L'industria alimentare che sta distruggendo il pianeta. 

 

Nella vivace cornice del festival di Internazionale  a Ferrara, il giornalista e regista Stefano Liberti ha presentato il suo ultimo libro, fiancheggiato da Pietro del Soldà di Radio3.

  

“I signori del cibo. Viaggio nell’industria alimentare che sta distruggendo il pianeta” (Minimum Fax), è un libro-inchiesta di interesse estremamente attuale: frutto di un viaggio di due anni intorno al mondo, racconta i controsensi e le assurdità del funzionamento di quattro filiere alimentari, il maiale, la soia, il pomodoro e il tonno.  Racconta di come esse siano totalmente insostenibili a livello socio-ambientale, a causa di uno sfruttamento sconsiderato di risorse e territori.

 

L’autore e Del Soldà hanno aperto l’incontro con l’immagine colorita e sicuramente efficace delle ‘aziende locusta‘: un modo per far capire come le immense multinazionali che gestiscono tali filiere agiscano in modo brutalmente razionale e distruttivo, saccheggiando il territorio finché possibile per poi lasciarlo deprivato e – ai loro occhi – inutile: il primo racconto di Liberti tratta del suo viaggio negli USA, dove ha potuto visitare gli allevamenti intensivi dei maiali.

 

Il sistema di allevamento del maiale è impostato sul metodo ideato a inizio ‘900 da Murphy, e consiste nel mettere grandissime quantità di animali all’interno di capannoni. In questo modo si va però a rompere la catena naturale che lega l’alimentazione alla deiezione, creando un problema di non poco conto. Per ovviare a ciò, gli allevatori hanno creato quelle che in USA chiamano ‘lagune’, che altro non sono – citando l’autore – che “grandi laghi di merda”.  L’autore ha sorvolato con un Cessna tali poco idilliache lagune, complice un pilota estremamente entusiasta e volenteroso a mostrargliele tutte, notando che il colore non è quello che ci aspetteremmo, bensì sono rosa.

 

Il perché è presto detto, e va a delineare una delle principali conseguenze perniciose di questi allevamenti intensivi e volti unicamente al profitto, a discapito della salute di animali e quindi consumatori: i maiali infatti sono spruzzati e nutriti con abbondanti dosi di antibiotici, per prevenire le infezioni che inevitabilmente si accompagnerebbero alla abnorme concentrazione di capi.

 

I signori del cibo

 

Questa deformazione del modello naturale porta ad un altro problema, ovvero il mangime. I maiali non essendo liberi in natura, devono essere nutriti con prodotti specifici: è la soia il principale nutrimento designato a sfamare queste masse impressionanti di maiali, in quantità tali dall’aver richiesto l’utilizzo di aree di coltura sterminate. E’ in Mato Grosso, Brasile, che si è trovata collocazione per tali piantagioni, con aziende che gestiscono aree anche di 200 mila ettari, unità di grandezza totalmente fuori parametro per aziende, anche grandi, del Vecchio Continente. Tali aziende, inoltre, sono chiamate a gestire unicamente la parte agricola, poiché tutto il resto (dal trasporto alla gestione dei diversi prodotti della soia) è in mano a poderose multinazionali con sede in Nordamerica. Il Mato Grosso è una zona molto difficile da raggiungere, impervia, e il trasporto prima in direzione della costa, e sulle navi poi, ha un costo esorbitante in termini ambientali e di denaro.

 

Tutta questa soia viene consumata unicamente dai maiali, in parte in USA ma soprattutto in Cina: è qui infatti che si trova il 50% dei maiali presenti in tutto il pianeta, si parla di 700 milioni di capi, uno ogni due abitanti del Paese. L’autore è addirittura riuscito a parlare con l’amministratore delegato di una delle più grandi aziende cinesi in questo campo, che ha acquisito la principale società americana. Da questo colloquio (impensabile negli Stati Uniti, dove è riuscito unicamente ad ottenere dei ‘video informativi’), è emerso nuovamente il carattere totalmente insostenibile di questa filiera, che vede muovere quantità impensabili di soia dall’altra parte del mondo per nutrire centinaia di milioni di maiali: in Cina, questo sistema risponde all’esigenza ‘nuova’ di un ceto medio in sviluppo, che richiede proteine, una risposta del regime alle velleità pseudo-borghesi di questa nuova importante fascia della popolazione.

 

I signori del cibo

 

L’autore ha poi analizzato un’altra filiera nelle grinfie di aziende-locusta, ossia quella del tonno in scatola: ha raccontato di come tutto è iniziato da una piccola cittadina basca, Bermeo, dove negli anni ’50 diversi gruppetti di pescatori, che facevano la fame a causa della carenza di pesce sulle coste spagnole, intrapresero un pioneristico viaggio fino alle coste dell’Africa. Le spedizioni si rivelarono decisamente proficue, facendo diventare queste romantiche avventure di carattere pioneristico un nuovo sistema-locusta, con immensi pescherecci oggi in mano a gigantesche aziende: ed il problema si esprime con un incontrollato depauperamento della popolazione di pesce, in pieno ‘stile locusta’. L’autore si è recato a Bermeo, dove partendo dalle foto di un depliant fornito da una di queste società, ha rintracciato alcuni di quei pionieri: uno di essi si è riconosciuto addirittura in una foto in cui aveva dodici anni.

 

Il sistema della pesca dei tonni si è dimostrato disastroso anche in altri modi: per esempio nel Pacifico Orientale, per qualche ragione i banchi di tonni viaggiano insieme ai delfini. Di questa peculiarità i pescherecci han fatto tesoro, seguendo i delfini per pescare i tonni… e causando una ‘presa collaterale‘ di delfini (poi uccisi) che può arrivare anche al 50%! Questa notizia ha toccato tanto l’opinione pubblica, da far ridurre in USA il consumo di tonno in scatola del 30%, e portando le aziende che pescano i tonni altrove ad imprimere sulle scatolette la dicitura ‘dolphin safe‘: l’autore ha portato questo caso come segno di quanto il consumatore possa influenzare anche su larga scala l’azione delle multinazionali.

 

Il libro fa meditare su come si sia persa (per volontà anche e soprattutto di queste potenti aziende) l’idea che il cibo sia una cosa ‘reale’, che deriva da un animale, da un ecosistema con i suoi equilibri. Pone l’accento su come l’alimentazione ha effettivamente un’influenza sul macrosistema del nostro pianeta, per quanto le aziende interessate cerchino di dissociare l’idea di animale da quella di cibo, per esempio con un marketing volto ad eliminare dalle confezioni l’immagine dell’animale vero e proprio.

 

Per dare un’idea di come questi equilibri siano delicati, Liberti ha posto una domanda inquietante: “Cosa accadrebbe se il paurosamente numeroso ceto medio cinese cominciasse a desiderare il tonno?”