Un viaggio nella storia mongola attraverso l'esperienza vissuta con una guida particolare.

Poche nazioni al mondo possono vantare una capacità di resilienza al turbinoso fiume della Storia come la Mongolia. Se chiunque bene o male ha una certa conoscenza delle leggendarie gesta del grande Gengis Khan e del suo estesissimo benché poco durevole impero, non tutti sanno che la stirpe mongola ha dovuto sopportare, nei secoli a seguire e praticamente fino all’altro ieri, una catena ininterrotta di dominazioni, massacri, soprusi e genocidi culturali, ora da parte dell’Impero Cinese, quindi dai monaci lamaisti e infine, nel Novecento, da parte del totalitarismo sovietico. Solo da una trentina d’anni la Mongolia può finalmente dirsi indipendente e sovrana. E tuttavia, i fieri discendenti dei nomadi delle steppe [1] mantengono ancora oggi nella propria interiorità una stratificazione culturale e comportamentale di natura allogena, al punto di avvertire la sensazione che il «vero mongolo» possa rinvenirsi solo dopo aver scomposto come una matrioska il soggetto, privandolo prima della sua “corazza” sovietica e quindi di quella sino-tibetana.

 


 

Uno di questi «fieri discendenti dei nomadi delle steppe» è Bolod, guida buriata che parla, oltre alla lingua mongola e a quella russa, imparata a scuola, numerose lingue occidentali apprese da autodidatta: l’inglese, il francese, l’italiano e lo spagnolo. Dopo aver lavorato per decenni, sotto il regime sovietico, in una fabbrica di alimentari, in seguito alla caduta dell’URSS si è dedicato a ciò che aveva più a cuore in assoluto: la Mongolia, la sua tradizione, la sua storia, la sua gente e le sue bellezze naturali.

Dal 1993 ha fondato la Bolod Tours, un’agenzia di viaggi che praticamente coincide con la sua persona. Nonostante abbia un sito costantemente aggiornato e addirittura un profilo Facebook (per rimanere in contatto con le persone conosciute grazie al suo lavoro), non ha mai “raccattato” clienti su internet: il suo modus operandi consiste nel passeggiare, nei giorni liberi, in Chinggis Square, tendere l’orecchio verso le discussioni dei turisti che bazzicano sotto le statue dei grandi Khan dell’impero mongolo e intraprendere con loro conversazioni nei rispettivi idiomi, proponendo gite nella parte settentrionale del paese così come sulla catena dei monti Altai, a Occidente, o nel deserto meridionale del Gobi.

 

Giusto il tempo di compiere una visita di un paio di giorni al celebre parco nazionale di Gorkhi-Tereji e al ritorno nella capitale ci incontriamo nuovamente con Bolod per definire punto per punto un viaggio di una settimana nella Mongolia settentrionale. Partiremo subito la mattina seguente, diretti prima al monastero di Amarbayasgalant, uno dei più riccamente decorati dell’intera Mongolia, dove in quei giorni si sarebbe svolto il festival buddhista che si tiene ogni anno nel mese di agosto, per poi salire sempre più a nord, nella zona dei laghi glaciali al confine con la Siberia, di cui il Khövsghöl è il più esteso nonché il più noto — gli autoctoni lo chiamano il «Mare della Mongolia».

Oltre a Bolod a farci da guida, ad accompagnarci nel nostro viaggio ci sarà, come autista, il colonnello Dava, un amico di Bolod di lunga data. Dava ha servito per trent’anni nell’esercito mongolo, raggiungendo il grado di colonnello. Fuma come un turco e ai tempi d’oro si scolava una bottiglia intera di vodka Chinggis Khan senza dare segno di cedimento alcuno. Sulle prime può sembrare un po’ burbero ma si fa presto a capire che è un vero giocherellone. I suoi occhi blu non derivano da contaminazioni genetiche con DNA caucasico ma — a sentire Bolod — è un fenomeno piuttosto comune in queste zone che con l’avanzare della senilità gli occhi diventino più chiari. Come ogni capitano che si rispetti non abbandona mai la sua nave, nemmeno Dava abbandona la propria, e quando nottetempo noi ci corichiamo nelle nostre tende lui trasforma il sedile posteriore della sua jeep in un giaciglio improvvisato dove trascorrere la notte.

