opposta:

Quando, però, tornai tutt’a un tratto a pensare alla mia vittima, mi scoprii piacevolmente soddisfatto nel considerare i guai causati ai suoi familiari. Una moglie, se mai ne avesse avuta una, che dopo aver ricevuto la notizia della morte del marito avrebbe risposto alle domande degli agenti in questura, prosciugandosi di lacrime, solo per ricevere, in tarda serata, un referto che le diagnosticava una leucemia linfatica cronica o un carcinoma spinocellulare. Oppure che in seguito, rientrando a casa dopo ripetuti svenimenti e malori davanti alla salma del marito sistemata nella cappellina dell’ospedale di Careggi, fosse stata avvicinata da un gruppo di nordafricani strafatti di crack pronti a sfondarle quella vecchia fica da vedova del cazzo che si ritrovava, per poi lasciarla sul ciglio della strada più morta che viva.

Il punto è che la sensibilità soffocata porta a un’altra deriva leggibile con Sade. Sempre dalla Nuova Justine, quando la protagonista assiste a un’orgia e tenta di andarsene, il narratore descrive in questi termini l’atto di trattenerla sul posto:

Ma la Delmonse, anima e corpo alla sregolatezza e considerando assai giustamente che i suoi piaceri acquisterebbero maggior valore scandalizzando la virtù, si oppone decisamente a che Justine vada via, e comincia lo spettacolo.

L’idea di una violenza praticata sull’innocenza è la chiave per capire la relazione col piacere. Se la Delmonse avesse a che fare con una sciacquetta che divertimento proverebbe nel farla assistere all’orgia? Allo stesso modo, se l’Andrea personaggio avesse ucciso un cattivo e non “un ometto dall’aria mite e rassicurante”, proveremmo forse sdegno o turbamento leggendo Porn Food? No, ci troveremmo in tutt’altra storia, quella in cui un personaggio si convince che un altro meriti di morire; saremmo in Delitto e castigo. La gratuità dell’atto e la prepotenza splatter è ciò che regna nel romanzo, o perlomeno che dà il la all’azione, ed è anche ciò che caratterizza il flusso mentale riguardo al destino della moglie della vittima (vedi sopra).

 

Per concludere, Porn Food si rivela come un’opera da leggere con attenzione, raffinata e capace di suggerire una molteplicità di riflessioni intertestuali. Non possiamo fare altro che continuare a seguire il percorso di Campucci, curiosi di scoprire dove lo condurrà.

 

Il libro può essere acquistato in libreria o sui principali store digitali.

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Andrea Campucci ha ultimato da poco il suo settimo romanzo Movida, che verrà pubblicato grazie ad una campagna crowdfunding su Book Road.

 

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