Al Festival di Cannes la storia ispirata al musicista Dave Van Ronk.

Passo falso. Ovvero, come ci suggerisce un qualunque dizionario, cadere in errore, sbagliare o sbagliarsi. Ecco, se c’è qualcosa che mi stupisce del cinema dei fratelli Coen è proprio l’assenza, nella loro filmografia (che conta sedici film in circa trent’anni), di veri e propri passi falsi, di film sbagliati insomma.
La loro ultima fatica, A proposito di Davis, presentata allo scorso festival di Cannes, si inserisce perfettamente in una filmografia assolutamente coerente: è la storia di Llewyn Davis (ispirato al musicista Dave Van Ronk) uno dei tanti cantanti folk che riempivano la scena dei sixties nel Greenwich Village newyorkese. Lo stesso Village, gli stessi anni, che furono testimoni dei primi passi di Bob Dylan. Llewyn Davis (interpretato da Oscar Isaac) è solo l’ultimo dei tanti personaggi che popolano l’universo cinematografico coeniano, personaggi che sono, ciascuno a suo modo, dei perdenti, degli sfigati, degli uomini senza qualità, dimenticati o dimenticabili, anonimi volti persi nel caos della vita.
Un microfono, la voce tormentata di Llewyn Davis, lo straziante appello di “Hang me, oh hang me”, aprono la prima scena del film in uno dei tanti locali del Village. Al termine dell’esecuzione si avvicina al cantante un signore, intuiamo sia il proprietario del locale, che lo invita ad uscire; un amico lo aspetta fuori, dice. Fuori dal locale dove, appena uscito, Llewyn riceverà un sacco di botte. Finisce così l’opening del film, poco più di cinque minuti, sufficienti però per farci capire chi è Llewyn Davis. Nella scena successiva il protagonista, disturbato nel sonno da un gatto (gatto che ritornerà più volte nel corso del film con una precisa valenza simbolica), si sveglia in una casa vuota, su di un divano. Uno dei tanti divani in cui Llewyn, senza dimora e senza un soldo in tasca, passa le proprie notti per ripararsi dal freddo inverno di Manhattan.
A proposito di Davis - Fratelli Coen_1
È il divano dei genitori del defunto partner artistico di Llewyn, morto suicida, verremo a sapere. Forse gli unici due personaggi che provano un reale affetto per lui, considerando che pure la sorella prova una sorta di disprezzo per la vita che conduce il fratello. Per non dire poi della ragazza (ingravidata da Llewyn, e non è la sola) interpretata da Carey Mulligan (che completa il cast con Justin Timberlake e John Goodman, quest’ultimo nei panni di un musicista jazz piuttosto bizzarro) che in una scena emblematica del film gli rinfaccia tutto il suo rancore. Insomma, Llewyn è il classico personaggio sfigato coeniano e non è che poi faccia molto per non esserlo, prigioniero com’è in una sorta di limbo, incapace di liberarsi da un’esistenza che gli passa davanti senza che riesca in alcun modo ad afferrarla. Ma nonostante tutto non riusciamo a non empatizzare con lui. Anche quando, per una birra di troppo, cede alla tentazione dell’insulto gratuito nei confronti di chi, come lui, cerca solo di farsi largo in un mondo in cui inizia ad imporsi la zazzera del menestrello più famoso della musica americana.
 
Alla fine poi, nella perfetta chiusura del cerchio, torniamo dove eravamo partiti. Al locale, ad “Hang me, oh hang me”, alle botte. Quelle botte che prima non avevano ragione e che ora siamo in grado di capire perfettamente. Au revoir Llewin. Au revoir Coen. Al prossimo film. Che scommettiamo non sarà un passo falso, così come non lo è stato A proposito di Davis.