 


 

 

Il festival che si svolge ogni agosto presso il monastero di Amarbayasgalant attira fedeli e curiosi da ogni angolo della Mongolia (e non solo, verrebbe da dire osservando tutte le famigliole cinesi presenti). Più che in Mongolia effettivamente sembra di essere in Tibet: fra tutte le bancarelle espositive solo due sono gestite da mongoli — una che vende rotoli su cui sono impressi i caratteri della lingua tradizionale uigur e l’altra che espone pelli di animali, per lo più ovini. Questa penuria di bancarelle autoctone è per Bolod motivo di disappunto: diventa subito palese il suo disprezzo per i cinesi che hanno conquistato prima per mezzo della religione lamaista, poi con la forza bruta e infine con la pressione economica il suo paese, allontanandolo dalle proprie tradizioni secolari.

 

Ad ogni modo, i protagonisti dell’evento sono i monaci lamaisti, che intonando le sutra durante la cerimonia mattutina promettono la guarigione (o una migliore fortuna economica…) ai fedeli accorsi in gran numero. Epperò l’anima più profonda del festival si può sperimentare solo sull’immenso prato che circonda il monastero, dove centinaia di persone per tre notti campeggiano, bevono airak[2] e ingollano i piatti tipici a base di carne di montone. L’atmosfera al tempo stesso distesa e caotica ha fatto sì che questo festival venisse definito «la Woodstock d’Asia»… ma senza droga.

Anche noi trascorreremo la notte sulle colline che circondano il monastero di Amarbayasgalant, ma più defilati rispetto agli accampamenti di autoctoni che si sviluppano a macchia di fungo su tutto il prato, perdendosi a vista d’occhio. È Bolod a prendere l’iniziativa e a decidere di montare le nostre tende in un luogo isolato: è la notte di San Lorenzo e la sua decisione si rivelerà la migliore possibile. Nessuna luce artificiale giunge a noi dai bivacchi intorno al monastero, solo qualche grido sporadico. Nel buio quasi totale dell’estate mongola, abbiamo così modo di assistere al passaggio della prima stella cadente, poi della seconda, e così via per ore, decine e decine, fino a perdere del tutto il conto.

 

 

Durante la sera passata in campeggio sul lago di Khövsghöl, davanti a un falò magistralmente appicciato dal colonnello Dava («Military tricks!» — com’è solito dire), dopo tre bicchieri di vodka Chinggis Khan Bolod si lascia andare:

«Salute a Marx! Salute a Engels! Brindo a Lenin e al comunismo!».

Dava, da parte sua, ride di gusto, pur non condividendo le vedute politiche del suo connazionale. La sera precedente, campeggiando nei pressi del fiume Selenghe, aveva esclamato: «Due cose detesto sopra ogni altra: il capitalismo e il comunismo!». Eppure lui e Bolod sembrano inseparabili, compagni di vita e di avventure da sempre; insieme formano una sinergia davvero ammirevole [3]. «E a cosa brindi tu, Dava?» — domando. Il suo volto si fa serio, cala il silenzio per qualche istante; poi, con la massima serietà, risponde: «Brindo alla salute» — tirando l’ennesima boccata di sigaretta.

 


 

Nondimeno pure Bolod, pur non perdendo occasione per manifestare la sua infatuazione per il comunismo sovietico, opera spesso e volentieri delle distinzioni. Da una parte afferma di non appoggiare le politiche economiche dei regimi socialisti, dall’altra è grato all’URSS per aver protetto la Mongolia dalle ingerenze e dai tentativi di conquista cinesi e giapponesi. Contro i cinesi “rossi”, in particolare, egli nutre un’avversione viscerale, al punto da considerare il semi-leggendario barone Roman Feodorovitch von Ungern-Sternberg alla stregua di un salvatore della sua patria. «Dobbiamo essergli molto grati per quello che ha fatto», sentenzia.«Se non lo fossimo, non saremmo persone oneste».

