Serena

La pioggia continuava a picchiare incessantemente sul vetro. Sembrava un torrente in piena, senza alcuna pretesa di essere dannoso. Un libero sfogo proveniente dalle nuvole cariche di ambigue attenzioni. La parte alta della fronte di Serena era appoggiata alla finestra. Non le consentiva alcun tipo di visione, se non quella delle punte dei suoi piedi, accuratamente protette da delle pantofole fuori stagione. Se solo si tentava di emulare un qualsiasi tipo di ritmo coi polpastrelli, si poteva trovare un degno accompagnamento nei rumori provenienti dall’esterno. Non c’era mai stato un aprile così piovoso.

– Come faccio a rimanere altri sei mesi in questa maledetta città? – disse la ragazza rivolgendosi al riflesso sbiadito, offerto dal vetro poco illuminato.

– Continuare a vagare per i vicoli stretti ed impolverati. Con la costante sensazione che, ad ogni mio passo in avanti, ci sia qualcuno pronto ad affacciarsi alla finestra per tentare di farmi ragionare. Insinuare nella mia mente se, dopo tutto, quella sia la corretta direzione in cui incamminarsi. Come se qualcuno glielo abbia mai chiesto. Perpetuare questo dolore allo stomaco. Non una vera e propria infiammazione. No… nulla di tutto questo. Niente di così insopportabile – concluse Serena sospirando.

Improvvisamente si sorprese nel contemplare il riflesso di una delle lentiggini che le proteggevano il viso. Il suo marchio indelebile. Il telefono era spento da tre giorni. Lasciato in bella vista sul tavolo della sala. Una sfida con se stessa e con quella pioggia primaverile.

Serena ripensava a come quello stesso evento atmosferico, fosse così diverso poche centinaia di chilometri più a nord della sua città. Su di un’isola completamente immersa nel verde e che pregava costantemente di essere respirata. A pieni polmoni, diretta al cuore senza alcun tipo di intermediario. Non era affatto semplice resistere. Non lasciarsi cadere all’irrefrenabile pulsione di lasciar tutto e partire. Non senza uno scopo preciso. L’obiettivo di Serena era riacquisire consapevolezza. Riconquistare la posizione di privilegio rispetto a quella che, invece, era la sua attuale condizione. Situazione che le era stata imposta da un ginocchio malandato ma che il resto del suo corpo tentava disperatamente di soverchiare.

La ragazza appoggiò la guancia destra al vetro, delicatamente. Percepì un lieve brivido che le attraversò la spina dorsale in un lampo. Lo stesso che poi si riflesse nel cielo plumbeo al di fuori di quell’appartamento. Fece un breve ma intenso respiro. Prese fiato e si immerse senza precauzioni nelle sue fantasie.

Ora era finalmente sulla costa. Dove la terra finisce in strapiombo ed il mare sembra essere minaccioso ed inevitabilmente attraente nel medesimo istante. Un legame continuo ed indissolubile che percepiva come ininterrotto, sulla propria pelle. Appena sotto lo strato visibile dall’esterno. Come un rivestimento nel quale erano contenute alcune particelle provenienti da quel luogo. Serena poteva riconoscere l’odore di erba bagnata misto a quello del mare. Quanti altri posti potevano vantare una conformazione simile?

– Si sono concentrati tutti sul cielo. Così facendo, non hanno fatto altro che trascurare la terra sotto ai loro piedi – rifletté la ragazza ancora una volta.

Rimase in silenzio per alcuni minuti, e poi continuò: – Mi sono sentita libera fino al momento in cui, quel ragazzo, mi ha fatto notare di essere in gabbia. È davvero incredibile come si possa realizzare di vivere in una condizione totalmente differente, da quella che si pensava di incarnare pochi istanti prima. Una rivelazione non richiesta proprio perché ti conduce in percorsi inesplorati. Nessuno ha mai voglia di ricominciare tutto da capo. Siamo schiavi delle nostre abitudini. Lo facciamo per sopravvivere e poterci districare nell’infinito caos che si pone di fronte a noi, giorno dopo giorno. Una complessità che risulta rivelarsi a dir poco semplice, se paragonata a quello che realmente esiste oltre di noi. Scenari neanche immaginabili per la nostra mente. Eppure, con tutti questi difetti, siamo riusciti a stabilire un equilibrio. Precario, certo, ma pur sempre un sistema in equilibrio. Non tutto quello che avviene in natura, però, può essere accettato dalla mente di una donna. Specie di una ragazza. Non resisto più tra questi vicoli. Il dolore allo stomaco comincia a farsi un po’ più forte. Credo che un giorno mi sarà fatale. Probabilmente morirò a causa dell’acidità che mi provoca il modo in cui la pioggia cade sulle tegole di questi tetti -.

Serena prese il telefono e lo gettò dalla finestra. Decise che il ginocchio sarebbe dovuto essere d’accordo con le sue intenzioni. Anche in caso contrario, l’avrebbe utilizzato fino all’esaurimento di ogni energia. Non poteva più assistere alla pioggia da dietro un vetro. Non poteva più fare a meno di vedere l’erba ondeggiare sotto al peso delle forti raffiche di vento provenienti dal mare.

Strinse i denti e si concentrò sul suolo.

Un tentativo di riformare un legame ormai perso. Un arcaico abbraccio la cui presa era svanita per colpa dell’incomprensione umana. Il profondo richiamo della terra a frequenze impercettibili. Forse percepibili solo grazie alle sue lentiggini. Come una sorta di ricevitore naturale.

Serena si asciugò il viso con la mano, senza andare al di sopra della linea delle guance. Non voleva rischiare di contaminare il suo sguardo.

I suoi occhi bagnati dalla pioggia e dagli schizzi provenienti dal mare. Quegli occhi illuminati da un verde surreale capace di contrastare il grigiore, quasi quotidiano, di quel cielo. Quegli occhi sorretti dalle lentiggini e pronti ad osservare l’antico richiamo terreste. Quegli occhi in attesa di tornare… gli stessi che non hanno mai abbandonato quell’isola.