Considerato dai mongoli un avatara (emanazione) del dio della guerra pre-buddhista, il «barone pazzo», che vantava una supposta discendenza sia da Gengis Khan che dai crociati teutonici, inseguiva la sua personale “visione”vertente sulla restaurazione di una teocrazia pan-mongolica e lamaista euroasiatica. Come stemma miliare per la sua divisione egli scelse la U, l’iniziale del suo nome ma anche la forma del ferro di cavallo, simbolo dei cavalieri della steppa centroasiatica. Con un contingente di soli 962 uomini — perlopiù cosacchi russi e buriati (circa seicento), oltre a vagabondi e banditi che lo chiamavano teneramente “nonno” e un manipolo di lama che lui stesso addestrò all’arte della guerra — da lui denominato «Divisione Asiatica di Cavalleria», riuscì a sbaragliare un esercito di quasi quindicimila comunisti cinesi in quattro grandi battaglie (di cui due presso Urga, l’odierna capitale Ulan Bator), garantendo così ai mongoli la propria indipendenza e sovranità di fronte allo spauracchio manciuriano.

 

Da parte sua, sul suo diario di guerra Ungern scriveva di sé:

«Mi piace essere chiamato Barone folle. In un mondo capovolto come il nostro dalla Rivoluzione, le menzogne sono divenute verità e la saggezza derisione. Per Trotzski, fermo nel suo sogno messianico, io sono dunque un pazzo. Quale omaggio alla mia lucidità! Quando l’universo crolla, tutto diviene possibile. Mille cavalieri possono ancora sollevare l’Asia. È sufficiente un capo dal pugno di ferro».

Appassionato occultista, il barone inquadrò il conflitto contro i comunisti cinesi in un quadro più sacrale che ideologico. Così egli annota:

«21 giugno 1920. Solstizio d’estate. Ho dato ordine ai miei Cosacchi di accendere dei grandi fuochi sulle colline attorno a Daouria. I partigiani bolscevichi si stanno chiedendo che cosa stiamo preparando. Molto semplicemente un’altra Rivoluzione, un po’ più terribile della loro. Essi adorano la stella rossa. Noi celebriamo il sole giallo. Guerre di religione».

E ancora, il giorno seguente:

«Dei pastori buriati hanno girato tutta la notte attorno ai nostri fuochi. Malgrado il buddismo, essi mantengono qualche vaga nostalgia per il culto solare. L’Asia una volta era bianca. Si adorava il fuoco, dal mar del Giappone al golfo di Finlandia. La sciamanismo resta la religione del radicamento. I Finnici, i Bianchi dello Yang-Tze e gli Ainu celebrano gli stessi misteri della Terra al ritmo lancinante dei tamburi di pelle di renna. Resuscitare tutti questi antichi culti. Portare all’Asia la nostalgia del suo passato bianco» [4].

 


 

Vi è da notare come il personaggio storico del barone Von Ungern ritratto in questa veste di salvatore dell’indipendenza mongola si innesti alla perfezione su una serie di leggende autoctone e profezie riguardanti l’avvento (o la “resurrezione”) di un principe valoroso che sarebbe apparso quando il mondo si fosse avvicinato alla fine. Venendo da nord nelle vesti di un liberatore eroico, per salvare i giusti dai malvagi, egli avrebbe liberato i mongoli dall’oppressione e, infine, avrebbe fondato una nuova èra di prosperità e spiritualità in un regno di pace imperitura denominato Shambala. Così, quando Ungern penetrò in Mongolia per liberarla dal giogo cinese, i nomadi lo salutarono come un liberatore che come per magia era giunto da nord, alla volta di Urga. Fatto ancora più curioso: quando più tardi, dopo la sconfitta del barone, i bolscevichi ebbero accesso alle sue carte personali, vi trovarono una traduzione russa di un testo tibetano che conteneva la profezia di Shambala. Jean Mabire, nel suo libro Ungern, le baron fou(1973), conclude così l’epopea del barone:

«Nelle yurte dell’Asia centrale, attorno ai fuochi attizzati dal vento della steppa, si racconterà a lungo la storia di un dio della guerra reincarnato. Per i Mongoli, per i Buriati, per i Khirghisi, per i Calmucchi, per i Tibetani, per tutti i figli dei guerrieri di Gengis Khan. Ungern non è morto».

Devesi qui riportare quanto rileva Andrei Znamenski [5], vale a dire che:

«il mondo dei nomadi dell’Asia interna era pervaso da leggende epiche, miti, fiabe e racconti che le persone comuni, per lo più pastori analfabeti, si raccontavano fra di loro o le apprendevano dai cantastorie e dagli oracoli. Le profezie erano una parte importante di questa cultura orale venendo così in aiuto per sopportare l’insicurezza della vita e per metabolizzare mentalmente i drammatici cambiamenti dei tempi di crisi. Diffondendosi come fuoco indomabile per pianure e deserti le profezie confortavano la gente, la mobilitizzavano contro i nemici e la guidavano lungo la via giusta. Non raramente i lama affidavano questi messaggi alla carta e li facevano circolare come lettere “a catena” tra i vari monasteri».

 

In tal senso, sebbene le leggende riportassero come nome del «Salvatore della Mongolia» Oirot, Amursana, Geser o Maitreya, nulla vieta che Bolod — così come altri innumerevoli mongoli — abbia interiorizzato queste speranze e abbia rivisto nel «barone pazzo» una copia funzionale e storica del personaggio mitico su cui il mito si fonda. D’altronde, questa profezia e altre simili servirono, al momento della sollevazione dell’Asia interna fra il 1890 e il 1930, le cause separatiste e nazionaliste che invocavano sentimenti «del sangue e della terra» all’interno del variegato mondo del buddhismo mongolo-tibetano.

Per Ungern, Bolod prova un’ammirazione viscerale che sfiora l’adorazione mistica. Di lui conosce vita morte e miracoli, ha letto tutti i libri possibili e immaginabili editi sia in cirillico che in lingua inglese e si premura di consigliarmene personalmente alcuni, con l’augurio di rimediarli al negozio di libri usati di Ulan Bator. Mi mostra orgoglioso anche il suo sito [6], dalla grafica ancora rigorosamente anni Novanta, e in particolare la sezione “Books” dove ci si può imbattere in un corposo elenco — oltre settanta titoli — di opere sulla Mongolia e sull’Asia centrale e settentrionale: Land of the Lamas, Unknown Mongolia, Men and Gods in Mongolia, Among the Celestials sono solo alcuni titoli tra quelli segnalati in questa lista, alcuni dei quali editi addirittura nell’Ottocento.

 

 

Ovviamente Bolod conosce approfonditamente anche le gesta di Ferdinand A. Ossendowski, e soprattutto la sua opera culto Beasts, Men and Gods [7], di cui possiede la prima edizione americana (decima ristampa) del 1923, dono di un turista a cui aveva concesso i suoi servigi da guida negli anni Novanta. Durante la visita al monastero di Bulgan, esclama compiaciuto:

«Qui, proprio tra queste mura, si incontrarono per la prima volta Ossendowski e il barone von Ungern!».

Fuori dal monastero, nel cortile interno del tempio, giovanissimi lama giocano con un cucciolo di cane nero. In questo luogo, sacro e profano si intersecano palpabilmente, al punto che spesso è difficile distinguere dove finisca l’uno e inizi l’altro.

 


 

Sul soffitto del tempio campeggia un voluminoso lampadario raffigurante la ruota del samsara, tradizionalmente il simbolo principale del buddhismo kalachakra, dottrina che prevede un insieme di tecniche astrologiche e meditative (tantra e visualizzazione di divinità) volte al raggiungimento dell’illuminazione durante la vita, e quindi alla liberazione definitiva dalla ruota samsarica delle rinascite. Queste tecniche comparvero nel nord dell’India intorno al VII secolo, furono messe per iscritto nel IX e poi tradotte in tibetano intorno al 1200, per poi giungere successivamente anche in Mongolia.

Divinità centrale di questa dottrinaè Chakravarti, il «Signore della Ruota», che dalla sua posizione fissa, indifferente al divenire, governa impersonalmente il destino di tutte le anime che si reincarnano nei kulpa sulla terra, nel piano sublunare.  Chakravarti è colui che lentamente e senza sosta fa girare la ruota del samsara. Ogni cosa necessariamente gli ubbidisce: tempo, spazio, materia. Nulla lo sfiora né lo può turbare. Egli è al di sopra e al di là del bene e del male. Inutile dire che Chakravarti ha non poche affinità con il «Re del Mondo» delle leggende mongole e tibetane che Ossendowski ebbe modo di ascoltare e apprendere durante le sue peregrinazioni nell’Asia centrale, e che fu oggetto della trattazione dell’esoterista francese René Guénon prima sotto forma di articolo nel 1924, poi — tre anni più tardi — come monografia definitiva dal titolo, appunto, Le roi du monde  [8].

 

Come già notato in altri monasteri e templi buddhisti, anche in questo predominano le raffigurazioni di divinità irate e sanguinarie. La gente comune, infatti, ritiene che le preghiere destinate alle divinità tremende siano più efficaci rispetto a quelle indirizzate a quelle più benevole. Per questo in Mongolia, dove il buddhismo ha interessato anche e soprattutto popolazioni nomadi dedite alla pastorizia, è molto facile nei templi imbattersi in immagini di Mahakala, Palden Lhamo, Begtse e altre divinità terrifiche.

Lo stesso Gengis Khan, dopo la morte, venne trasformato in una divinità protettiva di tal guisa: il testo di una preghiera sacrificale del 1903 [9] a lui rivolta per tenere lontano i nemici della fede e le persone disoneste garantiva il potere di «controllare ogni cosa, che siano atti di guerra, nemici, rapinatori, briganti, le maledizioni di odiati nemici, o qualsiasi avversità». Per ottenere ciò si sarebbe dovuto mescere «brandy, sangue di un uomo ucciso, truciolo di una sbarra di ferro con cui è stato ucciso un uomo» e offrire il tutto con farina, burro, latte e tè nero.

 

 

È però da dire che, da simpatizzante sovietico, Bolod nutre una certa avversione per i lama buddhisti, rei di non aver fatto abbastanza per garantire con la lotta armata l’indipendenza del proprio paese — con l’unica eccezione, ovviamente, del manipolo di monaci che faceva parte dell’esercito improvvisato del barone von Ungern. Tra le altre cose, Bolod li incolpa di aver spodestato, dopo il loro arrivo dal Tibet, gli antichi culti sciamani mongoli, così come avevano già fatto in passato giungendo in Tibet, dove avevano sostituito la religione animista Bon. In un crescendo di concitazione, giunge a rendere plauso ai massacri di monaci e alle distruzioni dei secolari monasteri lambisti operati dai bolscevichi, per far posto a ospedali e scuole — ovviamente di stampo sovietico.

In questo atteggiamento Bolod ricorda Agvan Dorzhiev, un lama (anch’egli) buriato che fu ambasciatore nel Tibet per conto dei bolscevichi. Anche Dorzhiev, alla maniera di Bolod — come scrive Znamenski [10] — «non approvava il lussuoso stile di vita e l’elitismo di alcuni suo correligionari», ragion per cui si rese protagonista di una riforma religiosa fra il clero buddhista della Siberia reclamizzandolo come un ritorno all’insegnamento originale di Buddha, ma in realtà stava tentando di rimodellare il buddhismo tibetano in Russia secondo i principi e i dettami comunisti. D’altronde moltissimi fra i buriati (gruppo etnico di cui Bolod fa parte) e i calmucchi, popoli che vivevano nell’area siberiana o sul confine russo-mongolo, vennero indottrinati nei primi decenni del XX secolo nelle università sovietiche dove [11] «furono imbottit[i] con le idee popolari di anarchismo, socialismo, marxismo e autonomia siberiana».

 

Riguardo lo sciamanesimo, pur mostrandosi quantomeno dubbioso, Bolod la ritiene la forma cultuale a lui più congeniale e accenna con una malcelata amarezza alle campagne di pogrom portate avanti dai bolscevichi sovietici contro gli sciamani mongoli, soprattutto buriati come lui e siberiani. È risaputo che, a partire dagli anni Trenta, nella Mongolia sottomessa all’Unione Sovietica i culti sciamanici vennero dichiarati illegali, in virtù dell’odio viscerale dei bolscevichi per qualunque forma di sentimento religioso che avrebbe potuto interferire con i dettami comunisti e dittatoriali del regime, che in ultima analisi si presentava anch’esso con caratteri cripto-cultuali.

Infatti, come rileva Znamenski [12]:

«la filosofia del marxismo […] come una qualsiasi religione […] reclamava la verità assoluta e offriva una spiegazione universale del passato e del futuro. Il marxismo profetizzava anche che alla fine, tutto il male sarebbe stato superato una volta per tutte, nel corso di un futuro rivoluzionario armageddon per tutto il mondo che avrebbe spazzato via il capitalismo e l’oppressione».

A ciò si aggiunga che [13] «Sarkisyanz non solo ha considerato il marxismo sovietico come una forma surrogata di religione laica ma è stato anche il primo a dimostrare come il messaggio profetico bolscevico fosse stato adattato alle aspirazioni delle società tribali e tradizionali della Russia e dell’Asia». L’antropologo Anthony Wallace, studioso di movimenti profetici, sottolinea tra gli elementi “religiosi” del movimento comunista lo sviluppo di un «vangelo marxista», l’imbalsamazione del corpo di Lenin, la «preoccupazione della conversione, come la confessione e la purezza morale».

 

Tenendo conto di ciò, non stupisce che solo nel 1990, in seguito alla disgregazione dell’URSS, agli sciamani mongoli fu concesso di tornare a compiere i propri rituali alla luce del giorno, senza temere per la propria vita: ebbe così inizio un vero e proprio revival delle pratiche sciamanica autoctone, che nonostante le sanguinarie repressioni comuniste non scomparirono mai del tutto, ma continuarono a esistere in modo segreto e “sotterraneo”. Ad oggi, lo sciamanesimo è una delle forme cultuali più seguite e praticate in Mongolia, secondo solo al buddhismo lamaista.

 


 

Bolod ha un’opinione mista sullo sciamanesimo. Pur reputandolo, come si è detto, la forma religiosa più prossima alla sua forma mentis, egli diffida da quasi tutti gli sciamani che durante i suoi sessant’anni di vita ha visto all’opera. Sostiene che probabilmente un tempo gli sciamani fossero più “seri”, mentre adesso tendono a confondersi con degli “ubriaconi” se non addirittura con dei “malati mentali”. Questa impostazione a mio parere del tutto inaccettabile di considerare l’arte sciamanica alla stregua di una malattia psichica deriva dalla nefasta influenza bolscevica, come ha ben chiarito lo storico delle religioni romeno Mircea Eliade nella sua opera Le chamanisme et les techniques archaïques de l’extase [14] — in cui peraltro larghissimo spazio viene dato alla tradizione sciamanica buriata (e siberiana). Il futuro sciamano sperimenta sempre un periodo della sua vita al limite della sanità mentale e fisica, il più delle volte in tenera età. Secondo la tradizione — non solo buriata, ma universalmente parlando — questa situazione al limite, «malattia dell’anima e del fisico», altro non è che il segno di una elezione da parte degli spiriti. Ne deriva che nessuno può diventare un vero «viaggiatore tra i mondi» senza attraversare questa condizione di temporanea menomazione psico-fisica.

 

Bolod annuisce, ma rincara la dose:

«Non mi fido molto delle pratiche sciamaniche perché molti dei miei amici di gioventù, dopo aver iniziato l’apprendistato, sono morti nel giro di pochi anni».

Certo le pratiche dello sciamanesimo possono diventare molto pericolose per coloro che decidono di diventare operatori estatici senza essere stati investiti da un’elezione vera e propria da parte degli spiriti e senza aver ricevuto una dovuta preparazione psico-fisica. A ciò, inoltre, devesi aggiungere che anche l’incolumità di coloro che siano in grado di padroneggiare al meglio tali tecniche spirituali è sempre stata, sotto il regime sovietico, a rischio. Uno sciamano molto riverito che Bolod conosceva personalmente — racconta — è stato ucciso proprio dai sovietici, e chissà quanti altri hanno fatto la stessa fine. La medesima situazione ho avuto modo di constatarla personalmente dall’altra parte del mondo, sulle Ande del Perù settentrionale, nella regione di Huancabamba. Qui, l’anno scorso, dopo essere giunto in possesso del nominativo di uno sciamano molto noto — e peraltro estremamente giovane — che avevo rimediato strada facendo, appresi con amarezza che era stato eliminato l’anno precedente da sicari inviati dal governo filo-statunitense, a causa delle proteste e battaglie che portava avanti in prima persona contro lo sfruttamento delle risorse naturali da parte delle multinazionali a stelle e strisce.

In ciò, fra le altre cose, due dottrine apparentemente diametralmente opposte quali si presenta(va)no il capitalismo globalista statunitense e il bolscevismo sovietico si sono rivelate in ultima analisi grottescamente simili, tanto nelle intenzioni quanto nei delitti compiuti per raggiungere i propri scopi. In ciò, forse, potendosi riconoscere il sostrato esperienziale sotteso all’apparentemente paradossale — ma in realtà coerentissima — perentoria affermazione del colonnello Dava sulle banchine del Selenghe.

 


 

Note:

 

[1]  Sulla vita dei nomadi allevatori delle steppe della Mongolia, rimandiamo alla lettura del nostro articolo Vita da gher: il nomadismo in Mongolia, su IlCartello.

 

[2] Una bevanda tradizionale leggermente alcolica ottenuta con latte di giumenta non pastorizzato, che in queste occasioni bevono anche i bambini.

 

[3] Ciò dovrebbe far riflettere coloro che in Occidente si proclamano “inclusivisti” pur risultando, a conti fatti, i peggiori esclusivisti e discriminatori verso chi professa opinioni e vedute anche solo parzialmente diverse dalle loro.

 

[4] Sulla figura del barone Von Ungern e sulla sua peculiare religiosità, si veda anche Amodio Della Guerra, La religiosità di von Ungern-Sternberg: tra buddhismo, sciamanesimo e cristianesimo, su AXIS mundi.

 

[5] Andrei Znamenski, Shambala Rossa. Magia, profezia e geopolitica nel cuore dell’Asia. Settimo Sigillo, Roma, 2015, p. 54.

 

[6] www.bolodtours.com

 

[7] Edito in Italia dalle edizioni Mediterranee, con il titolo Bestie, uomini, dei.

 

[8] Edito in Italia dalle edizioni Adelphi, con il titolo Il re del mondo.

 

[9] Znamenski, op. cit., p. 45.

 

[10] Ibidem, p. 150.

 

[11] Ibidem, p. 153.

 

[12] Ibidem, p. 143.

 

[13] Ibidem, p. 22.

 

[14] Edita in Italia dalle edizioni Mediterranee, con il titolo Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi.